Anno 6 - N. 17/ 2007


WALTER BENJAMIN

Alcuni concetti e spunti di riflessione

“... l’originaria corrispondenza fra parole e cose di origine divina è venuta meno quando gli uomini hanno cominciato a denominare le cose nella loro lingua. Il critico della cultura deve pertanto cercare di recuperare la dimensione perduta del verbo divino, che è ovviamente al di là di ogni umana possibilità per definizione, per comporre una nuova serie di approssimazioni più valide”.

di  Giuliano Tessera



WALTER BENJAMIN (Charlottenburg, 1892 - Port Bou, 1940)

Grafica: Juliar


La nona delle “Tesi di filosofia della storia” (1940), ultimo lavoro di Walter Benjamin, è dedicata all’amico Gerhard Scholem cui rivolge, in apertura, alcuni versi: “La mia ala è pronta al volo, ritorno volentieri indietro, poiché restassi pur tempo vitale, avrei poca fortuna”.
“C’è un quadro di Klee che si intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”.
Nel 1921, ai primi di giugno, aveva acquistato in una Galleria di Monaco, dove si era recato per motivi di studio e per far visita a Scholem, l’acquarello di Paul Klee Angelus Novus, che porterà sempre con sé, sino alla fine. Dal titolo del quadro avrebbe dovuto nascere una rivista di critica letteraria “Angelus Novus” appunto, progetto che abortì per le difficoltà economiche dell’editore.
Benjamin, che dal ’33 era emigrato in Francia (dove già si era trasferito l’Istituto di Studi Sociali di Horkheimer, Adorno, Marcuse etc., prima di lasciare l’Europa per gli Stati Uniti), allo scoppio della guerra, nel ’39, viene internato insieme alla maggior parte degli emigrati tedeschi, nello stadio di Colombes e poi nel Camp des travailleurs volontaires nell’Alta Loira. Nel settembre dello stesso anno viene rilasciato. L’anno successivo Parigi viene occupata dalla truppe tedesche e ciò induce Benjamin, che già stava prendendo lezioni di inglese, in vista di emigrare anch’egli negli Stati Uniti, a fuggire verso il Sud cercando di ottenere il permesso di entrare in Svizzera, dove avrebbe potuto attendere il visto per l’America.
Raggiunge Marsiglia in agosto dove ottiene un visto di transito per la Spagna e il Portogallo ma non un visto di uscita dalla Francia. Decide allora di attraversare clandestinamente il confine con amici e il figlio Joseph, valicando i Pirenei. La meta era Port Bou, sulla costa. Fu un viaggio penosissimo per B., ammalato di cuore. Giunti a Port Bou il gruppo venne fermato dalla polizia spagnola che minacciò di riconsegnarli alle autorità francesi. Benjamin - nella stessa notte in cui erano arrivati, il 26 agosto - decide di togliersi la vita con una forte dose di morfina. Lascerà un biglietto: “Je vous prie de trasmettre mes pensées à mon ami Adorno”. Portava con sé una pesante borsa nera, in cui, forse, erano contenuti gli ultimi scritti e l’aquarello di Klee, “Angelus Novus”.
“La figura di Benjamin - dice Renato Solmi nell’introduzione agli Schriften, “Saggi” nell’edizione italiana dal titolo “Angelus Novus: saggi e frammenti”- è di quelle che si prestano più difficilmente alla definizione e collocazione critica. Saggista e critico letterario… il significato e l’intenzione della sua opera trascendono tuttavia i limiti della critica o della storia letteraria nella loro accezione corrente… La sua originalità di pensatore fa piuttosto tutt’uno con la sua attività d’interprete e di critico e si costituisce fondamentalmente solo in essa”.
Pochi sono i suoi scritti di carattere strettamente filosofico in senso tecnico: la sua riflessione oscilla tra filosofia, critica letteraria, sociologia dell’arte, nella prospettica di una “filosofia dell’arte” che sia innanzitutto “Erlosung”, “redenzione”, tanto del linguaggio dei testi quanto del linguaggio critico stesso.
