Anno 6 - N. 17/ 2007


“Le Nozze Arnolfini” di Jan Van Eyck

Lettura di un dipinto

I CAPOLAVORI DELL’ARTE FIAMMINGA Intensa allegoria nuziale e raffinato atto notarile. Il segreto di Jeanne. Un mistero avvolge la giovane sposa del grande banchiere lucchese

di Maria Giuseppina Malfatti Angelantoni




Il dipinto “Le Nozze Arnolfini” della National Gallery di Londra è indubbiamente una delle opere più famose e ammirate del grande pittore fiammingo Jan Van Eyck. Si tratta di un doppio ritratto ad olio su tavola, di medie dimensioni (cm 82 x 60), dotato di grande fascino e forza d’attrazione. Manca purtroppo della cornice che, come avviene per tutti i dipinti di Van Eyck, avrebbe potuto dare molte informazioni.
La sua bellezza immediata, che nasce dall’armonia compositiva, dai colori brillanti e dal realismo “metafisico” di ogni dettaglio, dà al riguardante una fruizione estetica totale. Ma il suo valore non si ferma qui: la ricchezza e la molteplicità dei messaggi che il dipinto ci invia, attraverso un simbolismo colto e puntuale, ne fanno un’opera di valore assoluto sia per la storia dell’arte che per la storia della prima età moderna.
Nel quadro, che si presenta quasi come un’evocazione magica, è ritratta una coppia di sposi in un interno: la loro camera nuziale. L’abbigliamento lussuoso e gli arredi della stanza ci fanno capire che ci troviamo di fronte a due personaggi di elevata posizione sociale di un Paese del Nord, più precisamente delle Fiandre. I loro volti non lasciano trasparire emozioni: per Van Eyck l’importante è mettere in risalto il valore spirituale dell’individuo, la sua natura eterna che è sottolineata dalla verità oggettiva della realtà rappresentata.
Lo sposo, un uomo non molto giovane, dai lineamenti vagamente orientali scolpiti dal fascio di luce che proviene dalla finestra alla sua destra, è il grande mercante-banchiere italiano Giovanni Arnolfini, residente a Bruges dove tiene il suo “banco”. La conferma della sua identità è stata possibile sulla base di un suo ritratto noto, opera dello stesso Van Eyck, ora alla Gemälde Galerie di Berlino. La sopravveste di preziosissima pelliccia che egli indossa indica da sola il suo alto grado sociale e la sua ricchezza. L’ampio cappello di pesante feltro scuro, che contrasta fortemente col suo pallido volto glabro, segue la moda della corte borgognona, dove egli ricopre una carica prestigiosa.
Giovanni di Arrigo Arnolfini appartiene ad una delle tante potenti famiglie lucchesi che dal ‘200 ormai esercitavano la mercatura sulle più importanti piazze europee, a cominciare dalle fiere di Provenza e di Champagne. Lucca, che già nel Medioevo aveva potuto sviluppare un commercio intenso grazie alla sua posizione sulla Via Francigena, esportava soprattutto i suoi preziosi tessuti di seta insieme a gioielli, codici e tante altre merci di lusso di provenienza varia, ambìti e richiesti dappertutto dalle classi più ricche. I mercanti lucchesi, che si fregiavano dello scapolare con il Volto Santo, si erano trasformati anche in banchieri, finanziatori di sovrani e città in tutta Europa. Queste famiglie, in particolare gli Arnolfini, i Rapondi e i Cenami, si erano da più di un secolo stabilite a Parigi da dove però, agli inizi del ‘400, dovettero fuggire a causa della grave crisi che aveva investito la Francia per la Guerra dei Cento Anni contro l’Inghilterra. Trasferiti in terra di Fiandra i mercanti lucchesi continuarono ad esercitare la loro proficua attività divenendo generosi mecenati dei grandi pittori fiamminghi. Insieme agli altri mercanti-banchieri italiani, al loro arrivo nelle città di Gand e di Bruges, abbigliati in elegantissime e coloratissime vesti di seta e seguiti dai loro sfarzosi equipaggi, essi influenzarono indubbiamente il costume locale e, perché no?... anche la tavolozza degli artisti.
