L’ALTA SCUOLA EQUESTRE ARAGONESE

I re aragonesi di Napoli e l’Alta Scuola Equestre





  seguendo il modello della sua terra di origine, il re aveva creato le così détte cavallerizze, strutture di alloggiamento per stalloni e campi d´addestramento dove veniva allevata “la razza del re”, successivamente nota come cavallo del regno di napoli o corsiero napoletano

Immagine a lato:

Arco di tionfo di Alfonso V in Castel Nuovo (1452 - 1466)

Francesco Laurana (Zara, 1430 - Avignone, 1502)






di  Kari Lawe


Durante il rinascimento ed il barocco grandiose feste equestri (caroselli) costituivano un elemento centrale nella cultura di corte. Trattati di pace, matrimoni e nascite di eredi erano sempre buone ragioni per metterne in scena qualcuno.
Elemento centrale del carosello era un elegante ballo nel quale cavalli e cavalieri eseguivano passi, movimenti e salti dell’Alta scuola equestre. Secondo il padre gesuita francese Claude Francois Ménestrier (1631-1705) scopo di queste performances era di rappresentare la corrispondenza terrestre delle armonie dei pianeti (1). Secondo l’opinione prevalente tra gli storici di quest’arte, l’Alta scuola equestre sarebbe iniziata nella prima parte del cinquecento: Gli ordini di cavalcare del nobiluomo napoletano Federico Grisone, fondatore della prima Accademia di equitazione, furono stampati a Napoli nel 1550 (2).
Testimonianze più recenti indicano che questa tradizione, di cui Federico Grisone era riconosciuto interprete, aveva almeno cent’anni di più. Ne Il Cavallerizzo, pubblicato a Venezia nel 1562, il maestro Claudio Corte, indica l’epoca aragonese a Napoli come l’età d´oro per l´equitazione - “...quando i cavalli erano veramente buoni e i cavallerizzi erano in grande stima...” (3), ed il re Ferrante era “...eccellentissimo maestro e conoscitore de´cavalli...”(4).
Nel suo Cavallo frenato il napoletano Pirro Antonio Ferraro (1620) riferisce che lo stesso Federico Grisone apprese l’arte equestre da Cola Pagano, allievo di Monte Pagano, cavallerizzo maggiore del re Ferrante ed illustre esponente della scuola aragonese (5). Da altre fonti si apprende che l’equitazione, attività esclusivamente militare, diviene nel’400 arte di corte che si esprime nelle parate - le cosiddette cavalcate - nelle splendide giostre e in diverse altre cerimonie e costituisce ben presto elemento essenziale nella formazione del gentiluomo ideale dell’età moderna, quel “Cortegiano” che sarà descritto da Baldassar Castiglione.
Il nuovo tipo d’equitazione e l’immagine che vi corrisponde occupano un posto di primo piano nella corte aragonese di Napoli. Già all’epoca di Alfonso V (1416-1458), giovani nobiluomini come i fratelli Ercole e Sigismondo d’Este vanno a Napoli per ricevere un’educazione cortese (6), attratti soprattutto dal nuovo stile di quell’arte e desiderosi di far propria l’abilità e l’eleganza dei cavalieri aragonesi. Una cronaca anonima dell’epoca, nel Giornale del duca di Monteleone attribuisce ad Alfonso V l’esercito più bello e i cavalieri più eleganti del suo tempo, senza confronto con i cavalieri del resto d’Italia. Napoli fu una vera società a cavallo. Nessuno fra coloro che contavano, ignorava l’equitazione (7) e lo stesso maggiordomo di Alfonso V, il catalano Manuel Diez (8), non disdegnava di esercitare la mascalcìa.
