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IL CARNEVALE ROMANO Curiosità, animali, costume nella storia del carnevale più antico del mondo |
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Il francescano Sisto V fu un austero oppositore del Carnevale; limitò al massimo le feste profane, e fece innalzare in varie piazze alcune forche per far giustizia immediata dei colpevoli di disobbedienza ai suoi “Bandi per lì Palii”.
Immagine a lato: Mossa dei barberi, (1827) Giuseppe Ferrante Perry |
La lunga storia del carnevale di Roma e soprattutto della sua nascita e del suo sviluppo è una metafora del potere temporale della chiesa. Dopo aver avversato, nel periodo dei primi secoli, quelle tradizioni che derivavano da Baccanali, Saturnali, Lupercali e così via, che stavano scomparendo con l’abbandono del culto degli dei, è, infatti, proprio la chiesa che riassorbe e amplifica la voglia di divertirsi del popolo romano.
Si può comunque affermare che il rapporto dei papi con il carnevale è stato spesso contraddistinto dalla mescolanza di ciò che fosse lecito e ciò che fosse proibito. Tra le cose proibite troviamo “tirare milagnole né ova, né qualsivoglia et sia acqua, ovvero altra cosa putrida”. Così fu proibito ancora di “portare armi tanto offensive quanto difensive, bastoni, bacchette et sassi... con pene etiam fino alla morte inclusive ad arbitrio di Monsignore Reverendissimo Governatore, intimando che i delitti fatti dalle maschere si puniscano straordinariamente et secondo l’arbitrio sopradetto”. Questo Bando fu famoso perché in esso per la prima volta si parla di pena di morte per... licenze carnevalesche! A dire il vero sembra forse un po’... esagerato oggi, ma altrettanto sfrenati dovevano essere gli eccessi popolari che lo resero necessario. Tra le cose regolamentate, vi furono ovviamente anche le corse dei Palii che, nel tempo, dovevano assumere il ruolo di attrazione centrale del carnevale romano. Nel regolamento a questo proposito ci si occupa sia dell’ordine pubblico, che della sicurezza di chi assiste e di chi corre. Chi aveva provocato, con il proprio atteggiamento scorretto, danni gravi o morte sarebbe stato punito con pene severe in pari misura sino alla morte. Il francescano Sisto V fu un austero oppositore del Carnevale; limitò al massimo le feste profane, e fece innalzare in varie piazze alcune forche per far giustizia immediata dei colpevoli di disobbedienza ai suoi “Bandi per lì Palii”. Una pena attesa con gioia dal popolino era quella cui erano condannate le cortigiane ree di essersi mascherate contrariamente al divieto. Esse erano frustate a dorso nudo nella via del Corso, e tale pena era applicata con molta severità e rigore. Nel 1636 capitò persino alla Cecca buffona, amica del nipote di Urbano VIII; e che, nonostante l’intercessione del suo amante, non riuscì a farla franca. Il Carnevale romano nel secolo XVII giunse al colmo del suo splendore: nel 1634 si allestirono a Roma festeggiamenti senza pari in onore del principe polacco Alessandro Wasa, organizzati dal cardinale Antonio Barberini, che tra le altre cose volle una Giostra del Saracino perché “ bramoso di veder ravvivato nella gioventù romana il primiero gusto de’ cavallereschi esercitii stimò niun’altra festa poter esser più a propositi di questa per un tal fine”. Nella stessa occasione fu anche presentato un grande spettacolo cui parteciparono ben 360 persone, con trentotto cavalli, un nano e un toro. Il nano “era” del cardinale Antonio Barberini, e montava il toro scortato da due staffieri. Il Carnevale del 1649 fu molto brillante, forse perché precedeva l’anno del Giubileo, e si organizzarono mascherate di grande impegno: si poté ammirare il marchese Miroli, ferrarese, che rappresentava il Sole con un vestito tutto in oro, seguito da otto staffieri anch’essi in ricchissime vesti d’oro e d’argento; il conte Barbana, bolognese, che invece rappresentava la Luna vestito in turchino e argento con otto staffieri con vesti degli stessi colori; il Torres e l’Astalli, l’uno nelle vesti di Rodomonte e l’altro di Mandicarlo, seguiti da un carro sul quale c’erano Bacco con baccanti e un orso; tutti completamente ubriachi tranne forse l’orso. Questo carro destò interesse e scandalo perché le baccanti oltre ad essere coperte solo da veli, per la sbronza che avevano presa erano sconce “nel detto e nell’azione” e quindi i lazzi dei giovani perditempo che erano per strada e le risposte delle giovani davano luogo a dialoghi... non ripetibili. Come contrappasso in questo periodo invalse l’uso di giustiziare, a mo’ di spettacolo, nei