Anno 6 - N. 16/ 2007


Il gran cibo degli Dei

ELOGIO DEL CIOCCOLATTE

Piacere non conviviale quanto piuttosto della riservatezza che si addice al talamo... “l’uso in europa è diventato comunissimo e particolarmente nelle corti de’ principi e nelle case dei nobili; credendosi che possa fortificare lo stomaco e che abbia molte altre virtù profittevoli alla sanità” Francesco Redi (annotazioni al Ditirambo)

di Giulio Cesare Maggi




Finalmente in europa!

La spiccia quanto irrazionale tazzina di caffè espresso che per molti costituisce la colazione del mattino avrebbe fatto inorridire i nostri bisnonni e nonni, per i quali il petit-déjuner rappresentava una cerimonia, sostanziata da un ottimo caffelatte zuccherato o con l’aggiunta di un pizzico di sale, grissini dolci o bocconcini di pane fritto in burro di malga o delle cascine lodigiane, o infine dei biscotti o una fetta di una casalinga ciambella ricca di uova, beninteso di giornata. Ce li ricorda, questi petit-déjuner di fine Ottocento, il poeta e filosofo Carlo Steiner nel suo Il ghiottone lombardo: dato che egli faceva colazione con una fetta di panettone fresco o abbrustolito, lo celebrava con una poesia giocosa “Il Panettone alla maniera del Petrarca” che così principia:

“Levommi il mio pensiero in parte ov’era
il Panettone sempre cerco in terra
e a gran gioia il core mi disserra
con la sua vista nobile ed altera”.

Questo tipo di colazione del mattino già dai primi decenni dell’Ottocento aveva sostituito l’uso della cioccolata che nel Seicento e nel Settecento aveva raggiunto in tutta l’Europa consumi impressionanti quale bevanda calda, alla quale si attribuivano “mille usi profittevoli alla sanità”, come scriveva il naturalista e medico aretino Francesco Redi, Archiatra e Arcispeziale del Granduca di Toscana.
Il cacao in polvere, il costituente base della cioccolata, che ha fatto impazzire l’Europa dalla metà del Cinquecento, vi era stato portato dapprima in Spagna fin dai tempi di Carlo V (1544) dopo la conquista del Messico da parte di Hernán Cortés che si era visto offrire “il brodo indiano” dal Re Montezuma, in segno di amicizia e di rispetto.
La Corte di Spagna apprezzò subito la deliziosa bevanda, avocando a sé in esclusiva l’uso del cacao migliore, detto criollo, e incaricò i religiosi delle Missioni, in particolare i Gesuiti, di coltivare la pianta, preparare ed aromatizzare la preziosa polvere ricavata dai semi, oltre a commercializzarla, utilizzando parte del ricavato per la costruzione di chiese, oratori e per l’evangelizzazione degli indigeni.
La diffusione del cacao e quindi della cioccolata in Europa fu in larga misura la conseguenza di matrimoni reali tra le Case di Spagna, Francia e Piemonte, che comportavano anche lo scambio di cuochi e di specialità alimentari.
Più tardivo, ma egualmente felice, fu l’arrivo, all’inizio del Seicento, del cacao alla Corte di Toscana, pare ad opera di un nobile fiorentino, gran viaggiatore, Antonio Carletti.
Dall’Italia l’uso della cioccolata si estese ben presto all’Austria e di lì all’Impero germanico e ai Paesi Bassi.
La formulazione definitiva del cacao alla Corte medicea fu opera di Francesco Redi, che mescolò la polvere con zucchero nel rapporto 10 a 8, aromatizzandola con fiori freschi di gelsomino, polvere di cannella e tracce di ambra grigia. La ricetta era un vero e proprio segreto di Stato, tanto che quando il celebre Vallisnieri ne chiese, in via riservatissima, la formulazione al Redi, si vide opporre un cortese quanto sussiegoso rifiuto.
Vallisnieri dovette attendere la morte del Granduca Cosimo per poter conoscere il prezioso recipe.
L’Arcispeziale di Corte era sì il depositario della formulazione e il materiale preparatore della medesima, ma in realtà il suo pensiero in proposito l’aveva già da tempo espresso ne Il Bacco in Toscana: estimatore del succo della vite, egli tollerava la cioccolata (e forse dovette berne) pro bono pacis, essendo pur sempre un funzionario di palazzo, ma:

“Non fia già, che il ciocolatte
adoprassi, ovvero il tè,
Medicine così fatte
Non saran giammai per me:
Beverei prima il veleno
Che un bicchiere che fosse pieno
Dell’amaro e rio caffè...”