Alla fama della vita di corte partenopea non erano estranee le magnifiche feste cavalleresche che vi si svolgevano e che assumevano, spesso, il carattere di cavalcate trionfali. Le giostre vedevano lo svolgersi di splendidi giochi equestri, simili ai caroselli barocchi e dell’alto rinascimento (9).
La prima di queste feste ebbe luogo il 26 febbraio 1443 quando Alfonso V, che a seguito della sconfitta di Ruggero d´Angiò era divenuto re di Napoli, fece la sua entrata solenne nella città: il corteo, partito dalla Porta del Mercato - dove fu costruito un grandioso arco di trionfo, il primo del rinascimento - si concluse a Castel Nuovo. Il re sfilava su di una carrozza dorata tirata da quattro cavalli bianchissimi, preceduta da un gruppo di musicisti sulle loro cavalcature, da sette cavalieri che rappresentavano le sette virtù, da carrozze con figure allegoriche, da sacerdoti, da vescovi e mercanti a piedi. Seguivano, anch’essi a piedi, il Principe ereditario e la nobiltà napoletana e spagnola (10). L’ingresso solenne e fastoso di Alfonso nella città divenne il modello stesso, il paradigma di ciò che doveva essere un corteo (11).
Pochi anni dopo, nell’aprile del 1452, Napoli ricevette la visita dei reali d’Ungheria e la festa che ne seguì fu forse la più importante dell’epoca, stando all’anonimo Come lo imperatore Federico entrò in Napoli (12): i giochi equestri, preceduti da una mostra di cavalli di gran razza, videro una “splendissima cavalcata” di quattrocento corsieri di grande statura e bellezza, “fatti et ammaestrati a tutto ad ogni presto maneggio” (13).
Seguivano altri quattrocento cavalli (14) - berberi, turchi, ginetti e greci - dopo i quali facevano mostra di sé ancora duecento destrieri della razza del re, allevati dallo stesso Alfonso, “...li quali erano allevati nel Regno con le giumente e loro stalloni di razza di Spagna con estrema bellezza e bontà” (15).
“Saria lungo a scrivere tutto quello che fu usato di gran valore e pompa - dice ancora l’autore - e che liberalmente fu detto di li cavalli grandi, belli, alti di statura, che mai s’erano piú visti, e non in poco numero, che lo re faceva cavalcare ogni dia a tutti li gentiluomini a Napoli” (16) in questa occasione lo stesso sovrano e il principe Ferrante parteciparono, in piazza dell’Immacolata, a una giostra tavoliere o jogo de tavola, di origine iberica, nella quale il cavaliere doveva colpire una tavola con una lancia o con un giavellotto (17). Ferrante stesso “figliuolo di sua Maestà ... tanto fu lodato in quella giornata per lo cavalcare, lo portare e mettere della lancia, e benchè fusse piccolo pareva fabricato sull’archione” (18).
Grandi banchetti pubblici, tornei, balli, girandole completavano la grande festa durata tre intere giornate. Il Jogo de la Tavolata, come il Juego di Cannas - dove gli eleganti competitori erano divisi in squadre e combattevano con lance smussate (19) - non erano praticati in Italia e furono un contributo di Alfonso che li introdusse alla vita ed alla cultura cavalleresca napoletana: lo stesso munifico sovrano arricchì la città di una nuova arena, Piazza della Sellaria, situata nel bel mezzo di Napoli, uno dei luoghi più prestigiosi ed eleganti di tutto il Quattrocento partenopeo (20).

