Anno 6 - N. 18/ 2007
Quando si è vecchi ?
L’ INVECCHIAMENTO UMANO
all’alba del terzo millennio
Con l’eccezione di quelli - pochi per la verità - che considerano la vecchiaia un’età d’oro in cui l’uomo esprime il meglio di quanto ha appreso nel corso di una lunga vita, la maggioranza degli umani non gioisce all’idea di essere definito vecchio.
di Aldo E. Tàmmaro
"Le Sette età della donna" - Hans Baldung Grien - Lipsia, Museum der Bildenden Künste
L’invecchiamento della popolazione è forse il più importante fenomeno demografico che nel secolo scorso, soprattutto nella sua seconda metà, ha coinvolto il mondo industrializzato; ne è scaturita tutta una serie di problematiche di tipo biologico, socio-economico, sanitario e assistenziale che sono state ereditate in blocco dal nuovo secolo, che nella fattispecie è anche il primo del terzo millennio.
Il fenomeno ha finito per interessare anche il cosiddetto “uomo della strada”, che ha sempre considerato la vecchiaia come una fase della vita piuttosto seccante, pur conscio del fatto che l’unica alternativa disponibile, vale a dire il morire giovani, non appare affatto conveniente.
Quando si è vecchi?
Con l’eccezione di quelli - pochi per la verità - che considerano la vecchiaia un’età d’oro in cui l’uomo esprime il meglio di quanto ha appreso nel corso di una lunga vita, la maggioranza degli umani non gioisce all’idea di essere definito vecchio. Di qui l’interessata curiosità che viene subito girata a chi si presenta come un esperto del settore: a che età inizia la vecchiaia?
Bisogna dire subito che questa domanda non ha una risposta quantitativamente definita. L’unica possibilità di rispondere con un numero risiederebbe nella misurazione della nostra età biologica, cioè dell’effettivo grado di invecchiamento delle nostre cellule, dei tessuti, quindi degli organi e degli apparati; ma questo, nonostante gli sforzi e i progressi scientifici, a tutt’oggi non è ancora possibile e poi bisognerebbe comunque stabilire un limite cronologico convenzionale.
Bisogna quindi accontentarsi di spartiacque convenzionali o di classificazioni o considerazioni tutt’altro che scientifiche. L’apparenza, quello che gli anglofoni chiamano look, non ci aiuta: ognuno di noi ha conosciuto persone che, pur essendo anagraficamente coetanee, sembravano separate da una generazione. Fra i riferimenti convenzionali vi è quello all’età del pensionamento, ma in un Paese come il nostro, caratterizzato da una (troppo) ampia variabilità di detta età, questo criterio appare eccessivamente vago. Al momento attuale il limite convenzionale più accettato dal punto di vista degli studi demografici è quello dei 65 anni.
Fra le classificazioni ve ne sono due, che hanno la caratteristica di risultare anche simpatiche nella loro formulazione. La prima distingue:
anziani giovani (young old): dai 65 ai 74 anni
anziani anziani (old old): dai 75 agli 84 anni
anziani vecchi (oldest old): oltre gli 85 anni.
La seconda prevede:
adulti maturi (mature adults):
dai 50 ai 64 anni
senescenti (aging): dai 65 ai 74 anni
anziani (old): dai 75 agli 84 anni
longevi (long-lived): dagli 85 ai 94 anni
fortunati (happy): oltre i 95 anni.
Fra le considerazioni, una delle più citate è quella contenuta nello storico discorso del generale McArthur alle truppe del Pacifico al termine della seconda guerra mondiale, che suona approssimativamente così: la vecchiaia e la giovinezza sono stati dello spirito, non è vecchio chi ha un certo numero di anni ma solo chi tradisce i propri ideali. Meno solenne, ma più pratica la posizione di quel geniaccio di Woody Allen: i vecchi sono quelli che hanno 10 anni più di me. Con queste poche parole si risolve il problema a qualsiasi età: ai 15enni quelli che ne hanno 25 sembrano decrepiti, e via procedendo.
L’invecchiamento
della popolazione
Il dato col quale una quota crescente della popolazione ha ormai familiarizzato è il vertiginoso aumento dell’aspettativa di vita che si è verificato nel secolo scorso. Le statistiche ci dicono che per i nati all’inizio del ‘900 questo valore era compreso fra i 45 e i 50 anni, con un progresso (stimato) di circa 15-20 anni nei riguardi di chi era nato 19 secoli prima; secondo i dati ISTAT del 2006, dopo appena un secolo, siamo arrivati a 78.3 anni per gli uomini e a 84.0 per le donne. Per avere un’idea della velocità con cui aumenta la speranza di vita basta ricordare che solo nel 2001 era pari a 77.0 anni per gli uomini e a 82.8 anni per le donne. Ammettendo in via puramente teorica che il progresso continui allo stesso ritmo, il traguardo dei 100 anni verrebbe raggiunto dalle donne nel 2032 e dagli uomini nel 2039. Sono state rilevate differenze di 2.4 anni fra la regione con il valore più alto (Marche) e quella con il valore più basso (Campania).