Chissà come avrà dovuto masticare amaro nell’inviare ai potenti, per ordine del Granduca, il detestato “polviglio” ai profumi d’ambra o di altri aromatizzanti: ma si sa, l’ufficio, se non si vuol perderlo, costringe anche a questi sacrifici.
Come ricorda Camporesi nel suo Il brodo indiano (Milano, Garzanti, 1970), vi fu intorno all’uso della cioccolata una querelle tra i Gesuiti e i Domenicani. I Gesuiti, che avevano portato dal Messico in Europa il cacao, cioè il seme torrefatto e polverizzato di quella pianta che poi Linneo avrebbe chiamato Theobroma cacao, ne erano accesi fautori, mentre i Domenicani nel “brodo indico” identificavano un pericolo che inviava “A l’Italia civil, l’Asia inumana”.
L’opposizione domenicana ed il parere non favorevole di non pochi medici ed economisti dell’epoca non impedirono l’esplosione del consumo del cacao sotto forma di bevanda, il cioccolatte, seguito da quello del caffè, rispetto al quale non pochi teologi sottolineavano un aspetto positivo: liquidum non frangit jejunum.
Ma che non fosse proprio bevanda per tutti ce lo ricorda Despina, la cameriera delle due sorelle del Così fan tutte mozartiano (scena VIII) mentre frulla il ciocolatte:

“è mezz’ora che sbatto;
il ciocolatte è fatto, ed a me tocca
restar ad odorarlo a secca bocca?”

Alla grande diffusione delle due citate bevande si aggiunse quello del tè ad opera soprattutto degli Inglesi.
Uso ed abuso della cioccolata furono stigmatizzati da parte di medici illustri, ma con scarso successo, finché si realizzò che si stava arrivando ad una vera forma di dipendenza, non meno inquietante di quella dall’oppio, la droga di gran moda tra la metà del Settecento ed inizio Ottocento: si ricorderà a questo proposito il celebre libro del de Quincey The Confessions of an English opium eater (1821).
A qualcuno la gran bevanda in luogo che calda piaceva consumarla ghiacciata, con scandalo dei puristi, per i quali questa variante suonava eresia. Si riservava il freddo ai sorbetti, preparati con la neve, mentre l’uso del vino diaccio era stato preconizzato dal Redi ne Il Bacco in Toscana; per questo il geniale Archiatra ideò speciali contenitori a doppia parete ancora oggi disponibili, ovviamente pieni, in qualche trattoria toscana, le celebri “cantimplore”.
L’uso del vino di Champagne ghiacciato, secondo quanto ci racconta Alexandre Dumas padre nella sua causerie “Il curato di Boulogne”, fu reso di moda in Francia, alla corte di Luigi XV, dal celebre navigatore e buongustaio Louis Antoine de Bougainville.
Tra i due grandi secoli, Seicento e Settecento, sottolinea Camporesi, quella del Seicento era una cioccolata “barocca”, ricca all’eccesso di aromatizzanti che ne modificavano il delicato gusto, laddove nel Settecento essa aveva ceduto il passo ad una cioccolata “illuministica”, più semplice, diremmo quasi più razionale, quale si ottiene mescolando cacao e zucchero, al più con l’aggiunta di un po’ di polvere di vaniglia, la quale, come è noto, è di per sé priva di gusto ma emana un profumo delizioso, dovuto alla aldeide cinnamomica, isolata nel 1853 dal chimico francese Gobley.
Piaceva tanto anche al piccolo Wolfgang Amadé Mozart che in una lettera alla sorella Nannerl racconta di aver gustato “una taßa ciocolata” nonché un buon bicchiere di vino di Spagna.