da Gli ordini di cavalcare del nobiluomo

Federico Grisone (1550)




Feste e cerimonie non erano il solo interesse equestre di Alfonso, che si occupava anche di allevamento ed addestramento di cavalli.
Seguendo il modello della sua terra di origine, il re aveva creato le cosi dette cavallerizze (dal castigliano caballerizas), ossia strutture di alloggiamento per stalloni, allevamento e campi d´addestramento, poste sotto la direzione di cavallerizzi (dal castigliano caballerizos) (21), sottoposti ad un cavallerizzo maggiore, ruolo ricoperto, durante regno d’Alfonso, dallo stesso Ferrante (22). Nelle cavallerizze reali era allevata “la razza del re” (23). Successivamente nota come cavallo del Regno di Napoli o Corsiero napoletano, frutto di incroci tra cavalli italiani – l’Italia medioevale (soprattutto Puglia, Calabria, Abruzzo) era stata terra di eccellente produzione ippica (24) - greci, iberici, nordafricani, lombardi e cavalli spagnoli provenienti dalle terre di Alfonso (25). I puledri di questa razza erano regalo apprezzato da principi e potentati d’Italia, oltre che dallo stesso esercito reale (26).
Le cavallerizze reali erano oggetto di stupita curiosità da parte degli ospiti del re: la stessa coppia imperiale d’Ungheria, prima di concludere la visita del 1452, ebbe modo di visitare quelle di Nola e Longola, dirette dal principe Ferrante (27), dove ricevette in dono alcuni di questi nobili animali. Come fa notare l’autore di una cronaca dell’epoca, l’accurato monarca allevatore non trascurava gli accorgimenti di sicurezza: le scuderie avevano, per l’entrata e l’uscita, porte distinte (28).
La fama di elegante corte quattrocentesca non venne meno anche durante il regno degli eredi di Alfonso, il figlio Ferrante e il nipote Alfonso II: si accrebbe anzi la sua importanza come centro di cultura equestre, con giostre e cavalcate ancor più magnificenti che sottolineavano prestigiosamente ogni solennità civile e religiosa ed ogni evento politico importante, mentre il re, la regina, e i loro figli non perdevano occasione per una cavalcata lungo le strade di Napoli (29): il sovrano poi era talmente affezionato ai suoi corsieri che - se impossibilitato a cavalcare - trascorreva, tempo permettendo, intere ore a contemplarli dalle finestre del palazzo reale (30).
Prima di quest’epoca l’arte dell’allevamento equino veniva tramandata oralmente (31): istruzioni scritte, come nell’Hippiatria del Ruffo sono rare (32).
Il primo vero manuale specialistico di addestramento dei puledri e di correzione degli esemplari difficili - Della disciplina dei cavalli - fu scritto proprio sotto la monarchia di Ferrante, al quale fu dedicato dall’autore, tale Antonello Scilla, maestro di stalla (33). L’opera non fu mai data alle stampe, e ciò che oggi ne resta sono l’introduzione e qualche disegno che illustra alcuni tipi di briglie. Più ancora dei libri sono numerose le corrispondenze epistolari che trattano di argomenti equestri: i cavalli confiscati - insieme ad altri beni - ai nobili giustiziati durante la “rivolta dei baroni”, del 1486, duramente repressa da Ferrante, furono affidati alle cure di Bernardino Mangione e Bernabò de Arenante, collaboratori del re, con precise istruzioni scritte in merito all’allevamento di stalloni, giumente e puledri, ma soprattutto riguardo alla doma, questa deve cominciare quando il puledro ha due anni: divezzato nel mese di marzo (34), nell’ottobre successivo, viene lavorato alla longhina, con cavezza e cavaliere in sella, sotto gli occhi vigili di Bernardino e Bernabò i quali, oltre a controllare le operazioni, si accertano che nessun cavallo venga maltrattato (35) e che venga lavorato a due mani affinchè non sviluppi una parte forte e una più debole, che si usino briglie che non rovinino la bocca e che gli animali non subiscano maniere brusche e frettolose.
Prescrizioni simili, relative alla doma, sono raccolte in un manuale del conte di Tripoli, il catalano Joan Tafures (36).
In una lettera del 1467 a Federico da Montefeltro, dove gli annuncia che gli avrebbe inviato alcuni cavalli, lo stesso Ferrante consiglia di consultare Don Alfonso ed il cavaliere Orsini, eccellenti conoscitori di meriti e bisogni dei soldati (37), per distribuire opportunamente a questi le loro cavalcature. Nel novembre 1492 regala due ambiatori (l’ambio è un passo nel quale l’animale incede muovendo contemporaneamente i due arti di un lato e non in maniera alternata come di consueto) all’arcivescovo di Tarragona, Gonzalvo Fernandez de Herida: il dono è accompagnato da una lettera nella quale Ferrante si sofferma in particolare su uno dei cavalli, un stallone morello, discendente di un cavallo castigliano, che aveva bisogno di un trattamento molto attento con riguardo soprattutto agli speroni e con la raccomandazione di affidarlo a persona esperta, quando l’arcivescovo stesso non lo montasse (38). Alla figlia Eleonora, duchessa di Ferrara, invia una lista di istruzioni per il trattamento dei cavalli inviati al nipote Ferdinando (39); nel 1493 invita il suo ambasciatore a Roma, Luigi de Paladinis, a dare una buona educazione equestre e militare a Don Joffré de Borgia, figlio di papa Alessandro VI, secondo il desiderio del padre (40); sempre nello stesso anno dà consigli a Giangaleazzo di Sanseverino su alcuni problemi relativi alla bocca del suo cavallo (41).
