Anno 8 - N. 23/ 2009
Il caffè delle Muse
Matsuo Basho
Vecchio stagno:
una rana vi si getta.
Rumore d'acqua.
di Francesco Piscitello
Matsuo Basho
Questi tre versi costituiscono una notissima poesia, uno haiku, di Matsuo Basho (1644-1694), il più celebre poeta del Giappone. Come per noi Leopardi e L'infinito, per intenderci. Confesso che alla prima lettura sono rimasto sconcertato. E anche adesso, dopo tanto tempo, non riesco a percepirne tutta l'altezza poetica. Perché sono un uomo occidentale.
Lo haiku (che si pronuncia con l'h aspirata) è una brevissima, fulminea composizione di tre soli versi - un quinario, un settenario, un quinario - e nasce, nella forma attuale, nel seicento, all'epoca degli shogun Tokugawa, quando la forma più tipica della poesia giapponese era il waka, cinque versi di cinque, sette, cinque, sette, sette sillabe, la cui origine risale al V secolo.
I Tokugawa, grandi protettori delle arti, usavano impreziosire la vita di corte con esibizioni poetiche dei più noti autori del tempo che, collettivamente ed estemporaneamente, componevano un poemetto più o meno lungo, detto renga.
Come avveniva la creazione di un renga? Il poeta A, il più autorevole fra i presenti, dava l'avvio componendo tre versi - e leggendoli - di cinque, sette, cinque sillabe. Quest'incipit prendeva il nome di hokku e doveva proseguire con due versi di sette e sette sillabe del poeta B. Poi C componeva tre versi di cinque, sette, cinque sillabe; quando veniva il suo turno, D aggiungeva due versi di sette e sette sillabe e così via. Regola fondamentale era che i versi di ciascun poeta dovevano collegarsi logicamente con quelli di chi lo aveva preceduto ma non necessariamente con quelli precedenti ancora. Un certo legame non poteva non esserci, evidentemente, ma si andava attenuando un'aggiunta dopo l'altra: un po' come il figlio somiglia molto al padre, meno al nonno ed ancor meno al bisnonno cosicché, dopo alcune generazioni, la somiglianza è estremamente affievolita quando non addirittura scomparsa. Non c'era dunque un senso unitario nell'intero renga (letteralmente, "versi incatenati") il cui significato - continuo e discontinuo al tempo stesso, un vero ossimoro - serpeggiava qua e là, sfiorando temi, immagini, emozioni costantemente mutevoli ma senza strappi improvvisi.
Gli unici versi veramente liberi erano quelli dello hokku, che non avevano alcunché prima di loro cui riferirsi: questa libertà, alla quale si aggiungeva la particolare maestria del loro apprezzato autore, li rendeva spesso particolarmente pregevoli. Essi formavano parte di raccolte indipendenti dai renga di cui costituivano lo hokku e come tali divennero conosciuti.
Con l'andare del tempo la poesia giapponese - il waka in particolare - andò perdendo di autenticità, di sincerità: alla sempre più accentuata perfezione formale andava accompagnandosi una decadenza della sostanza poetica. Ma verso la fine del secolo XIX Masaoka Shiki, con altri poeti raccolti intorno alla rivista Hototogisu ("il cuculo"), si fece promotore di una grande opera riformatrice, aprendo la porta anche ad apporti poetici dell'occidente purché compatibili con lo spirito tradizionale giapponese: il waka riprese vita (Shiki lo chiamò tanka, o "poesia breve") e lo hokku fu sempre più usato, come si era già iniziato a fare nel secolo XVII, come poesia a sé, indipendente da un renga: Shiki lo chiamò haiku.
Ma basta la sola metrica per fare uno haiku?
Non basta. È necessario che la breve composizione sia caratterizzata da un kigo, una parola o un concetto che rimanda a una stagione dell'anno: ad esempio, nel citato haiku di Basho, la rana evoca la stagione primaverile. Esiste addirittura una specie di dizionario - Saijiki o "Antologia delle quattro stagioni" - che elenca fiori, frutti, animali, feste religiose o popolari, eventi climatici e così via che hanno valore di kigo. È necessario anche lo shoryaku, una specie di "salto" logico-grammaticale, come un'esitazione del poeta in cui abita il non detto (shoryaku significa "omissione"), quasi uno spazio definito dal farsi indietro dell'autore e messo a disposizione del lettore. E poi occorre il sabi, un elemento impalpabile che Kyorai, un teorico dello haiku, definiva "il colore del verso".
