IL CARNEVALE ROMANO

Curiosità, animali, costume nella storia del carnevale più antico del mondo





  Il francescano Sisto V fu un austero oppositore del Carnevale; limitò al massimo le feste profane, e fece innalzare in varie piazze alcune forche per far giustizia immediata dei colpevoli di disobbedienza ai suoi “Bandi per lì Palii”.

Immagine a lato:

Mossa dei barberi, (1827)

Giuseppe Ferrante Perry






di  Rodolfo Lorenzini


La lunga storia del carnevale di Roma e soprattutto della sua nascita e del suo sviluppo è una metafora del potere temporale della chiesa. Dopo aver avversato, nel periodo dei primi secoli, quelle tradizioni che derivavano da Baccanali, Saturnali, Lupercali e così via, che stavano scomparendo con l’abbandono del culto degli dei, è, infatti, proprio la chiesa che riassorbe e amplifica la voglia di divertirsi del popolo romano.
Le notizie che emergono dalle cronache dell’epoca e dalle biografie di alcuni pontefici, ci dicono che fino al X secolo i papi osteggiavano le Feste dei Pazzi. Queste feste erano chiamate anche della libertà e lo stesso clero, o almeno la parte peggiore di esso, profanava le chiese insieme al popolo più libertino mescolando il sacro al profano.
Menestrelli o trovatori tramandano l'eco delle feste carnevalesche in onore di Carlo I di Provenza nel 1285; cominciò allora l'usanza delle giostre nelle feste di Agone e di Testaccio, nomi che ricordano i luoghi della città nei quali si svolgevano principalmente le feste nel periodo del Carnevale. Fu per queste feste che sui resti del circo agonale di Domiziano, capace di ben trentatremila posti, si spianò Piazza Navona che doveva per alcuni secoli, essere il teatro principale del carnevale romano. In questa piazza di Agone, poi Nagona, e poi... Navona, e al Monte Testaccio si festeggiava il carnevale nel Medioevo. Le feste, ridotte dai pontefici al giovedì grasso in Piazza Navona e alla domenica di carnis privium al Testaccio, furono chiamate carnevalesche e precedevano un periodo di penitenze chiamato Quaresima. Così la settimana che precedeva la Quaresima fu periodo di feste e fu chiamata hebdomada grassa e l’ultima domenica dominica a carnes levandas.
Fino al secolo XV mancano notizie di altre feste carnevalesche, oltre a quelle di Agone e Testaccio, che, tra l’altro, non si ripetevano tutti gli anni. Ciascun rione offriva i propri campioni e alcuni tori ornati da nastri con i colori del quartiere. La festa consisteva appunto in una specie di corrida e poi in una Giostra del Saraceno.
E’ nel 1467 che il carnevale romano inizia nella forma e nei modi che noi consideriamo attuali; inizia con Papa Paolo II che seppe comprendere la sua epoca così bene da applicare in pieno l'antica formula panem et circenses. Fu questo Papa che volle che il Carnevale si svolgesse in piena città, trapiantandolo dal Testaccio, dove esisteva in linea primordiale e popolaresca.
La via Lata dove avevano luogo le corse, soprattutto a piedi, che si organizzavano per il Carnevale, cambiò appunto il suo nome in quello di via del Corso, e la zona delle feste divenne proprio quella del Corso, di piazza Venezia, di palazzo San Marco. Il punto di partenza delle corse era Piazza del Popolo, che a quei tempi era in piena campagna. Dal palazzo del Papa, oggi Palazzo Venezia, si assisteva all'arrivo delle “bestie bipede”, che erano “ebrei, garzoni e vecchi” che si disputavano la conquista dei palii. Si corsero anche i pali degli asini, delle bufale e dei cavalli.
Il Papa lasciava che il popolo si sfrenasse e si divertisse finché voleva nei giorni di festa. Paolo II, infatti, non solo volle il Carnevale in maschera, ma volle anche che il popolo banchettasse in Piazza Venezia mentre egli guardava dalle sue logge.
Il Papa elargì ben quattrocento fiorini d'oro per finanziare la prima mascherata. Questa era composta da un corteo di giganti, puttini e amorini, cui seguivano circa duecento adolescenti con bandiere diverse e personificazioni di personaggi storici, re e regine, tra cui spiccava per la sua avvenenza Cleopatra, accompagnata da Cesare Augusto. Vi era poi l'Olimpo al gran completo, con Diana circondata di ninfe seminude e quattro carri raffiguranti l’apoteosi del Pontefice.