giorni di Carnevale a Piazza Navona o a Campo de’ Fiori i malcapitati “delinquenti carnevaleschi”. Racconta Giacinto Gigli che quattro di codesti... malfattori, tra cui il figlio del conte Soderini, furono giustiziati nel primo lunedì di Carnevale del 1651 perché rei di aver lanciato dei gatti morti sulle carrozze che sfilavano lungo il Corso! In questo periodo cessa anche il rapporto burrascoso che i giudei avevano con il carnevale romano. Infatti quando giunse alla cattedra di Pietro un pio e caritatevole pontefice, Clemente IX, venne abolita la corsa degli ebrei. In effetti, il rapporto del carnevale con gi ebrei era stato sino a quel momento molto difficile. Ci racconta un cronista del XVI secolo che taluni malcapitati erano portati sul monte Testaccio, spogliati e chiusi in botti che venivano fatte rotolare. Se uscivano vivi dalle botti, subivano ancora il ludibrio degli astanti; se morivano, veniva data loro sepoltura. Gli ebrei scelti di solito per questo barbaro divertimento erano quelli che si erano dimostrati esosi contro qualcuno. Si sa per certo che tutti i vari pontefici avevano mantenuto l’uso di pretendere il versamento coatto di una somma per finanziare il carnevale. Ciò che non appare certo è che vi fosse l’obbligo di disputare le corse a piedi per i pali. Dalle notizie giunte dai cronisti emerge sì, che vi fossero corse riservate agli ebrei come categoria, ma che i taluni anni queste non vennero disputate per mancanza di iscritti. Alcuni cronisti sostengono che fu Clemente IX, che, nel riscattare gli ebrei da questa ignobile servitù, impose loro il pagamento di trecento scudi l’anno che andavano a formare i premi per i palii delle corse dei cavalli. Dal 1700 invalse l’uso di mascherarsi secondo canoni di uso comune e popolare. Le maschere preferite nei travestimenti cominciavano ad essere quella di Pulcinella, Traccagnino, la Vecchiaccia, dalla maschera col naso aquilino ed una lunga camicia da notte, il Facchino, che era la maschera milanese del giocatore di morra, l’Aquilano, maschera abruzzese, e Cola, che rappresentava un uomo semplice, in età piuttosto avanzata, ma ancora desideroso... di amore, e la maschera del Conte, poeta satirico ed improvvisatore. Le maschere romane che poi si consolidarono furono quelle di Meo Patacca, Rugantino, Cassandrino, Don Pasquale de’ Bisognosi e le maschere femminili delle “zingaresche”. Il Pallio col passar del tempo fu corso solo dai cavalli e le casate più nobili facevano partecipare i propri cavalieri, per offrire i Palii conquistati alle loro Cappelle e ai loro Santi. Così le più grandi famiglie romane, come i Colonna, i Barberini, gli Orsini, i Borghese, i Gabrielli, i Santa Croce, i Cesarini, i Chigi, i Rospigliosi, i Lancellotti, i Corsini, fino alla metà del secolo XVIII erano sempre tra i vincitori.
Anche il Goethe, nel 1788, ci parla della corsa trattando del Carnevale romano. Scrive: “La corda che chiude la piazza del Popolo dalla parte del Corso si abbassa e i cavalli si slanciano nella strada. Sul principio lo spazio è largo abbastanza per permettere la gara fra loro, ma subito dopo si trovano chiusi fra due file di carrozze, e gli sforzi per passare avanti l’uno all’altro sono difficili, pericolosi, e non riescono quasi mai, perché mentre i primi entrati nel Corso continuano la strada con sempre crescente ardore, gli altri rimasti indietro che cercano di raggiungerli, si urtano, si attraversano, si ostacolano reciprocamente. La corsa, che non ha per lo spettatore neppure la durata di un lampo, è aspettata da tutti con ansia, ma nessuno potrebbe dire ciò che ne opera o ciò che ne sente, e questo effimero piacere va unito a grandi pericoli. Appena i barberi sono arrivati al palazzo Venezia, si fa sparare un piccolo mortaio; lo stesso segnale è tosto ripetuto a metà del Corso e alla piazza del Popolo; i soldati e i poliziotti si ritirano e la folla gode finalmente di una libertà illimitata”. Ebbe a dire il Goethe: “Il carnevale romano dell’800 non è una festa data al popolo ma una festa che il popolo dà a se stesso”. Agli inizi del secolo XIX, il primo giorno di Carnevale l'armata pontificia era passata in rassegna nei viali del Pincio dal suo Comandante, generale Zamboni. Poi i dragoni andavano verso il Corso e all'altezza della Chiesa di San Carlo si mettevano al trotto, arrivando al galoppo in Piazza Colonna. Lì, il Comandante scendeva da cavallo, e salutava il popolo a nome di Sua Santità. Nel 1831 Gregorio XVI forse temendo i moti rivoluzionari che già incominciavano a serpeggiare, proibì il carnevale. Nel 1850 il Carnevale “benedetto” incominciò