Anno 6 - N. 18/ 2007
STORIA DELLA MEDICINA
LA MEDICINA NEL MONDO ROMANO
Dal paterfamilias, medico di casa, all’intuizione microbiologica.
Medici a Roma - Medici di Roma.
di  Francesco Piscitello
Una vera medicina fu praticata a Roma solo a partire dal I secolo a.C. pressoché esclusivamente da medici stranieri, principalmente greci, assai spesso schiavi sia pure rispettati. Solo tardivamente, soprattutto dopo il I secolo il sapere medico cominciò a suscitare interesse - letterario e speculativo più che pratico e professionale - nel mondo dell’intellettualità romana, dove la preoccupazione sanitaria si manifestava soprattutto con l’attenzione agli aspetti igienici, con le grandi opere pubbliche e con l’organizzazione giuridico-sociale dell’esercizio della medicina.
La rudimentale pratica medica del paterfamilias è stato l’unico presidio sanitario romano nei secoli della monarchia e di molta parte del periodo repubblicano: ma quel misto di superstizione, di un’incerto impiego di rimedi naturali, di ricorso a pratiche di pietà verso le innumerevoli divinità che esercitavano una tutela su organi e funzioni corporee come indicava non di rado il loro stesso nome (Uterina, Cunina, Fluonia, ad esempio, vegliavano sull’apparato genitale femminile) non poteva reggere il confronto con la medicina di altre civiltà mediterranee, soprattutto di quella greca ed alessandrina i cui medici ricevevano una formazione regolare all’interno di scuole qualificate e venivano abilitati alla professione dopo un rituale giuramento nelle mani dei maestri.
I primi veri medici attivi in Roma furono dunque stranieri, in gran parte greci. Il medico greco esercitava la professione nel suo iatreion, dove praticava tanto la medicina che la chirurgia e vendeva anche i suoi rimedi. Nello iatreion (o medicatrina, come venne successivamente chiamato questo vero e proprio ambulatorio), si recavano la plebe, gli schiavi, i gladiatori. Il patrizio, il cittadino abbiente, il liberto arricchito non si mescolavano certo, nella medicatrina, con le persone di umile condizione: quando i medici di più chiara fama venivano consultati dalla upper class le prestazioni sanitarie si svolgevano al domicilio del paziente.
ASCLEPIADE
Nato a Prusa, in Bitinia, probabilmente nel 124 a.C., Asclepiade fu il più noto tra i primi medici stranieri che esercitarono a Roma dove era giunto all’inizio del I secolo a. C. Buon conoscitore della cultura romana, esperto nell’arte della retorica e - nonostante il contrario parere di Plinio che lo considerava un ciarlatano - indubbiamente provvisto di una solida preparazione professionale (aveva studiato nelle eccellenti scuole alessandrine oltre che ad Atene), disponeva di quanto necessario per conseguire il successo: fu infatti medico, oltre che amico, di Cicerone, di Crasso, di Antonio.
Alle indubbie capacità nella pratica professionale - che dev’essere esercitata cito, tute, iucunde - Asclepiade unì una sicura dottrina. Press’a poco in quell’epoca era stata introdotta a Roma, dal mondo ellenistico, la filosofia epicurea che era sorta in Grecia poco più di due secoli prima: questa dottrina faceva riferimento, per quanto riguarda la concezione del mondo fisico, all’atomismo di Leucippo e Democrito sul quale si fonda anche la fisiologia e la patologia asclepiadea. La materia è costituita da atomi che si uniscono tra loro lasciando pori attraverso i quali scorrono altri atomi: nel corpo è la giusta proporzione tra pori ed atomi che garantisce l’equilibrio e lo stato di salute, mentre la malattia deriva da sproporzione e disequilibrio(1). Questa concezione, se accoglie l’idea ippocratica di un’origine naturale, fisica e non metafisica, di salute e malattia, se ne discosta tuttavia per una concezione “solidistica”, legata alla struttura della materia, in luogo di quella umorale. Antiippocratico anche nell’approccio terapeutico (non esiste una vis medicatrix naturae alla quale affidarsi) che è logicamente conseguente al dottrinario fisiologico e patologico, Asclepiade conta molto sulla terapia meccanico-fisica (ginnastica, camminate, corsa, cavalcate, massaggi, idroterapia) e igienico-dietetica.
La sua opera, nota solo attraverso le citazioni soprattutto di Celso e di Galeno, oltre che proporre una dottrina che influenzerà largamente alcune concezioni meccanicistiche del Rinascimento e, nel sec. XIX lo stesso Rasori(2), è ricca di osservazioni cliniche soprattutto sulle febbri malariche, sulla distinzione tra patologia acuta e cronica, sul decorso ritmico di certe malattie(3).