La differenza fra maschi e femmine, che pare essere caratteristica del mondo industrializzato, ha sempre attirato l’attenzione degli studiosi. Una spiegazione è stata trovata nella maggiore mortalità che caratterizza il sesso maschile nell’età giovanile e adulta, sia per incidenti (lavorativi, stradali) e crimini, sia per eventi patologici, soprattutto di pertinenza cardiovascolare (infarto miocardico, ictus cerebrale). Per quanto riguarda questi ultimi non va dimenticato il ruolo protettivo esercitato dagli estrogeni durante la maturità sessuale della donna. Negli ultimi decenni la forbice fra i due sessi ha però presentato una tendenza a ridursi. A questo andamento non è certamente estraneo il fatto che negli ultimi tempi molte donne hanno adottato stili di vita fino ad allora caratteristici del sesso maschile (stress da lavoro, sedentarietà, alimentazione incongrua, fumo, eccesso di alcol) che hanno un preciso ruolo come fattori di rischio per la patologia cardiovascolare.
Si dice che una spiegazione di questo fenomeno fosse stata avanzata anche da Confucio: la donna vivrebbe più dell’uomo perché non prende moglie. Questa posizione si accorda con i ben noti atteggiamenti del pensatore cinese, che può essere definito in molti modi, ma non certamente come uno specchiato femminista; anche se - dagli uomini naturalmente – può essere considerata piacevolmente spiritosa, nasce qualche dubbio sul fatto che possa essere stata espressa, con accettabile fondatezza, 25 secoli fa.
Ma, allora, questo significa che si vive sempre più a lungo? La risposta è negativa. Secondo i biologi, ogni specie vivente ha un suo life span, cioè il massimo numero di anni che può vivere; per quanto riguarda l’uomo si ipotizza che, anche eliminando tutte le cause di morte, accidentali e patologiche, la vita non supererebbe i 120-125 anni.
Tralasciando le presunte e verosimilmente millantate longevità (140-160 anni) del famoso paese di Vilcabamba in Ecuador, la massima età raggiunta, e controllata, da un essere umano sono i 116 anni della francese Jeanne Clament.
Il life span è diverso dall’aspettativa di vita, che esprime il numero medio di anni che una persona può aspettarsi di vivere. Dal punto di vista statistico, ogni età ha una sua aspettativa di vita, che naturalmente è tanto più ridotta quanto più avanzata è l’età stessa. Al pari della aspettativa di vita alla nascita, anche quella alle varie età è in progressivo aumento: fra i 65enni, dal 1995 al 2050, dovrebbe passare da 15.5 a 20.3 anni per gli uomini e da 19.2 a 22.4 anni per le donne; fra gli 85enni si dovrebbe passare rispettivamente da 5.2 a 6.8 anni e da 6.5 a 9.4 anni. Un incremento notevole, se si considera che dal 1880 al 1987 gli ottantenni hanno guadagnato poco meno di un anno se maschi e poco meno di due se femmine.
Sulla base di un concetto espresso circa mezzo secolo fa da Enrico Greppi, fondatore della geriatria italiana, il compito precipuo di questa disciplina non è il mero prolungamento della vita, ma l’allontanamento dell’anziano dallo spettro della disabilità e della dipendenza. In altre parole, il prolungamento della vita attiva, un concetto che come vedremo va al di là di quello, oltretutto vagamente utopico, della vita senza malattia.
In effetti, si è assistito a una ridotta incidenza della disabilità, che in una ricerca condotta fra il 1982 e il 2005 presso la Duke University di Durham (North Carolina, USA) è stata quantizzata in un -1.52%/anno. Due aspetti molto significativi dal punto di vista geriatrico sono rappresentati dal rilievo che man mano che l’indagine procedeva nel tempo la riduzione annua della quota di disabilità era sempre maggiore e che l’entità della riduzione aumentava passando alle classi di età più avanzata.
Il miglioramento delle condizioni economiche e della situazione socio-ambientale, nonché i progressi della medicina, non hanno comportato un aumento del life span, ma hanno fatto sì che un numero crescente di persone raggiungesse le età più avanzate. Ne è conseguito un aumento della percentuale di anziani in seno alla popolazione, determinato anche dalla contemporanea diminuzione della natalità; negli Stati Uniti questo fenomeno è stato definito gray boom (il boom dei grigi), che dal punto di vista demografico si contrappone al notevole incremento della natalità (baby boom) verificatosi negli anni successivi alla conclusione della seconda guerra mondiale, al cessare delle tensioni e preoccupazioni legati agli eventi bellici e dopo il ritorno a casa di tanti baldi giovani prima impegnati sui vari fronti di combattimento. È interessante notare che, a causa del (ahimè!) rapido trascorrere del tempo, i primi rappresentanti di questa ondata di nascite (babyboomers) stanno per entrare a far parte della popolazione anziana, accrescendone il peso demografico.