a diminuire, eccezion fatta della fiera in Piazza Navona dove bande musicali permettevano al popolo di ballare e divertirsi alla luce di fiaccole che erano issate su alcune pertiche. Poi i “bengala” illuminavano la fontana del Bernini, Palazzo Braschi e il campanile di Sant'Agnese. Ritornando ai cavalli berberi, questi furono inseriti nel gran carnevale di Roma a munificenza della Roma pontificia che aveva affidato al Prelato Governatore la potestà della corsa. Negli anni successivi il “mossiere”, ossia il magistrato che presiedeva “la mossa” o partenza delle corse, pretendeva che tutti credessero alla provenienza dei cavalli da oltre mare! La corsa partiva da Piazza del Popolo e doveva arrivare in Piazza Venezia, ove attendevano l’arrivo il Senatore delegato, il Governatore di Roma e i giudici: chi voleva godersi l'arrivo di questa corsa sfrenata e pericolosa prendeva posto nei palchi che venivano messi nella Piazza. In media l'intero percorso veniva coperto in due minuti e venti secondi. Così i focosi destrieri percorrevano l'intero Corso, sul quale gli Artiglieri pontifici in grande uniforme formavano cordone per contenere la folla che faceva ressa entusiasta, per ammirare la corsa. Inoltre un drappello di Dragoni pontifici pochi minuti prima dell'inizio dei corsa faceva il percorso di galoppo, e senza tanti riguardi piombava sulla folla che invadeva una parte della strada senza risparmiare, all'occasione, colpi di sciabola per intimare l'obbedienza. Da notarsi che il Carnevale di Roma iniziava il sabato precedente la domenica di Sessagesima e terminava martedì seguente la Quinquagesima. Le corse erano otto, come otto erano i palii, che consistevano in varie canne di seta o di altra stoffa che pendevano da alcune aste. I fedeli del Campidoglio con la loro bella livrea, cappello a “a marmitta” e fiocco giallo e mantello giallo-rosso, li portavano prima in cavalcata per la città, preceduti da araldi con trombe, sino al palazzo ove risiedeva il Papa. Questi palii benedetti dal Papa erano finanziati dalla comunità israelitica, in seguito alla direttiva di Papa Paolo II che disponeva il pagare da parte degli ebrei la somma di millecentotrenta fiorini d'oro; fiorini spiccioli, che non erano un capriccio, ma avevano un significato: volevano far ricordare i trenta denari che ebbe Giuda! Dopo il pontificato di Papa Gregorio XVI la somma si aggirò sui seimila scudi. La Corsa dei Barberi, che si chiamava così per la razza dei cavalli corridori, originari della Barberia (che però nel secolo scorso provenivano in realtà dalle nostre paludi pontine), fu abolita nel 1874 con un decreto del Consiglio Comunale. Essa rappresentava uno storico rito del carnevale romano “rinascimentale” e fu immortalata dai migliori pittori e acquerellisti di Roma, e dal veneziano Ippolito Caffi. Il sindaco Pietro Venturi, per rilanciare il carnevale, riprese l'abitudine delle Corse dei Barberi; il ritorno di questa corsa fece divertire molti, mentre altri si disgustarono per il ripetersi di un'usanza carnevalesca che non aveva nulla di civile. Nel 1884 le corse dei barberi furono proibite, e per sempre, e fu invece organizzata la cavalcata degli artisti, nel giorno di giovedì grasso, da Piazza del Popolo sino a Piazza Venezia. L'ultima cavalcata fu effettuata nel 1890. Alla fine del 1800 il carnevale, che non è più una festa popolare, è in piena decadenza. Gogol nei suoi Racconti di Pietroburgo, a proposito dei Carnevale di Roma fa dire a un suo interlocutore: “Questo è un carnevale per bambini. lo mi ricordo il vero carnevale: quando per tutto il corso non c'era neppure una carrozza e per tutta la notte le vie erano piene di musica... o quanta allegria! Ma adesso che specie di carnevale è mai questo?... E’ una porcheria”. Nel 1900 vi fu a Roma l'ultimo carnevale di una certa importanza; ma non fu dato il ballo a corte, perché era l’anno giubilare e la Regina Margherita non volle; forse anche perché casa Savoia aveva preso ai pontefici il palazzo del Quirinale, per tanto tempo loro residenza. A questo proposito la voce popolare vide nell'assassinio di Monza di re Umberto la maledizione che, si dice, gravi su coloro che vogliono prendersi i beni della Chiesa. Nel 1901, il Carnevale a Roma passò quasi inosservato fin quando s’inaugurò la Fontana dell'Esedra' con le Naiadi del Rutelli, e, forse per le scandalose nudità delle procaci statue, Roma si risvegliò dal suo letargo, e si organizzò proprio in quella piazza una mascherata che fu l'ultimo “sprazzo”» di vita del Carnevale romano.
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