J. Anthélme Brillat-Savarin, diplomatico e filosofo francese, noto soprattutto come gastronomo raffinato e colto, nella sua Physiologie du goût ou Méditations de Gastronomie Trascendante (Paris, Libr. Sautelet, 1825), alla Meditazione VI, X, relativa al cioccolato, sottolineava come con il cacao si faccia solamente una pasta, mentre la cioccolata necessita l’aggiunta di zucchero e di una piccola quantità di polvere di vaniglia: in tal guisa “on atteint le nec plus ultra de la perfection à laquelle cette preparation peut être portée”.
Chi fa uso di cioccolata, egli ci assicura, gode di buona salute, migliore di chi si astiene da tale delizia del palato, corroborante e nutriente, non per nulla “il gran cibo degli dèi”.
A Brillat-Savarin non piaceva affatto il cacao di Spagna, incostante per qualità, e neppure quello italiano, troppo amaro per incompleta tostatura dei semi, per cui la preparazione risulta variabile: per lui il migliore è quello che si usa in Francia...
La sua ricetta per la cioccolata è la seguente: si prenda un oncia e mezza di cacao per tazza, da sciogliere con delicatezza, usando una spatola di legno, man mano che l’acqua prende bollore e facendo poi bollire per un quarto d’ora, in modo che la cioccolata raggiunga la giusta consistenza; si serva subito, il più caldo possibile, fumante.
E secondo il consiglio dato al gastronomo da madame d’Arcestrel, superiora in un Convento a Belley, città natale di Brillat-Savarin, per ottenere un’eccellente cioccolata, preparatela la sera precedente “dans un cafetière de faïence et laissez-la. Le repos de la nuit le concentre et lui donne un velout qui le rend meilleur”: un sistema proprio adatto ai tempi nostri, in cui ci propinano buste di plastica con un “prodotto” da sciogliere estemporaneamente in acqua bollente... Dio ce ne scampi!
Il grande Artusi prescrive cinquanta grammi o poco più di polvere, a seconda si voglia una preparazione più o meno densa.
È poi venuta di moda la combinazione di cioccolata e caffè, forse anch’essa ricetta del famoso impresario teatrale Domenico Barbaja, attivo anche alla Scala, inventore della classica “barbajada”, che però consiste in un tuorlo d’uovo sbattuto con zucchero, sul quale composto si faccia decedere caffè e cioccolata bollenti.
Cioccolato & caffè vien chiamato dalla Sanvitale “un matrimonio d’amore e passione”. E vedremo più in là il significato “biologico” di questo amour-passion.
Alle bevande calde, siano esse cioccolata, caffè o tè, osserva il finissimo Camporesi, conviene, al risveglio mattutino, un ambiente intimo, la camera da letto o l’ormai scomparso boudoir.
Bevanda perciò, la nostra cioccolata, da gustarsi con gioiosa meditazione, mentre dalla tazza

“... in alta spuma
gorgoglia e fuma”.

Che gusto, direbbe in italiano Wolfgang Amadé.
Piacere non conviviale quanto piuttosto della riservatezza che si addice al talamo, laddove invece i vini sono connaturati alla convivialità e alla conversazione, frivola o dotta che sia.
E che belle cioccolatiere, le prime in metallo a bocca larga, e poi a mo’ di caffettiera in ceramica, con un foro al centro del coperchio, per potervi introdurre una bacchetta di avorio per la frullatura della preziosa bevanda: e poi le tazze in porcellana o ceramica, con i marchi di Sèvres, di Meissen, di Berlino, di Capodimonte, o milanesi dei Clerici... il piacere della vista associato a quelli del gusto e dell’olfatto.

un po’ di storia

Quanta strada aveva dovuto compiere la preziosa polvere, dal mito alla storia, prima di giungere a noi.
Gli antichi testi Maya parlano di un origine divina della sacra pianta, dono di Xmucane, uno degli dèi della creazione. La pianta del cacao, proveniente allo stato selvatico dal bacino dell’Amazzonia, fu coltivata, a partire da circa 4000 anni fa, negli stati di Tabasco, Oaxaca e Chiapas nel Messico del Sud, in Guatemala e nel Belize: più o meno nello stesso periodo iniziò l’uso del cacao bollito nell’acqua.
L’invasione dei Toltechi, provenienti dal nord, diede avvio non solo alla costruzione delle stupefacenti piramidi di Teotihuacan, ma all’ulteriore sviluppo delle piantagioni di cacao che queste popolazioni, residenti nell’area dell’attuale Messico, ritenevano iniziata dal dio piumato Quetzalcóatl. La civiltà tolteca fu distrutta nel XIV secolo dall’arrivo del popolo azteco, detto anche Mexica: esso sottomise le popolazioni tolteche e costruì la propria capitale su due isole del lago Texcoco. A partire dal XV secolo gli Aztechi svilupparono uno stato politicamente, culturalmente e militarmente di grande rilievo: la capitale Tenochtitlan, situata nell’area dove attualmente sorge Città del Messico, era popolata da 250-300.000 abitanti, certamente una delle più grandi città del mondo in quel periodo.
Gli Aztechi amavano moltissimo la bevanda a base di cacao che essi avevano conosciuto attraverso la cultura tolteca e ne avevano conservato anche il nome, di assai probabile derivazione tolteco-maya: atle acqua e xoc il rumore che la bevanda provoca quando viene sbattuta per ottenerne la schiuma, qualcosa come “acqua sbattuta” (frappé ?).
I semi di cacao di prima qualità erano usati anche come moneta e ad essi si dava il nome di quauhcacahuatl, mentre per quelli di qualità inferiore, destinati alla trasformazione in bevanda, si parlava di tlacacahuatl.
L’uso della bevanda era limitato ai maschi adulti, segnatamente ai nobili, ai sacerdoti, agli ufficiali, ai funzionari di alto rango e persino ai prigionieri di guerra dimostratisi particolarmente valorosi in battaglia, in segno di ammirazione e rispetto, prima della loro esecuzione.
Per gli effetti psicostimolanti e talora tossici, l’uso della bevanda era proibito a donne e bambini.
Gli Spagnoli giunti in Messico (Nuova Spagna) nel 1519 vennero a conoscenza dagli indigeni della pianta del cacao e della bevanda che questi ricavavano dai semi torrefatti del frutto, nonché delle virtù terapeutiche ad essa attribuite.
Antichi scritti medici locali, nonché le cognizioni apprese dagli indigeni, furono annotati da religiosi spagnoli: due di questi manoscritti giunti a noi sono di particolare importanza: il Codex Barberini Lat. 24 (1552) ed il Codex Florentinus (1570), redatti - come si è detto - sulla base di testi aztechi, di informazioni orali e di osservazioni personali.