Nella popolazione italiana la percentuale di ultrasessantacinquenni è passata in 50 anni dal 12 al 20%, ponendo il nostro Paese al primo posto in Europa e al secondo nel mondo, preceduto di poco dal Giappone. Gli ultraottantacinquenni sono oggi l’1.97% della popolazione totale (il 9.95% degli ultrasessantacinquenni) e ne è previsto il raddoppio entro i prossimi 25 anni con un incremento superiore a quello dell’intera classe anziana. In Italia vi sono circa 9100 ultracentenari con un quota di 155 per milione di abitanti. Un altro indice, più espressivo del reale invecchiamento di una popolazione è rappresentato dall’indice di vecchiaia, vale a dire il rapporto fra persone con più di 65 anni e quelle con meno di 15; in Italia, tale indice, in meno di mezzo secolo (1961-2005) è passato dal 38.9% al 137.7%, con un aumento quindi di ben 3.5 volte. L’indice medio di vecchiaia per l’Europa a 27 è pari al 101.9% e il Paese meno anziano è l’Irlanda (53.4%).
Questi dati e quelli che seguono delineano chiaramente il contenuto e la misura della sfida lanciata alla nostra società dall’invecchiamento della popolazione.
Secondo i dati CENSIS del 2005, il 19.56% degli ultrasessantacinquenni, pari a circa 2.300.000 persone, si trova in condizioni di non autosufficienza; questa quota è prevista in aumento al 22.5% nel 2010. L’1.95% degli anziani italiani si trova attualmente in istituzioni di ricovero, una percentuale nettamente inferiore a quella di Germania (5.2%), Francia (6.1%), Olanda (7.9%), ad indicare che nella nostra società l’istituzione famiglia risponde ancora in modo concreto alle esigenze dei suoi componenti più anziani.
Gli anziani sono notoriamente i maggiori consumatori di risorse sanitarie e socio-assistenziali, quindi il loro aumento pone la società di fronte ai gravosi problemi legati al soddisfacimento delle loro esigenze. Le dimensioni dell’impatto di tale soddisfacimento sono ben delineate dall’indice di dipendenza, che esprime il rapporto fra il numero di anziani e quello dei potenziali produttori delle risorse di un Paese (soggetti con 15-64 anni): in Italia ci sono circa 3.3 potenziali lavoratori per ciascuna persona oltre i 65 e questo rapporto presenta la tendenza ad una progressiva riduzione. È in fase di riduzione anche la quota di potenziali assistenti (familiari e non, di età indicativamente compresa fra 50 e 74 anni) rispetto alle persone molto anziane e fragili e a questo si è trovato un qualche rimedio nell’impiego di badanti “di importazione”.
L’invecchiamento
dell’individuo
Da secoli, se non da millenni, l’uomo sta cercando di capire quali fenomeni si trovino alla base dell’invecchiamento e di conseguenza quali siano i provvedimenti per cercare di contrastarlo. Allo stato attuale del progresso scientifico e tecnologico, disponiamo di alcune ipotesi tanto suggestive quanto non esaustive; per quanto riguarda i rimedi, sappiamo che la ricerca della fontana della giovinezza (ormoni, innesti, estratti d’organo, sostanze chimiche di varia natura, e chi più ne ha più ne metta) non ha mosso un passo che le consentisse di uscire dal regno dell’utopia, quando non si è dimostrata addirittura mistificante e finalizzata solo a riempire le tasche di qualche autoelettosi “gerontologo”.
Ancora oggi un considerevole numero di persone è convinto che avesse ragione Terenzio quando, circa 22 secoli, fa sentenziò che la vecchiaia di per sé era una malattia. Questa identificazione è sostanzialmente inesatta, anche se l’età si trova fra i fattori di rischio di alcune malattie, soprattutto di natura cronico-disabilitante.
Inoltre, identificare direttamente la vecchiaia con la malattia urta sia contro la realtà risultante dall’osservazione degli anziani sia contro gli orientamenti dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità che ne sono derivati. Un tempo si definiva salute la situazione caratterizzata dall’assenza di compromissioni sul piano fisico, psichico e sociale; applicando questa definizione agli anziani, che sappiamo essere mediamente portatori di oltre 2 affezioni croniche, li si dovrebbe considerare tutti malati, cosa che non si accorda certamente con la reale situazione esistenziale di persone autonome, efficienti ed attive sul piano psicofisico. Si è giunti così ad una più realistica definizione della salute nell’età avanzata, identificandola con la capacità di vivere in modo autonomo nel proprio abituale ambiente. È chiaro che la presenza o meno di un siffatto stato di salute non è condizionata tanto dalla presenza e dall’entità di una eventuale condizione disabilitante, quanto dalla capacità di fattori di compenso – personali e ambientali – di influenzarne gli effetti sull’autonomia del soggetto. Ecco perché, come abbiamo detto più sopra, l’obiettivo degli interventi nei riguardi della popolazione anziana non deve essere una maggiore durata della vita senza malattia, ma il prolungamento della vita attiva, sottratta alle nefaste conseguenze della disabilità.
