Anno 8 - N. 24/ 2009
La città fantasma
La città di Berenice Pancrisia
Le stele erette all'estremità dei tumuli ci confermano che si tratta di inumazioni islamiche. Risalgono probabilmente al periodo della "corsa all'oro", la prima di cui si ha notizia nella storia, quando, tra l'820 e l'830 d.C., migliaia di arabi si riversarono nel deserto per inseguire un miraggio dorato.
di Alfredo e Angelo Castiglioni
Alla fine dell’800, circolava nei tortuosi vicoli del “suk” del Cairo, una curiosa leggenda.
Esisteva nel cuore del deserto una “città-fantasma” che era possibile vedere una sola volta, perché un malizioso genio – un “ginn”– che ne era il geloso custode, la faceva sparire agli occhi di coloro che, avendola vista una volta, desideravano rivederla.
Il 12 febbraio 1989, durante una missione archeologica nel cuore del deserto nubiano sudanese, ritrovammo la dimenticata città di Berenice Pancrisia, la città “tutta d’oro”dei faraoni (dal greco Panchrysos). Citata da Plinio il Vecchio, nella sua “Naturalis Historia” al libro terzo, se ne era persa ogni traccia col trascorrere dei secoli. Un ritrovamento che l’Accademico di Francia, Jean Vercoutter, ha annoverato tra le “grandi scoperte dell’archeologia”.
Questo anno cade il ventennale dalla scoperta.
Vogliamo proporre ai lettori alcun pagine del diario della missione con la speranza di condividere con loro le emozioni di quel lontano giorno.
12 febbraio 1989
Ore 5,30
“Ci svegliamo all’alba e in pochi minuti smontiamo il campo.
Da alcuni giorni stiamo percorrendo l’ “uadi” el-Allaki, l’alveo asciutto di un possente fiume un tempo immissario del Nilo.
Lungo il percorso notiamo numerose tombe.
Alcune poste in zone sopraelevate al riparo dalle fiumane, altre negli uadi laterali lontane da possibili inondazioni.
Le stele erette all’estremità dei tumuli ci confermano che si tratta di inumazioni islamiche. Risalgono probabilmente al periodo della “corsa all’oro”, la prima di cui si ha notizia nella storia, quando, tra l’820 e l’830 d.C., migliaia di arabi si riversarono nel deserto per inseguire un miraggio dorato.
Il quarzo aurifero è infatti presente sotto forma di vene brillanti che spiccano, come bianche cicatrici lungo le scure pendici dei monti e in massi franati sul fondo dello “uadi”.
Acacie centenarie dai tronchi contorti creano, con il verde polveroso delle minuscole foglie, sorprendenti macchie di colore in un paesaggio dominato dal nero delle rocce e dal bianco del quarzo.
In alcuni punti il letto dell’el-Allaki è coperto, talvolta solo per poche centinaia di metri, da erbe rade dalle quali si sprigiona un forte profumo di essenze aromatiche.
Grosse locuste si alzano in volo e una lepre dalle orecchie incredibilmente lunghe, schizza davanti alle ruote dei nostri automezzi. Più avanti è uno stormo di pernici del deserto che il mimetismo ha reso invisibile tra le pietre, ad alzarsi in volo. È un minuscolo ecosistema che sopravvive nello “uadi”, (retaggio di più lussureggianti epoche passate), assediato da vicino dalle sterili catene di monti che si susseguono in linee parallele fino all’orizzonte. Un fragile mondo in equilibrio precario che le variazioni climatiche potrebbero distruggere in poco tempo. Anche se è costante la presenza di vita animale, evidenziata anche dall’arabesco delle impronte che s’intersecano e si sovrappongono, è pressoché impossibile sorprendere i timorosi abitanti dello “uadi”: rettili, roditori, uccelli e le timide gazzelle dorcas.
Ore 15,30.
Alle prime ore del pomeriggio un cumulo di pietre si eleva davanti ai nostri automezzi. È alto oltre tre metri e non è certamente naturale. Come sempre l’inaspettata scoperta dell’opera dell’uomo (anche se informe, come in questo caso), non manca mai di sorprenderci ed emozionarci. Sono probabilmente i resti di una costruzione, un tempo imponente, forse una torre crollata. Eretta al centro dello “uadi”, aveva, quasi certamente, uno scopo difensivo o di controllo delle carovane in transito.
Circa 80 metri più avanti notiamo una duplice fila di pietre parallele semisommerse dalla sabbia, probabilmente le fondamenta di un muro che tagliava lo “uadi” per tutta la sua larghezza. Il suolo è cosparso di frammenti di vasellame di differenti tipologie ed epoche.
Ci fermiamo per effettuare i rilievi e la documentazione fotografica.