Nel 1471 per la visita di Borso d'Este Duca di Ferrara il carnevale assunse un carattere più festoso con giostre, cacce e spettacoli. Al seguito del duca sfilò un corteo con centosettantacinque muli bardati a festa e ottanta paggi con cani e falconi seguiti da cinquecento cavalieri in varie divise; furono organizzate in suo onore le feste di Agone e di Testaccio e i festeggiamenti si prolungarono per un mese.
Grandi organizzatori del carnevale divennero in quel tempo i cardinali. Nel 1473 il rientro dalla guerra di Levante del cardinale Carafa diede lo spunto al cardinale Riario di costruire per il Carnevale dei carri che ricordavano le gesta del cardinale guerriero e marinaio. Con la morte del cardinale Riario, un altro diletto nipote di Papa Sisto, il conte Geronimo, prese l'organizzazione delle feste carnevalesche, allestendo una grande giostra in piazza Navona alla quale parteciparono cavalieri italiani, catalani e di Borgogna.
In effetti, il Carnevale romano, libero, sfrenato, come quello di Paolo II, che poi era... veneziano, non durò molto; forse una cinquantina d'anni, perché i Papi cominciarono ed emanare Bandi e Avvisi che vietavano determinate mascherate e travestimenti, come per esempio, “con vesti cardinali, vescovi o prelati né in cocchio né sénza cocchio”. In alcuni casi furono previste anche pene corporali con scudisciate da infliggere in pubblico e proprio “nel luogo dell'arresto, senza domandare né conoscere chi siano”.
Sotto il dominio dei Borgia tutta la vita romana rispecchiava la corruzione del tempo e dei costumi. Si ritornò ai primi secoli della chiesa, e sotto altra veste baccanali e saturnali si ripeterono con sfarzo, lusso e sfrenatezza di costumi.
Il secolo XVI fu inaugurato col Giubileo, vale a dire con l'Anno Santo, ma ciò nonostante in Piazza Navona vi fu una sfilata di ben undici carri con la rappresentazione della Gloria di Giulio Cesare, ideata dal Valentino, fu addirittura permesso di entrare nelle chiese in maschera. Nel 1502, per il matrimonio di Lucrezia Borgia con il duca Alfonso di Ferrara, il Carnevale fu anticipato al 17 dicembre con un gran ballo al palazzo di Lucrezia, e per l'occasione si permise di portare la maschera in strada.
L'anno seguente, il 1503, che doveva essere l'ultimo del papato di Alessandro VI, il Carnevale s’iniziò come di consueto, ma erano state permesse le maschere anche nei giorni di Natale e proprio il giorno di Natale si tenne una sfilata di maschere satiriche sulla corte pontificia. Durante una mascherata un individuo vestito da cardinale in cappa e porpora offrì un gran calice al cardinale decano, Orsini, che assisteva col Papa in San Pietro. L’Orsini morì sul colpo e allo sconosciuto in maschera da cardinale furono mozzate le mani e la lingua.
Con Giulio II, le cose cambiarono e il carnevale finì col passare quasi inosservato; il Papa era sempre sui campi di battaglia e solo quando tornò vincitore da Perugia e da Bologna, si festeggiò il Carnevale dal 17 gennaio all'otto marzo. Giulio II è il pontefice cui si deve anche il merito di aver dato un grande impulso all’attività equestre e all’arte equestre in particolare, chiamando a Roma i grandi maestri del tempo su cui emerge il nome del Pignatelli.
Con l'elezione di Leone X, Roma divenne la vera caput mundi, il centro dei divertimenti e delle feste e tutto il pontificato di questo Papa fu “un baccanale continuo”, a dire dei cronisti. Le feste carnevalesche non ebbero più calendario e diventarono più allegre e meno agonistiche; poche giostre e molto più teatro e divertimenti, e s’inventarono cose nuove come una corsa di cavalli divisa in varie squadre di cavalieri.
Le commedie dell'Ariosto si rappresentavano con le scene dipinte da Raffaello, e, per non saper più cosa inventare, un convito di Lorenzo Strozzi passò alla storia per aver fatto trovare agli invitati teste di morto dappertutto insieme... a fagiani e pollanche. Durante il pontificato di Leone X si videro dei cardinali, come l'Aragona e il Gara che, in maschera, accompagnavano i tori al Testaccio in corteo con i Mamelucchi. Fu proprio nel '500 che i giochi e le carnevalate al Testaccio si affermarono sì da diventare tradizionali e durarono circa quattro secoli.

I moccoletti al Corso, (1850 ca.)