La difesa di questo tipo di salute si basa innanzitutto sulla lotta contro i fattori di rischio della patologia cronico-disabilitante, e in particolare su quelli che, al contrario del corredo genetico, del sesso e dell’ età, sono modificabili.
A questo punto, anche allo scopo di dimostrare l’infondatezza di tanto comodi quanto inconsistenti alibi, appare opportuno aprire una parentesi per fare un cenno al ruolo dei fattori genetici. Per un certo periodo ha tenuto banco l’ipotesi che per vivere a lungo e bene fosse basilare avere avuto degli antenati sani e longevi; questa corrente di pensiero, che tendeva a deresponsabilizzarci nei riguardi del nostro futuro esistenziale, è stata però ridimensionata dalle successive acquisizioni ed oggi il peso dei fattori genetici è stato ridotto a quote variabili fra il 15 e il 25%.
Gli scienziati hanno così messo nelle nostre mani la maggior parte della responsabilità del nostro futuro esistenziale: nelle mani del contesto sociale in cui viviamo per quanto attiene ai fattori macro e microambientali, ma soprattutto nelle mani di ognuno di noi per quanto riguarda l’attuazione di comportamenti di vita salutari.
Ampi e rigorosi studi di popolazione hanno evidenziato il potenziale devastante per la nostra salute insito in una scorretta alimentazione, negli abusi a livello dei consumi voluttuari e nella sedentarietà; studi altrettanto attendibili hanno invece documentato gli effetti positivi che i comportamenti salutari sono in grado di esercitare su molte patologie potenzialmente disabilitanti e in definitiva sulla durata e sulla qualità della nostra vita. A titolo di esempio citiamo un recentissimo studio condotto negli Stati Uniti che ha evidenziato come la mortalità per malattia coronarica si sia dimezzata in 20 anni (1980-2000); una metà circa di questa riduzione è stata attribuita ai trattamenti medico-chirurgici, l’altra metà alla riduzione dei fattori di rischio, fra cui il fumo e la sedentarietà.
Qualora dette patologie siano già emerse (obesità, ipertensione arteriosa, diabete, dislipidemie, osteoartropatie degenerative, ecc.), la difesa della salute passa attraverso il loro corretto trattamento, farmacologico e non.
L’esperienza ha poi dimostrato che, anche quando si sia già manifestata, la disabilità non è affatto da considerare una condizione irreversibile, destinata solo ad un fatale peggioramento. In questa fase le capacità funzionali residue di un soggetto sono ancora ampiamente accessibili ad un intervento che non solo ne rallenti il peggioramento ma consenta addirittura di recuperarne una quota più o meno ampia: siamo così entrati nell’ambito della riabilitazione, che trova un vasto campo di intervento proprio nell’individuo anziano.
Tutte queste misure, siano esse di tipo preventivo come la lotta ai fattori di rischio e l’attuazione di comportamenti salutari, di tipo più strettamente terapeutico o riabilitativo non sono mai inutili; in altre parole, per la loro attuazione e per i miglioramenti che da loro ci si possono attendere un troppo tardi esiste solo fra i seguaci di posizioni negativistiche, dalle quali il futuro esistenziale di un soggetto anziano non può ricavare che danni. Anche perché l’esperienza ha dimostrato che basta un piccolo scarto nelle capacità funzionali di un anziano per fargli oltrepassare, in senso positivo o negativo, il limite dell’ autonomia.
Conclusioni
- L’invecchiamento della popolazione è una delle sfide più impegnative che la nostra società si trova ad affrontare in questa alba del terzo millennio.
- Si tratta di una partita che si gioca su numerosi tavoli e nella quale sono coinvolti aspetti umani, economici, sociali, ambientali, scientifici, sanitari e assistenziali. La meta è unica, la realizzazione di quell’invecchiamento con successo, che si può identificare nel prolungamento della vita attiva con un livello di benessere fisico, psichico e sociale tale da rendere l’esistenza piacevole all’individuo e a chi lo circonda.
- Un obiettivo così ambizioso non può non presupporre la necessità di un impegno profondo da parte sia dell’anziano sia di tutte le componenti interessate della società; ma avvicinarsi il più possibile ad esso è l’unico mezzo per volgere a nostro favore le sorti della sfida.
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