L’ Arnolfini era giunto a Bruges nel 1420 e fu sempre di parte ducale, fedele alla causa dei Signori di Borgogna, in guerra continua con i cugini Re di Francia. Con i duchi Filippo il Buono e Carlo il Temerario percorse una carriera straordinaria di banchiere e di consigliere, ma non dimenticò mai la sua città d’origine e a Lucca fece giungere, insieme ad altri doni preziosi, il magnifico codice di musica polifonica che ora si trova nella Biblioteca Capitolare.
Nel nostro dipinto lo sposo alza la mano destra in un gesto solenne, quasi di benedizione, che vuol essere di presentazione della sposa e di conferma dell’atto legale che si sta svolgendo. Recenti studi scientifici hanno dimostrato che il pittore, nel disegno sottostante, aveva dato a quella mano una posizione di maggior imperio, mitigata poi con una curva più dolce. Egli porge la mano sinistra con il palmo aperto alla giovanissima dama che vi abbandona la sua, lunga e affusolata, con un atto fidente di abbandono e di totale fiducia. In questo atto è compreso tutto il significato dell’unione matrimoniale: darsi l’uno all’altro per sempre.
La fragile, timida, ragazza è Giovanna Cenami, della potente famiglia lucchese, che è in rapporto di stretta parentela e amicizia con gli Arnolfini. Il pesante abito di lana verde foderato di pelliccia, dalle maniche elaborate, dalle linee abbondanti e la cintura alta, ha fatto pensare a sbadati storici dell’arte che la sposa fosse incinta, dimenticando che quella era la moda del tempo, dettata dalla corte francese. A Parigi le smaliziate dame della Regina avevano inventato quell’abbigliamento per tutte loro, per aiutare la Sovrana a mascherare gravidanze non sempre “regali”. Il pittore Van Eyck, veste nello stesso modo anche le Sante vergini e martiri, in particolare Caterina d’Alessandria nella tavoletta di Dresda, nella quale la Santa appare con la stessa postura e con lo stesso gonnellone di Giovanna Cenami. Eppoi, è storia, gli Arnolfini non ebbero figli.
La sposa porta sul capo la caratteristica acconciatura fiamminga di lino orlato di prezioso merletto, sostenuta dai piccoli corni di seta. Contrasta con la ricchezza dell’abbigliamento la semplicità dei gioielli, una doppia catenina d’oro al collo e due semplicissimi anelli sulle falangi del mignolo e dell’anulare della mano sinistra. Questa sobrietà è in verità un’esaltazione delle sue virtù nel momento solenne del matrimonio.
Intorno alla sposa aleggia una densa aria di mistero; ella si porta dietro un segreto al quale si può dare soluzione solo con ipotesi. Giovanna Cenami, “Jeanne”, è figlia di Guillaume Cenami, del ramo più “francesizzato” di questa famiglia, legato al re di Francia da grande fedeltà (al contrario e in contrasto politico con gli Arnolfini, senza danno però per i rapporti personali e d’affari!). Per Jeanne vengono sempre riferite, nei documenti che la riguardano, denominazioni particolari :”Jeanne ex sanguine regio” o “ex Franciae corona” o, addirittura, “Reale dei Reali”, denominazioni che non vengono mai usate per i quattro fratelli o per la sorella. In più, anche dopo il matrimonio con Giovanni Arnolfini e durante la vedovanza, Giovanna usufruirà di privilegi e rendite riservati ai componenti la famiglia reale francese. L’ipotesi più benevola che possa essere fatta è allora quella di un’accoglienza complice e generosa da parte del potente Guillaume Cenami, che riveste la dignità di “patrizio” francese, di una principessa nata fuori di un legame legittimo. Una figlia della regina? O del re? Meno probabile è l’ipotesi che Giovanna fosse il frutto di una relazione fra il Cenami e una principessa di sangue reale, situazione questa sempre pericolosa al limite della “lesa maestà”, con gravissime conseguenze penali. Ma di più per ora non possiamo sapere. La delicata immagine di Jeanne, con la sua pudica ritrosia, si arricchisce anche dell’incanto di questo mistero.