Il Codex Barberini detto anche Badianus, scritto in lingua nathual/azteca ed in latino, è in sostanza un erbario, nel quale sono indicate oltre cento condizioni cliniche, comuni in quel Paese, nelle quali era indicato l’uso di piante medicinali che ivi crescevano. Tra le piante descritte nell’erbario figura l’albero del cacao, la cui riproduzione iconografica è assai realistica. I fiori del cacao venivano impiegati in bagni profumati per combattere la stanchezza psico-fisica.

Il Codex Florentinus fu compilato dal religioso Bernardino de Sahagún, che era giunto nella Nuova Spagna nel 1529: uomo intelligente e privo di pregiudizi nei riguardi degli indigeni, che i più consideravano incivili ed ignoranti, cercò di trarre il maggior profitto dalle conoscenze mediche locali.

Da questo documento apprendiamo per esempio che i medici aztechi ponevano in guardia dall’uso eccessivo della cioccolata preparata con semi di cacao non ben tostati, mentre ne incoraggiavano l’uso moderato, giudicandolo vantaggioso allo stato di benessere e alla salute. Essi usavano inoltre il cacao per mascherare il sapore sgradevole di altri farmaci; mescolato al cacao, in forma di pasta, era descritto un medicamento usato nella dissenteria a contegno emorragico, detto quinanetli, identificato come “polvere di antiche genti dette giganti”, come indica E. Grivetti della Università della California a Davis, nella sua Cultural History of Chocolate (Basel, Karger, 2006).

Della diffusione del cacao in Europa già si è detto, mentre nell’America del Nord pare esso sia giunto a partire da uno stabilimento religioso spagnolo (San Augustin, Florida).
Una allegoria della “presentazione” del cacao da parte del Nuovo Mondo, rappresentato da un indigeno in eleganti abiti, a quello Nuovo, impersonato da Nettuno che varcherà l’Atlantico con il prezioso dono, figura nella copertina del Curioso Tratado de la Naturaleza y Calidad del Chocolate, di A. Colmenero de Ledesma (1631).

È allora il cacao, e per conseguenza la cioccolata, medicina o alimento squisito, il gran cibo degli dèi?
In un’accurata ricerca bibliografica condotta da E. Grivetti (Jour. Nutrit. Suppl. 130, 2057 S-2072 S, 2000) sono state individuate, per un periodo di circa cinque secoli, numerosissime indicazioni all’uso terapeutico del cacao come tale o sotto forma di cioccolata. Si va dal trattamento delle sindromi febbrili alla patologia digestiva; ad esempio, associato al chili, il cacao trovava impiego nei disturbi gastrici (verosimilmente per la presenza della capsaicina), mentre con rabarbaro e vaniglia era impiegato quale lassativo. Santiago de Valverde Turices (1624) riteneva il cacao molto efficace nelle malattie respiratorie e nell’asma, il che non ci sorprende dato il contenuto in teobromina e caffeina, dotate di attività bronchiolo-dilatatrice: del resto fino agli anni Sessanta del Novecento i derivati teofillinici erano largamente impiegati in queste indicazioni, mentre il “caffè turco” veniva raccomandato nella crisi asmatica dalla Scuola tedesca e da Imre von Zarday, mio maestro a Budapest.