LA SCUOLA METODICA E SORANO DI EFESO
Tra gli allievi di Asclepiade va ricordato soprattutto Temisone di Laodicea, che distinse le malattie in due categorie fondamentali: quelle legate allo status strictus dei pori nei quali scorrono gli atomi e che sono caratterizzate fondamentalmente da rossore, calore, sete, inquietudine e quelle legate al loro status laxus, dove si osservano pallore, astenia, polso debole. Temisone fondò una “scuola metodica”, con lo scopo di sviluppare e sistematizzare in un corpus dottrinario coerente l’eredità dottrinaria del maestro, che ebbe lunghissima durata ed alla quale appartennero medici illustri, il più noto dei quali fu Sorano di Efeso, un medico alessandrino giunto a Roma intorno al 100 D.C.: nonostante l’appellativo di “principe dei metodici”, tuttavia, Sorano non fu un seguace assolutamente ortodosso della scuola alla quale appartenne e forse non fu neppure un rigoroso atomista. Fu invece sicuramente un grande pragmatico, meno interessato alla teoria circa i principi terapeutici che all’efficacia dei rimedi.
Tanto per l’interesse professionale prevalente che per la sua opera principale sulle malattie femminili, sulla gravidanza, sul parto e sul trattamento del neonato Sorano può essere considerato a pieno titolo il fondatore dell’ostetricia, della ginecologia e della neonatologia, ed il suo magistero si estenderà a molti secoli successivi. Conosce le modificazioni di posizione dell’utero ed i cotiledoni placentari, proibisce l’aborto con mezzi meccanici, descrive con esattezza le manovre ostetriche fondamentali compreso il rivolgimento, suggerisce le due legature del cordone ombelicale all’interno delle quali eseguire il taglio, spiega come effettuare il secondamento della placenta, descrive i segni di maturità del neonato e ne prescrive per primo il lavaggio oculare, dà indicazioni relative all’allattamento, allo svezzamento, alle malattie infantili, alla dieta, al bagno. Ostile alle superstizioni relative alla gravidanza ed al parto che, ancor oggi non del tutto abbandonate, dovevano essere diffusissime al suo tempo, mostra tuttavia un sottile acume psicologico nel venire a compromessi con le sue pazienti con l’obiettivo di assicurarsene la collaborazione(4).
ARETEO DI CAPPADOCIA, RUFO DI EFESO, DIOSCORIDE
Affermatasi una prassi sanitaria colta e scientificamente solida, cominciarono a fiorire in Roma numerose scuole di pensiero simili a quella metodica di Temisone: Ateneo di Attaleia, ad esempio, ridiede nuovo impulso alla concezione ippocratica, fortemente discussa se non del tutto abbandonata dai metodici, fondando la cosiddetta scuola pneumatica che, nel rivalutare la dottrina umorale di Ippocrate, la arricchiva con la concezione pneumatica secondo la quale la malattia derivava sì dallo squilibrio degli umori ma, fondamentalmente, a causa di un precedente squilibrio regolativo degli umori stessi da parte del pneuma. La scuola eclettica, che sorse subito dopo, insegnava pragmaticamente a cogliere ciò che di utile e convincente poteva trovarsi nel pensiero e nella prassi metodica, ippocratica o di qualunque altra dottrina. Vi appartennero, non tanto in quanto affiliati ma in quanto esercitanti la medicina secondo quella modalità di approccio, medici di fama come Areteo, Rufo e Dioscoride.
Areteo di Cappadocia, eclettico con forti simpatie pneumatiche, è celebre soprattutto per i suoi scritti a carattere nosografico: a lungo trascurata e rivalutata tardivamente da Boerhaave (1668-1738), l’opera di Areteo è un’attenta disamina delle cause e dei sintomi delle malattie acute e croniche e della loro terapia: la descrizione è attenta ed accurata, estremamente moderna nella trattazione sistematica, parca nel riferimento a casi clinici personali a differenza del più celebre contemporaneo Claudio Galeno.
Rufo di Efeso fu insigne anatomico ed a lui si deve una parte importante della nomenclatura (il suo importante trattato s’intitola, nella traduzione latina di Iunio Paolo Crasso, De corporis humani partium appellationibus): descrive il chiasma ottico, il cristallino ed altri dettagli dell’occhio, la laringe, il nervo vago, il mesentere, le tube uterine, la prostata, il pancreas. Tuttavia fu anche medico attento: descrisse per primo la peste bubbonica e la lebbra e la sua descrizione dei caratteri del polso non si discosta moltissimo da quella attuale(5).