Davanti alla coppia di sposi, in posizione centrale, quasi protagonista con loro, c’è un cagnolino, simbolo esplicito e noto di fedeltà e protezione coniugale.
I coniugi Arnolfini condussero a Bruges un’intensa vita mondana, promuovendo arte e cultura, ma furono anche devoti membri della Confraternita religiosa dell’Albero Secco, alla quale davano adesione personaggi di grande fede e pietà quale il pittore Petrus Christus.
Giovanni morì nel 1472 a Bruges e venne sepolto nella cappella del Volto Santo della chiesa delle Clarisse presso le quali si ritirò Giovanna, che morì verso il 1490. Anch’essa venne sepolta nella stessa cappella e la loro tomba esisteva ancora alla fine del ‘700. Gran parte delle loro ricchezze andarono al convento della Clarisse di Bruges, perpetuandosi così il loro ruolo di mecenati.
In questo dipinto le due figure principali sono situate in uno spazio definito prospetticamente dalle linee oblique che convergono al centro, nel quale sembrano invitarci ad entrare. La prospettiva usata da Van Eyck non è ancora quella matematico-geometrica che nel 1435, un anno solo dopo la realizzazione di questo dipinto, verrà teorizzata da Leon Battista Alberti. È piuttosto la prospettiva ancora in parte empirica dei pittori senesi del Trecento che, invece di un punto focale centrale, si servivano di una retta verticale centrale, verso la quale facevano convergere tutte le linee. Van Eyck ottiene poi, e aumenta, il senso di profondità attraverso l’uso della luce che gioca con i colori e le velature, con passaggi che vanno dal chiaro del primo piano, allo scuro della parete di fondo. Ogni oggetto posto nella camera nuziale, che già è in sé potente forma simbolica, ha un suo significato preciso legato al matrimonio, alla sua sacralità ed al suo valore giuridico: tutti insieme questi simboli e questi significati concorrono a fare del bellissimo dipinto una potente allegoria dell’unione coniugale.
I particolari sono descritti come se ciascuno fosse il più importante e il primo è il letto dove il sacco che contiene le cortine è allusione al ventre fecondo. Legata alla maternità è anche la statuina di Santa Margherita di legno, scolpita sullo schienale di un seggiolone gotico.
Ma questi simboli ben auguranti sappiamo che non portarono a Jeanne la prole che forse aveva desiderato, malgrado la presenza della scopetta, dalla forte valenza apotropaica, appesa allo stesso schienale.
Il lampadario di lucido ottone con una sola candela, le eleganti ciabatte di seta rosse femminili e i rudi zoccoli di legno maschili, sono tutti simboli matrimoniali. La finestra aperta sul giardino fiorito e le arance sul davanzale e sul mobile che vi è sotto, sono citazione del Paradiso, della gioia che può esserci nell’unione. Alla ricchezza spirituale del legame matrimoniale allude anche la corona del Rosario all’antica appesa, sulla parete di fondo dove Van Eyck pone il più straordinario e più significativo fra tutti gli oggetti descritti nella stanza: uno specchio convesso, simbolo della conoscenza, via verso la perfezione. Sulla cornice dello specchio sono rappresentate dieci scene della Passione di Cristo, richiamo esplicito al valore sacramentale del matrimonio.
La realizzazione dello specchio nel centro ottico del dipinto è invenzione geniale di Van Eyck che gioca con i rimandi di una duplice realtà virtuale, dilatando lo spazio all’infinito.