Se la traduzione in altra lingua di una qualunque poesia è impresa tra le più difficili ed in ogni caso costituisce sempre un piccolo o grande tradimento, per gli haiku questo vale in modo particolare. Il rispetto della metrica, che sarebbe tanto importante per il ritmo e la musicalità di una composizione così breve, è ovviamente impossibile; inoltre non tutto ciò che ha valore di kigo in Giappone può averlo altrove (la commemorazione giapponese dei morti è estiva e non autunnale ed ha connotazioni rituali ed emozionali del tutto diverse); e infine il rispetto dello shoryaku, ed ancor più del sabi, è pressoché impossibile
Chiedo scusa al frastornato lettore per questi pedanti cenni introduttivi, peraltro fondamentali per comprendere la logica di una forma poetica tanto lontana dalla nostra, una poesia nella quale l'autore non si propone di scrivere il proprio pensiero, la propria emozione, la propria riflessione sulla vita, sulle cose, e di porgerli al lettore il quale entrerà in risonanza (oppure no) con quel pensiero, quell'emozione. Il poeta giapponese crea un quadro, evoca uno scenario, il più possibile semplice, elementare, in modo descrittivo e non esclamativo, nel quale, aiutati dal kigo, dallo shoryaku, dal sabi, l'emozione, il sentimento del lettore trovano il loro spazio naturale e si delineano senza fatica e, soprattutto, senza passare attraverso l'elaborazione mentale. Lo haiku fotografa un istante e lo descrive senza orpelli, non diversamente, in fondo, da quel che fa la stessa pittura, nel mondo giapponese. Questa non ritrarrebbe mai la Vergine in gloria, assisa sulle nubi col Bambino in grembo, circondata da angeli e santi, col committente inginocchiato, circondato dai familiari, dalla servitù, dagli armigeri. Preferisce ritrarre un piccolo uccello appena staccatosi dal ramo, che si libra in aria più per la spinta delle zampe che hanno prodotto il salto che per l'azione delle ali che ancora non sono del tutto aperte, non più fermo ma non ancora in volo: un attimo irripetibile nella vita dell'universo colto e fissato sulla carta di riso. Uno haiku dipinto.
Per esemplificare quel che ho detto, citerò uno haiku (a proposito: lo haiku non ha mai un titolo) di Hattori Ransetsu, un poeta del XVII secolo, assai innamorato della moglie che era sterile ("donna di pietra").
In occasione di una festa di Hinamatsuri, che si celebra all'inizio di marzo e nella quale, in ogni famiglia dove c'è una bambina, la mamma costruisce una piramide di piccole bambole che indossano il kimono, Hattori Ransetsu scrive:
Donna di pietra -
dispone con ordine
le piccole bambole.
Io trovo questa poesia delicatissima e di struggente tenerezza. Approfitto dello spazio che l'autore mi lascia a disposizione con lo shoryaku (che rappresento con il trattino) e lo riempio della mia empatia con il dolore della donna. E penso alla parola "ordine" che sento, emozionalmente, come quella che dà il colore, l'atmosfera all'intera poesia: una donna felicemente madre nell'atto di mettere una sull'altra le bambole, circondata da figli che la chiamano, la tirano per il kimono, ne reclamano l'attenzione, non potrà compiere ordinatamente la sua operazione: la sua piramide non sarà perfetta, sarà forse un po' sghemba, in equilibrio precario. Ma è proprio questa imperfezione a testimoniare della sua felice condizione di madre.
Non è così per la donna sterile. Ha tutto il tempo e la calma che le lascia il dolore per costruire con ordine la sua abusiva piramide. Anzi, forse indugia nel gesto, forse accarezza qualcuna di quelle bambole, forse le sfugge una lacrima mentre le mette in equilibrio l'una sull'altra. Con ordine. Pensando al suo inutile utero di pietra. E probabilmente, da dietro un paravento, l'innamorato marito ne segue il gesto che poi descriverà senza commentarlo, senza far parola del suo sentimento.
Per lasciare al nostro tutto lo spazio di cui ha bisogno.
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