Proseguendo raggiungiamo, dopo un centinaio di metri, il perimetro di una costruzione a pianta all’incirca rettangolare. È poco visibile sommersa com’è nella sabbia trasportata dalle fiumane: poche pietre allineate evidenziano gli spazi abitativi. Sembrano i resti di opere di difesa: labili tracce di un impianto un tempo imponente, ma che ora potrebbero passare inosservati, quasi invisibili tra le pietre e la sabbia dello “uadi”.
Tuttavia, se l’ipotesi difensiva delle costruzioni fosse esatta, nasce subito una domanda: cosa avrebbero dovuto proteggere?
La risposta l’abbiamo poco dopo, con un sorprendente ritrovamento.
Ore 16,45
Il sole sta rapidamente tramontando dietro le montagne e tra non molto i coni d’ombra disegnati dalle cime immergeranno la valle nel buio. Riprendiamo la marcia per sfruttare la poca luce a disposizione.
Transitando vicini al lato ovest dell’el-Allaki, notiamo bassi muretti a secco fiancheggiare per decine di metri le sponde, probabilmente costruiti per sostenere la pista che si snodava lungo lo “uadi”. Solo la luce radente li evidenzia nei punti in cui l’erosione delle piogge non li ha fatti crollare.
Dopo circa quattro km dalle prime rovine, raggiungiamo Deraheib (che nella lingua dei Beja, pastori nomadi di questo deserto, significa “costruzioni”).
Improvvisamente l’insignificante nome si materializza davanti ai nostri occhi negli incredibili resti di una antica città.
Due imponenti castelli fanno da sfondo a un susseguirsi di costruzioni crollate, sparse lungo il lato est della valle.
È forse questa la “città-fantasma” della leggenda araba? La misteriosa città custodita dal malizioso “ginn” del deserto?
Osserviamo attoniti, con i nostri compagni, questa stupefacente realtà che la luce del tramonto rende ancor più magica, simile alle vaporose immagini di un sogno o ad un inavvicinabile miraggio.
Il chiarore ovattato e i soffusi barlumi del crepuscolo trasformano lo “uadi” e lo immergono in un mondo fatato: le antiche costruzioni acquistano profondità e rilievi inattesi, passando attraverso infinite sfumature di colore. Poi le morbide luci del tramonto si spengono e le tonalità più fredde della sera prendono il sopravvento, scivolando lungo i fianchi dei monti. Il vento è caduto: il silenzio sembra pesare su di noi che avanziamo increduli tra muri crollati e archi sorprendentemente intatti, facendo scricchiolare la sabbia e i frammenti di vasellame sparsi sul terreno.
Una eccitante euforia, mitigata dalla sensazione di profanare un luogo incontaminato, ci accompagna durante la nostra prima perlustrazione; continuiamo fino a quando il buio della notte ci costringe a raggiungere la confortante luce dei nostri automezzi”.
Dal diario della spedizione.
13 febbraio 1989
“All’alba, prima del sorgere del sole, siamo già in piedi.
La luce ci ha riportati bruscamente alla realtà: disponiamo di poco tempo per realizzare la documentazione fotografica e i rilievi della città che si presenta subito molto estesa e complessa. Il sestante satellitare ci fornisce i primi dati: siamo a circa 550 metri sul livello del mare.
Le rovine sono costituite da due roccheforti, da un nucleo abitativo pianificato e da costruzioni sparse lungo un’ansa dello “uadi” el-Allaki per circa 2 km.
Il nucleo principale è attraversato da un asse viario intersecato ortogonalmente da strade secondarie che individuano una piazza e diversi quartieri. Una delle due roccheforti è l’ esempio di “praesidium” greco- romano: la corte al centro, le stanze lungo il perimetro interno, il camminamento di ronda e le torri, ora crollate, di cui si notano ancora i massicci basamenti.
La seconda roccaforte, più articolata, eretta forse su tre piani, presenta rifacimenti risalenti al periodo della conquista islamica della Nubia.
Passando attraverso un ampio portale ai piedi di una torre semicilindrica parzialmente crollata, varchiamo l’ingresso ad arco che immette all’interno del castello. L’accesso molto basso (protetto dall’alto da una “caditoia”) ed alcuni scalini obbligano a chinarci. Nell’interno alcuni archi a tutto sesto, realizzati con conci di scisto “a coltello”, immettono in piccole stanze ancora ben conservate”.
L’analisi con il carbonio14 di un frammento di legno che preleviamo dall’architrave che sormonta l’ingresso della roccaforte, ci fornirà la data della costruzione della torre, aggiunta probabilmente in epoca successiva: 740 d.C.
Berenice Pancrisia.
Le indagini storiche e gli scavi archeologici effettuati negli anni successivi, ci hanno permesso di dare un nome a questa dimenticata città del deserto nubiano.
Il ritrovamento di reperti tolemaici nell’area della città, ci hanno indotto a ritenere che potesse trattarsi della città di “Berenice Panchrysos”, citata da Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia VI,170: …] Berenicen alteram quae Panchrysos cognominata est.