È evidente in ciò il suo interesse per la mistica ebraica, per l’arte del commentare-interpretare il Talmud così come gli aveva insegnato, fin dall’infanzia, il citato amico G. Scholem, specialista in tali argomenti. Ne deriverà da ciò anche il suo particolare approccio col marxismo cui verrà data una configurazione e una prospettiva appunto messianica, giungendovi, per altro, abbastanza digiuno dalla lezione hegeliana.
Secondo B., l’originaria corrispondenza fra parole e cose di origine divina è venuta meno quando gli uomini hanno cominciato a denominare le cose nella loro lingua. Il critico della cultura deve pertanto cercare di recuperare la dimensione perduta del verbo divino, che è ovviamente al di là di ogni umana possibilità per definizione, per comporre una nuova serie di approssimazioni più valide.
“Il respiro di Benjamin è il periodo - dice sempre Solmi nella prefazione citata - o addirittura la frase: il resto è composizione”. La filosofia si risolve così in terminologia mistica”.
Questa teoria della “ricomposizione” si ritroverà ne “Il dramma del barocco tedesco”, edito nel 1928, ultimato nel 1925 in vista della libera docenza, ma sciaguratamente respinto dalla Facoltà di Filosofia dell’Università di Francoforte come “non pertinente ad alcuna disciplina accademica”.
In seguito un professore universitario, Erich Rothacker, commenterà così: “All’intelligenza non si può conferire la libera docenza”, a guisa di “amara e ironica glossa a tale esclusione”, come evidenzia Giulio Schiavoni nel suo “Fuori dal coro”, che introduce l’opera citata nella sua traduzione italiana del 1999.
Una filosofia così concepita che sposa come metodo l’allegoria, presenta una tavolozza di colori assolutamente inedita non riconducibile ad alcun filone della riflessione contemporanea, come ci ricorda Adorno. Il dramma barocco è un esempio di arte allegorica e il metodo di Benjamin è esso stesso allegorico. L’opera stessa - Origini del dramma barocco - è una allegoria dell’arte moderna che maschera le apparenze del dramma barocco appunto.
E poiché la teoria dell’arte come allegoria poggia sulla concezione della lingua come scrittura, fra l’una e l’altra si situa il “genere” della traduzione, forma intermedia tanto cara ai primi romantici. La traduzione è la musica della lingua, perché - nelle grandi traduzioni - l’accento si sposta dal significato alla lingua stessa avvolgendolo “come un mantello regale ad ampie pieghe”.
Nella lingua si cela una originaria presenza della verità, che va pertanto svelata per venire nuovamente alla luce. Il padre della filosofia non è Platone con la sua teoria delle idee ma Adamo “datore dei nomi”. Con Benjamin si delinea così una “metafisica del nome”.
Comunque l’uomo non ha la possibilità di cogliere l’oggetto nella sua totalità, di conoscere, in senso kantiano, il noumeno, la cosa in sé. Può entrare in contatto solo col fenomeno, con ciò che appare, contro ogni pretesa intuizione, così come da Dilthey in poi e con la fenomenologia post-husserliana si era indicato. Totalità, unità, verità appaiono in modo enigmatico nell’opera d’arte: il compito del filosofo è misurarsi con tali enigmi.
Come Adorno, Benjamin rifiuta una interpretazione e una pratica della riflessione come ricerca del sistema (S maiuscola), del fondamento assoluto. La filosofia deve mettere in luce le contraddizioni che si nascondono sotto le apparenze ingannevoli, apparenze della realtà ed evidenziare il bisogno di felicità e di emancipazione insito nell’uomo. Sotto questo profilo il più caratteristico saggio di Benjamin, pur incompiuto (e forse presente nella pesante borsa nera ritrovata accanto al suo corpo esanime) riguarda Parigi, “capitale del XIX secolo”, in cui cerca di afferrare il senso di una intera epoca storica esaminando l’assetto urbanistico parigino introducendo nuove figure come il “flaneur”, il “dandy”, la prostituta, alla luce dei nuovi caratteri della produzione e circolazione delle merci.