Ippolito Caffi




Si può comunque affermare che il rapporto dei papi con il carnevale è stato spesso contraddistinto dalla mescolanza di ciò che fosse lecito e ciò che fosse proibito.
Tra le cose proibite troviamo “tirare milagnole né ova, né qualsivoglia et sia acqua, ovvero altra cosa putrida”. Così fu proibito ancora di “portare armi tanto offensive quanto difensive, bastoni, bacchette et sassi... con pene etiam fino alla morte inclusive ad arbitrio di Monsignore Reverendissimo Governatore, intimando che i delitti fatti dalle maschere si puniscano straordinariamente et secondo l’arbitrio sopradetto”. Questo Bando fu famoso perché in esso per la prima volta si parla di pena di morte per... licenze carnevalesche! A dire il vero sembra forse un po’... esagerato oggi, ma altrettanto sfrenati dovevano essere gli eccessi popolari che lo resero necessario.
Tra le cose regolamentate, vi furono ovviamente anche le corse dei Palii che, nel tempo, dovevano assumere il ruolo di attrazione centrale del carnevale romano. Nel regolamento a questo proposito ci si occupa sia dell’ordine pubblico, che della sicurezza di chi assiste e di chi corre. Chi aveva provocato, con il proprio atteggiamento scorretto, danni gravi o morte sarebbe stato punito con pene severe in pari misura sino alla morte.
Il francescano Sisto V fu un austero oppositore del Carnevale; limitò al massimo le feste profane, e fece innalzare in varie piazze alcune forche per far giustizia immediata dei colpevoli di disobbedienza ai suoi “Bandi per lì Palii”.
Una pena attesa con gioia dal popolino era quella cui erano condannate le cortigiane ree di essersi mascherate contrariamente al divieto. Esse erano frustate a dorso nudo nella via del Corso, e tale pena era applicata con molta severità e rigore. Nel 1636 capitò persino alla Cecca buffona, amica del nipote di Urbano VIII; e che, nonostante l’intercessione del suo amante, non riuscì a farla franca.
Il Carnevale romano nel secolo XVII giunse al colmo del suo splendore: nel 1634 si allestirono a Roma festeggiamenti senza pari in onore del principe polacco Alessandro Wasa, organizzati dal cardinale Antonio Barberini, che tra le altre cose volle una Giostra del Saracino perché “ bramoso di veder ravvivato nella gioventù romana il primiero gusto de’ cavallereschi esercitii stimò niun’altra festa poter esser più a propositi di questa per un tal fine”. Nella stessa occasione fu anche presentato un grande spettacolo cui parteciparono ben 360 persone, con trentotto cavalli, un nano e un toro. Il nano “era” del cardinale Antonio Barberini, e montava il toro scortato da due staffieri.
Il Carnevale del 1649 fu molto brillante, forse perché precedeva l’anno del Giubileo, e si organizzarono mascherate di grande impegno: si poté ammirare il marchese Miroli, ferrarese, che rappresentava il Sole con un vestito tutto in oro, seguito da otto staffieri anch’essi in ricchissime vesti d’oro e d’argento; il conte Barbana, bolognese, che invece rappresentava la Luna vestito in turchino e argento con otto staffieri con vesti degli stessi colori; il Torres e l’Astalli, l’uno nelle vesti di Rodomonte e l’altro di Mandicarlo, seguiti da un carro sul quale c’erano Bacco con baccanti e un orso; tutti completamente ubriachi tranne forse l’orso. Questo carro destò interesse e scandalo perché le baccanti oltre ad essere coperte solo da veli, per la sbronza che avevano presa erano sconce “nel detto e nell’azione” e quindi i lazzi dei giovani perditempo che erano per strada e le risposte delle giovani davano luogo a dialoghi... non ripetibili.
Come contrappasso in questo periodo invalse l’uso di giustiziare, a mo’ di spettacolo, nei giorni di Carnevale a Piazza Navona o a Campo de’ Fiori i malcapitati “delinquenti carnevaleschi”. Racconta Giacinto Gigli che quattro di codesti... malfattori, tra cui il figlio del conte Soderini, furono giustiziati nel primo lunedì di Carnevale del 1651 perché rei di aver lanciato dei gatti morti sulle carrozze che sfilavano lungo il Corso!
In questo periodo cessa anche il rapporto burrascoso che i giudei avevano con il carnevale romano.
Infatti quando giunse alla cattedra di Pietro un pio e caritatevole pontefice, Clemente IX, venne abolita la corsa degli ebrei. In effetti, il rapporto del carnevale con gi ebrei era stato sino a quel momento molto difficile.
Ci racconta un cronista del XVI secolo che taluni malcapitati erano portati sul monte Testaccio, spogliati e chiusi in botti che venivano fatte rotolare. Se uscivano vivi dalle botti, subivano ancora il ludibrio degli astanti; se morivano, veniva data loro sepoltura. Gli ebrei scelti di solito per questo barbaro divertimento erano quelli che si erano dimostrati esosi contro qualcuno.
Si sa per certo che tutti i vari pontefici avevano mantenuto l’uso di pretendere il versamento coatto di una somma per finanziare il carnevale. Ciò che non appare certo è che vi fosse l’obbligo di disputare le corse a piedi per i pali. Dalle notizie giunte dai cronisti emerge sì, che vi fossero corse riservate agli ebrei come categoria, ma che i taluni anni queste non vennero disputate per mancanza di iscritti.
Alcuni cronisti sostengono che fu Clemente IX, che, nel riscattare gli ebrei da questa ignobile servitù, impose loro il pagamento di trecento scudi l’anno che andavano a formare i premi per i palii delle corse dei cavalli.
Dal 1700 invalse l’uso di mascherarsi secondo canoni di uso comune e popolare. Le maschere preferite nei travestimenti cominciavano ad essere quella di Pulcinella, Traccagnino, la Vecchiaccia, dalla maschera col naso aquilino ed una lunga camicia da notte, il Facchino, che era la maschera milanese del giocatore di morra, l’Aquilano, maschera abruzzese, e Cola, che rappresentava un uomo semplice, in età piuttosto avanzata, ma ancora desideroso... di amore, e la maschera del Conte, poeta satirico ed improvvisatore.
Le maschere romane che poi si consolidarono furono quelle di Meo Patacca, Rugantino, Cassandrino, Don Pasquale de’ Bisognosi e le maschere femminili delle “zingaresche”.
Il Pallio col passar del tempo fu corso solo dai cavalli e le casate più nobili facevano partecipare i propri cavalieri, per offrire i Palii conquistati alle loro Cappelle e ai loro Santi. Così le più grandi famiglie romane, come i Colonna, i Barberini, gli Orsini, i Borghese, i Gabrielli, i Santa Croce, i Cesarini, i Chigi, i Rospigliosi, i Lancellotti, i Corsini, fino alla metà del secolo XVIII erano sempre tra i vincitori.