Dioscoride Pedanio (o Pedacio), originario di Anazarbo, presso Tarso, in Cilicia, visse nel I secolo e fu medico pratico insigne. La sua fama, tuttavia, è legata alla parte della sua opera dedicata alla materia medica, l’equivalente della moderna farmacologia. In cinque libri, Dioscoride raccoglie tutte le conoscenze farmacologiche del suo tempo con rimedi tratti dai tre regni della natura e costituì il punto di riferimento fondamentale per questo argomento fino a tutto il secolo XVI.
CORNELIO CELSO
Si è discusso a lungo se Aulo Cornelio Celso abbia effettivamente praticato la medicina. Assai probabilmente sì, nei confronti della famiglia, degli schiavi, degli amici come l’antico paterfamilias, ma certamente non esercitò l’arte come una professione a carattere lucrativo: appartenente alla ricca famiglia dei Cornelii, la sua dignità di patrizio non gli consentiva di ricevere ricompense per una prestazione o la degradazione al rango sociale di un esercente una professione sia pur liberale.
Il merito principale di Celso è quello di trattatista. Come Plinio, come Varrone, Celso fu uno scrittore enciclopedico, di quelli che si propongono di raccogliere tutto il sapere del loro tempo intorno ad un determinato argomento, ed infatti quello dedicato alla medicina è soltanto un capitolo del De Artibus, del quale sono oggetto, oltre all’arte sanitaria, quella agricola, quella militare, la retorica, la filosofia, la giurisprudenza. L’opera celsiana è andata completamente smarrita: solo la parte riguardante la medicina fu ritrovata casualmente da papa Nicolò V (1397-1455): il De re medica fu il primo libro di medicina dato alle stampe (l’edizione principe è del 1478, pubblicata a Firenze e seguita da innumerevoli edizioni posteriori) ed ebbe una fama grandissima tanto che lo stesso Morgagni, in pieno settecento, continuò a studiarlo con grande attenzione(6).
Celso mostra una grande indipendenza di giudizio rispetto alle correnti di pensiero nella Roma del tempo, dai metodici di Temisone agli empirici, con la loro attenzione esclusiva all’osservazione di casi concreti, ai logici che insistevano sulle cause nascoste e sull’importanza della vivisezione(7) dalla quale non rifuggivano i medici alessandrini alle cui cognizioni fisiologiche tuttavia aderisce. Per quanto riguarda la concezione della patologia si attiene rigorosamente ad Ippocrate come dichiara già nell’introduzione, quantunque non disdegni di ricorrere ad altre fonti quando gli sembrino più convincenti: e nell’introduzione stessa, assai ricca di riferimenti storici tanto da potersi considerare un vero e proprio tentativo di storia della medicina, enuncia il proprio punto di vista su quest’arte che dev’essere eminentemente pratica (“...né l’agricoltore né il pilota si formano sulla disputa ma sulla pratica...”) e tuttavia non rozzamente empirica, essendo fondamentale la riflessione (rationalem quidem puto medicinam esse debere) e la conoscenza scientifica, anatomica soprattutto: l’osservazione anatomica è sì necessaria ma sul corpo defunto, non sul vivente - mortuorum corpora incidere discentibus necessarium - e non soltanto, per sua esplicita affermazione, per la crudeltà di aprire dei corpi vivi ma anche perché la posizione e l’ordine dei visceri sono meglio evidenti nel cadavere che nel corpo vivo(8).
PLINIO
Al pari di Celso, Caio Plinio Secondo (Como, 23 D.C. - Stabia, 79 D.C.) fu un enciclopedico compilatore: fu anzi ancor più accurato, citando con grande diligenza, le fonti - 525 in totale! - delle notizie riportate all’inizio di ciascuno dei 37 libri dei quali si compone l’opera più celebre, la Naturalis Historia.
Per tutto il Medioevo e per gran parte del Rinascimento l’opera pliniana fu considerata una vera e propria summa scientifica indiscutibile, pur con qualche confutazione da parte di S. Alberto Magno e soprattutto di Nicolò Leoniceno. Al suo tempo però la Naturalis Historia, soprattutto in tema di terapia, rappresentò un testo fondamentale accanto a quello di Dioscoride ai cui insegnamenti ha attinto persino la farmacologia moderna nell’elaborare medicamenti di sicura efficacia come l’efedrina o l’atropina, un principio contenuto tanto nell’atropa belladonna, una solanacea, quanto nell’anagallide, una primulacea raccomandata da Plinio come dilatatore della pupilla e per quest’uso impiegata per la prima volta da Himly nel 1800.
Ma il merito maggiore ancora riconoscibile alla Naturalis Historia - che probabilmente è stata rivista dal nipote Plinio il Giovane - è quello di rappresentare la più completa documentazione del sapere scientifico della Roma del I secolo della nostra era.