L’arte, si diceva. Nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) Benjamin, accostatosi in modo personale e problematico al marxismo, legato ormai da uno stretto rapporto personale con Adorno e Brecht, affronta il destino dell’arte nella società di massa (il sottotitolo dell’edizione italiana del 1966 è appunto “Arte e società di massa”).
L’arte affonda le sue radici in un contesto originario magico-rituale: il suo elemento storico si identifica col suo radicarsi nella tradizione: “L’unicità dell’opera d’arte si identifica con la sua integrazione nel contesto della tradizione… Un’antica statua di Venere, per esempio presso i greci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa in idolo maledetto….Le opere d’arte più antiche sono nate, come è noto, al servizio di un rituale prima magico, poi religioso... questo modo di esistenza, avvolto da un’aura particolare - non si stacca mai - dalla sua funzione rituale… il valore unico dell’opera d’arte autentica trova una sua fondazione nel rituale, nel quale ha avuto il suo primo e originario valore d’uso”.
Benjamin ci invita, a riflettere sul significato che ha assunto l'arte nell'epoca in cui è possibile riprodurla tecnicamente, quando cioè, per la prima volta nella storia del mondo, si emancipa dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale.
L’inavvicinabilità si perde: la qualità magico-rituale dell’opera d’arte è sostituita dal suo valore espositivo, di esibizione per tutti e alla portata di tutti.
Finisce così, nei nostri tempi (dalla fotografia al cinema e, se vogliamo agli attuali mezzi tecnologico-informatico-digitali di riproduzione) l’arte “auratica” con la riduzione del prodotto culturale a oggetto di consumo.
Dirà H. Marcuse nel suo “One-dimensionsl Man” (1964), nella società industriale avanzata “Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina”. E ancora più avanti: “I neoconservatori che se la prendono con chi critica la cultura di massa da posizioni di sinistra, tendono a porre in ridicolo la protesta contro Bach come musica di fondo in cucina, contro Platone e Hegel, Shelley e Baudelaire, Marx e Freud nel supermercato. Bisogna riconoscere, essi insistono, che i classici sono usciti dal mausoleo e sono tornati in vita, che il popolo è, semplicemente, più colto. Questo è vero, ma tornando in vita come classici, essi tornano in vita come altri da sé”. Osservando gli scaffali della mia biblioteca mi accorgo che davanti a me c’è ormai tanta cultura acquistata a dispense in edicola e che aumenta sempre più. (n.d.a.)
Tuttavia Benjamin, dopo aver sottolineato a più riprese con accenni critici il rapporto arte-masse nel momento della mercificazione dell’arte dovuta alla sua riproducibilità tecnica (tema che, come abbiamo visto, verrà ampiamente ripreso sino ai nostri giorni in particolare dagli epigoni della Scuola di Francoforte), conserva la speranza nel potenziale di “progresso” insito nell’arte: senz’altro con le possibilità (sempre più raffinate) di riproducibilità, l’opera d’arte stabilisce con le masse un diverso rapporto rispetto al passato, ma forse non annulla il suo valore di contraddizione, di non conciliazione dei conflitti in un mondo ancora in attesa del Messia. E ancora: la redenzione dell’uomo (in un mondo che produrrà Auswitz, Hiroshima, i Gulag, le guerre tecnologiche, le minacce di un conflitto nucleare globale etc.), potrà giungere soltanto da una rottura radicale col passato caratterizzato dal dominio e da un recupero della tradizione sacra, messianica.
Nella Postilla conclusiva de “L’opera d’arte…” Benjamin sottolinea nuovamente in termini critico-profetici gli aspetti assolutamente irrazionali presenti nella società contemporanea che “Invece di incanalare fiumi, essa devia la fiumana umana nel letto delle trincee, invece che utilizzare gli aeroplani per spargere le sementi, essa li usa per seminare le bombe incendiarie sopra le città; nell’uso bellico dei gas ha trovato un mezzo per distruggere l’aura in modo nuovo”.