Nel piccolo specchio convesso può essere raccolta, appena sfiorata da anamorfosi, tutta la grande scena del primo piano riproposta al contrario: gli sposi sono visti di spalle e si vedono due personaggi non visibili altrimenti, dei due uno può essere il pittore Van Eyck che si firma vistosamente ed intenzionalmente sulla parete sopra lo specchio con elegantissime lettere gotiche: “Johannes de Eyck fuit hic - 1434”, “Jan Van Eyck era presente”. La sua firma lo dichiara quale testimone di un atto legale, la stesura del contratto matrimoniale del suo ricco committente ed amico Giovanni Arnolfini. Il bel quadro della National Gallery, intensa allegoria nuziale, è anche un sofisticato e raffinato atto notarile, un contratto di nozze figurato. Non è condivisibile l’asserzione secondo la quale il matrimonio al tempo poteva essere celebrato direttamente in una casa privata senza la presenza di un sacerdote, come vediamo in questa tavola. Il contemporaneo grande pittore Rogier Van der Weyden dipinge un bellissimo quadro intitolato “I Sette Sacramenti in una Chiesa”, ora al Museo Reale di Anversa, dove è ben rappresentata una scena di nozze con i due giovani che uniscono le loro mani davanti al sacerdote e in una chiesa. È da credere eventualmente che il ricco banchiere avesse potuto stilare il contratto di nozze in casa propria facendo venire un notaio e un testimone, nel suo caso tanto illustre, e che a quell’atto, avrebbe poi fatto seguire il rito religioso. Due momenti disgiunti dello stesso importante evento.
Con questo dipinto di Van Eyck lo specchio che moltiplica la visione entra nella pittura fiamminga diventando modello per il Maestro di Flémalle, per Hans Memling e anche per molti altri pittori non fiamminghi. Lo specchio riflettente trova la sua espressione più solenne nel rimando delle immagini del Re e della Regina di Spagna nel dipinto “Las Meninas” di Velasquez al Prado.
La tavola con “Le Nozze Arnolfini” poteva essere parte di un dittico nel quale la seconda anta aveva un soggetto erotico, una scena di nudo, documentata indirettamente da un dipinto secentesco che rappresenta una quadreria. Insieme le due scene avrebbero rappresentato una sorta di Amor Sacro e di Amor Profano. Lo smembramento del dittico poteva aver avuto luogo al momento del trasferimento del dipinto dai Paesi Bassi in Spagna. La storia di quest’opera infatti, pur arrivandoci attraverso una distanza di secoli, ha potuto essere ricostruita con sufficiente sicurezza. Dopo la morte di Giovanna Cenami Arnolfini a Bruges nel 1490 circa, il dipinto divenne proprietà di un famoso intenditore d’arte della corte spagnola, don Diego de Guevara, che ne fece in seguito dono ad una grande collezionista, Margherita d’Austria. Costei, zia dell’imperatore Carlo V e Governatrice dei Paesi Bassi, lo tenne presso di sé, alla corte di Malines. Alla sua morte nel 1530 il dipinto passò alla nipote Maria d’Ungheria, che le era succeduta nell’importante carica. Quando a sua volta Maria morì i suoi beni furono portati in Spagna e tra questi c’era il quadro di Van Eyck che rimase con certezza a Madrid, nel palazzo reale, almeno fino al 1789. Durante l’invasione napoleonica probabilmente la tavola venne trafugata da un ufficiale francese che la portò con sé nell’ultima campagna dell’Imperatore a Waterloo. Venne infatti acquistata a Bruxelles nel 1815 da un generale inglese che nel 1842 la rivendette per una modesta cifra alla National Gallery di Londra dove tuttora si trova in compagnia degli altri due straordinari dipinti di Van Eyck “L’Uomo dal Turbante Rosso” e “Timoteo”.
I primi studi sulle “Nozze Arnolfini” furono fatti a partire dalla sua entrata nel museo londinese e, come spesso avveniva in passato, in mancanza di documentazione certa e di riscontri scientifici, venne detto di tutto, si dettero interpretazioni fantasiose e fuorvianti, come quella di dichiarare che si trattava del ritratto del pittore e della moglie Margaretha o che il personaggio maschile fosse un chiromante che leggeva la mano della giovane per predire il futuro al bambino che portava in grembo.
Colui che finalmente lesse nel modo corretto il dipinto fu, negli anni ‘30 del secolo scorso, Erwin Panofsky, il padre dell’Iconologia. Egli applicando il suo metodo di lettura per gradi sempre più approfonditi, indagando la storia e l’arte in Italia e Fiandre agli inizi del ‘400, riuscì ad individuare i personaggi e a capire che cosa stesse avvenendo nella scena rappresentata.
Da allora, malgrado le banalità e i persistenti errori ricorrenti su di loro, i coniugi Arnolfini ci invitano, con signorilità ed emozione contenuta, a prendere parte al momento intimo e solenne delle loro nozze.