Come è noto, Plinio morì durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 D.C. che ha distrutto Ercolano e Pompei, vicino a Stabia dove era accorso non tanto per curiosità scientifica quanto per tentare di recare soccorso: era infatti il comandante della flotta romana a Miseno. Causa della morte fu assai verosimilmente un attacco cardiaco più che una intossicazione dai vapori dell’eruzione, come si è spesso sostenuto.
LA MEDICINA POST-GALENICA
Con Claudio Galeno - al quale, per la sua importanza nella storia della medicina, è stata dedicata una trattazione a parte (EOS n°14)- ha termine il periodo aureo della medicina a Roma ed inizia il periodo della decadenza: non mancano tuttavia personalità di rilievo come Antillo, un medico (ma soprattutto chirurgo: occupa un posto di rilievo nella storia della chirurgia vascolare per la sua competenza, teorica e pratica, sugli aneurismi arteriosi) vissuto nel secondo secolo e noto soprattutto attraverso le opere di Oribasio, come Teodoro Prisciano, autore di un Rerum medicarum libri quatuor o come il più noto Aureliano Celio che, con il suo De morbis acutis et cronicis scritti in un latino già imbarbarito (siamo nel V secolo), è l’ultimo degli importanti trattatisti di Roma antica. Comincia l’ascesa di Bisanzio.
L’APPORTO DI ROMA ALL’ARTE SANITARIA
È indubbiamente vero che la medicina a Roma fu in larghissima parte straniera, soprattutto greca e non stupisce certo che, soprattutto all’apogeo della sua potenza, la città costituisse un polo di attrazione per uomini di cultura: filosofi, artisti, professionisti di ogni parte dell’impero e i medici non fecero certo eccezione. Se sul piano scientifico l’apporto di Roma al sapere medico è assai scarso, vi sono tuttavia altri aspetti che le attribuiscono un ruolo di primo piano nella medicina del mondo antico: aspetti strettamente dipendenti dall’indiscussa eccellenza romana nel campo dell’ingegneria soprattutto sanitaria da un lato e del diritto e dell’organizzazione civile dall’altro. Le grandi opere pubbliche (acquedotti, fognature, terme, valetudinari militari) e di iniziativa privata (latrine a pozzo nero in gran parte delle case con bagno nell’antilatrina, infermerie annesse alle abitazioni di più elevata tipologia destinate ai familiari ed anche alla servitù in caso di malattia) ebbero sempre grande rilievo e sono di tale notorietà ed evidenza da far apparire superflui ogni descrizione e commento. Le istituzioni politiche riservavano grande attenzione alle attività umane, regolate da un attento ordinamento giuridico e sociale: la stessa professione medica, in un primo momento esercitata da schiavi di sia pur alto livello, fu successivamente praticata da liberti ed anche da cittadini romani pleno iure, e l’esercizio della professione - il cui diritto veniva concesso dietro determinate condizioni e con rigida cautela - si inquadrava in una più ampia ed efficiente cornice organizzativa.
Un altro merito spetta tuttavia a Roma, quello di avere inaugurato uno stile rigoroso nella trattatistica medica, non solo per merito di Celso e di Plinio ma anche di molti altri autori come Varrone al quale, per inciso, va riconosciuta l’intuizione dell’esistenza di quelli che noi oggi chiamiamo germi patogeni(9): nel De Agricultura si legge infatti che esistono animalia quaedam minuta quae non possunt oculis consequi et per aëra intus in corpus per os ac nares perveniunt atque efficiunt morbos.
IL SEVERO CATONE
Huat hana huat ista pista sista domina damnaustra luxato: queste parole magiche andavano pronunciate ritmicamente, o meglio cantate, tenendo in mano una rondine(*). Era il trattamento delle lussazioni consigliato da Catone, fiero avversario di tutto ciò che non fosse l’austera tradizione romana e soprattutto della raffinata cultura greca che stimava foriera di gravi pericoli. Secondo il Censore, la medicina andava esercitata, come nei primi secoli, dal paterfamilias come una delle sue prerogative ed egli stesso prescriveva il cavolo come una sorta di panacea.
(*) A. Castiglioni
PARALISI CEREBRALI E PARALISI SPINALI
Tra le descrizioni di Areteo di Cappadocia spiccano quelle del diabete e di molti quadri morbosi neurologici: a proposito di questi merita attenzione l’acuta segnalazione, che si deve a questo perspicace studioso, che alle lesioni di una parte dell’encefalo corrisponde paralisi del lato opposto mentre alle lesioni spinali corrisponde paralisi dello stesso lato.
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