Una identificazione condivisa anche da altri studiosi tra i quali ricordiamo Jean Vercoutter, presidente di una apposita Commissione (che comprendeva Sergio Donadoni, Annamaria Roveri Donadoni, Charles Bonnet, Isabella Caneva e altri archeologi), riunitasi a Milano nel 1990 per valutare la nostra scoperta.
Anche le indagini storiche hanno avvalorato questa ipotesi.
Il primo che cercò di dare una collocazione geografica a Berenice Panchrysos fu il geografo francese M. d’Anville che nel suo volume “Géographie ancienne abrégée“, pubblicato a Parigi nel 1768, corredato da una carta geografica, localizzava Berenice Panchrysos nei pressi di “una montagna con miniere dalle quali i Tolomei estraevano molto oro, montagna che i geografi arabi chiamano Alaki o Ollaki”.
Erroneamente il d’Anville segnò sulla sua mappa il “gebel” (montagna) Allaki e Berenice Panchrysos in prossimità delle coste del Mar Rosso. In realtà le montagne ricche di quarzo aurifero dello “uadi” el-Allaki, si trovano invece a circa 250 km dal mare.
La straordinaria ricchezza d’oro di queste montagne era infatti ben nota in periodo medievale arabo. A questo proposito il viaggiatore e geografo arabo-ispano Ibn Sa’id al-Andalusi (1206-1286) così ci informa : “La regione montuosa di Allaki è famosa per le miniere d’oro di alta qualità, situate negli“uidian” (plurale di “uadi”) e, nel XII secolo, il geografo arabo al Idrisi aggiungeva: “Il gebel Allaki è una montagna alla cui base ci sono “uidian” secchi dove non scorre acqua, ma se si scava nei letti, l’acqua, che si trova a poca profondità, zampilla abbondante. Su queste montagne ci sono miniere d’oro e d’argento…”.
Ulteriori notizie sulla ricchezza d’oro della zona ci provengono da al-Maqrizi “tutto il paese dei Beja (e quindi anche l’uadi el-Allaki, dove sono presenti ancora oggi numerosi insediamenti di questo gruppo etnico. Nota degli A.) “è pieno di miniere e, a misura che il terreno si eleva, l’oro è più puro ed abbondante”.
Le stesse miniere d’oro, “Ma’din ad-Dahab”, furono citate anche dal geografo-astronomo arabo al-Khuwarizmi che, nel IX secolo, le posizionò su una mappa, attualmente custodita all’Università di Strasburgo, con esattezza sorprendente a lat. 21° 45’ N, con un errore di circa 20 km, in linea d’aria, dalle attuali rovine di Berenice Panchrysos.
Allaki (così era chiamata Berenice Pancrisia in periodo medievale arabo) divenne il centro più importante di estrazione dell’oro e poteva contare, nel X secolo, su un esercito di tre mila cavalieri arabi e di trenta mila cammellieri Beja, come ci informa il viaggiatore arabo al-Mas’udi.
Dal diario della spedizione, 13 febbraio 1989 (pomeriggio).
“Dopo aver realizzato la documentazione fotografica della città, nel primo pomeriggio spostiamo le nostre ricerche sulle montagne che sovrastano Berenice Panchrysos sul lato ovest del uadi. Il loro particolare colore rossastro si accentua al calare del sole, trasformandosi in un rosso acceso, attenuato dalle bianche vene di quarzo che lentamente assumono delicate sfumature rosa. Qui si trovano, indicate da antichi “alamat” (cumuli di pietre a secco che indicavano la direzione alle carovane o segnalavano luoghi di particolare interesse), le miniere dalle quali generazioni di minatori hanno estratto il prezioso quarzo aurifero. Scavi a trincea, a galleria e a pozzo: le montagne sono scolpite da incredibili attività di sterro che hanno spianato la cima di alcune colline, mastodontici lavori protrattisi certamente per secoli.
Ci risulta difficile immaginare la fatica che questi lavori hanno comportato, soprattutto lo scavo di alcuni pozzi minerari che sprofondano verticalmente per decine di metri nel cuore della montagna.
Verso la fine del XII secolo, Berenice Pancrisia e le miniere furono abbandonate quando la produzione d’oro divenne insufficiente a coprire le spese di estrazione e ingiustificate le disumane condizioni di lavoro degli uomini costretti a vivere nel deserto .Significativo, a questo proposito, è quello che scriveva Abu I-Fida, storico arabo del XIII secolo, “nelle montagne vicine ad Allaki, c’è una miniera d’oro, ma il suo prodotto è così limitato, che copre appena le spese di scavo”.
È iniziato a soffiare il vento ma noi indugiamo ancora sulla cima della montagna a guardare questa antica città dell’oro scomparire inghiottita dalla notte. Lentamente i contorni sfumano, diventano indefiniti, si stemperano nel nulla e la “città fantasma” delle antiche leggende che così improvvisamente si era rivelata ai nostri occhi altrettanto rapidamente svanisce nel buio della valle”.
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