Dell’amore dei re aragonesi di Napoli per le attività equestri e la loro competenza e abilità in questa materia, non potevano mancare rappresentazioni artistiche e letterarie.
In memoria del suo ingresso trionfale a Napoli, nel 1443, Alfonso aveva fatto erigere il celebre arco marmoreo in Castel Nuovo (42). Il progetto prevedeva anche una statua equestre, rivolta verso la città, che rappresentava Alfonso V al galoppo: un galoppo balzante e molto veloce, impiegato abitualmente nel combattimento corpo a corpo. Il progetto non fu mai eseguito e ce ne rimane, a testimonianza, soltanto il disegno di Pisanello (43). Il manoscritto 731 della Biblioteca Universitaria di Valencia - la Cyropedia di Senofonte tradotta da Poggio Brancolino su commissione di Alfonso V - reca un’immagine del re a cavallo mentre l’animale esegue il movimento rampante chiamato posada, detta più tardi pesade o levade (44).
Nel 1465, in occasione del matrimonio di Ferrante con la cugina Giovanna, sorella di Ferdinando il Cattolico, ebbe luogo una splendida giostra in piazza della Sellaria (45), descritta dal cronista Giuliano Passaro, che si sofferma sulle bardature di cavalli e cavalieri e sul destriero del duca di Calabria “... un cavallo che andava all’aria con li salti (cioè che conosce la posada) e poi rompio quattro lanze indorate molto degnamente...” (46).
Nel pannello della porta bronzea di Castel Nuovo a Napoli, lo scultore Guglielmo Monaco raffigura la conclusione della battaglia di Troia con Alfonso di Calabria il cui cavallo esegue il piaffè, un trotto sul posto molto raccolto (47), mentre di un animale, da lui stesso regalato al nipote Alfonso d’Este Ferrante, scrive che “… va alto tanto bene quanto dire se possa” (48): anche questo, insomma, conosce la posada.
Mattia Corvino (1458-1490), re d’Ungheria, è tra i pochi che non apprezza la scuola equestre aragonese e scrive che “...gynectos vero, qui hispano more conglobatis pedibus saltare norunt, nec unquam habere desideravimus nec voluimus unquam” (49). Ma è l’unico, tra i principi contemporanei, a non apprezzare l’alta scuola equestre: gli altri erano invece impazienti di apprenderla e per tutto un secolo furono esportati dal Regno di Napoli, nei diversi paesi d’´Europa, innumerevoli cavalli e non pochi maestri d’equitazione (50).
Un centro meno conosciuto, ma con un forte collegamento con la corte di Napoli, e di grandissima importanza per il futuro impiego dell’equitazione nel cerimoniale, fu la corte papale a Roma. Durante il Rinascimento e l’età Barocca Roma era la vera capitale delle cavalcate in stile trionfale e delle grande feste semi-religiose e semi-equestri (51). La maggioranza dei cardinali e dei papi erano eccellenti cavalieri ed avevano interesse non meno teorico che pratico per l´equitazione. Federico Grisone dedica Gli ordini di cavalcare al cardinale Ippolito d’Este, pronipote del re Ferrante e Claudio Corte dedica Il Cavallerizzo ad Alessandro Farnese, il Gran Cardinale (52).

Il collegamento tra corte napoletana e corte papale comincia con Innocenzo VIII, educato alla corte di Napoli (53) ed Alessandro VI, che aveva inviato a Napoli sia il già citato figlio Jofré che un nipote, il futuro cardinale Pier Luigi Borgia Lanzol-Romani, affinchè vi ricevessero un’istruzione (54). La corte papale di Giulio II, successore di Alessandro, fu un centro di sviluppo del nuovo ideale cortese nel quale l’equitazione è tenuta in grande onore.
Ostaggio della corte di Giulio II° fu Federico II Gonzaga, grande appassionato di arti equestri: ma non soltanto, se il vescovo Arsago, in una lettera alla marchesa Isabella d´Este Gonzaga del 39 giugno 1511, può scrivere che suo figlio Federico aveva cominciato ad imparare a “balare alla francese e cavalcare a la spagnola.” (55).

seguendo il modello della sua terra di origine, il re aveva creato le così détte cavallerizze, strutture di alloggiamento per stalloni e campi d´addestramento dove veniva allevata “la razza del re”, successivamente nota come cavallo del regno di napoli o corsiero napoletano