Thomas Jones Barker (1859)




Anche il Goethe, nel 1788, ci parla della corsa trattando del Carnevale romano. Scrive: “La corda che chiude la piazza del Popolo dalla parte del Corso si abbassa e i cavalli si slanciano nella strada. Sul principio lo spazio è largo abbastanza per permettere la gara fra loro, ma subito dopo si trovano chiusi fra due file di carrozze, e gli sforzi per passare avanti l’uno all’altro sono difficili, pericolosi, e non riescono quasi mai, perché mentre i primi entrati nel Corso continuano la strada con sempre crescente ardore, gli altri rimasti indietro che cercano di raggiungerli, si urtano, si attraversano, si ostacolano reciprocamente. La corsa, che non ha per lo spettatore neppure la durata di un lampo, è aspettata da tutti con ansia, ma nessuno potrebbe dire ciò che ne opera o ciò che ne sente, e questo effimero piacere va unito a grandi pericoli.
Appena i barberi sono arrivati al palazzo Venezia, si fa sparare un piccolo mortaio; lo stesso segnale è tosto ripetuto a metà del Corso e alla piazza del Popolo; i soldati e i poliziotti si ritirano e la folla gode finalmente di una libertà illimitata”.
Ebbe a dire il Goethe: “Il carnevale romano dell’800 non è una festa data al popolo ma una festa che il popolo dà a se stesso”.
Agli inizi del secolo XIX, il primo giorno di Carnevale l'armata pontificia era passata in rassegna nei viali del Pincio dal suo Comandante, generale Zamboni. Poi i dragoni andavano verso il Corso e all'altezza della Chiesa di San Carlo si mettevano al trotto, arrivando al galoppo in Piazza Colonna. Lì, il Comandante scendeva da cavallo, e salutava il popolo a nome di Sua Santità.
Nel 1831 Gregorio XVI forse temendo i moti rivoluzionari che già incominciavano a serpeggiare, proibì il carnevale.
Nel 1850 il Carnevale “benedetto” incominciò a diminuire, eccezion fatta della fiera in Piazza Navona dove bande musicali permettevano al popolo di ballare e divertirsi alla luce di fiaccole che erano issate su alcune pertiche. Poi i “bengala” illuminavano la fontana del Bernini, Palazzo Braschi e il campanile di Sant'Agnese.
Ritornando ai cavalli berberi, questi furono inseriti nel gran carnevale di Roma a munificenza della Roma pontificia che aveva affidato al Prelato Governatore la potestà della corsa. Negli anni successivi il “mossiere”, ossia il magistrato che presiedeva “la mossa” o partenza delle corse, pretendeva che tutti credessero alla provenienza dei cavalli da oltre mare!
La corsa partiva da Piazza del Popolo e doveva arrivare in Piazza Venezia, ove attendevano l’arrivo il Senatore delegato, il Governatore di Roma e i giudici: chi voleva godersi l'arrivo di questa corsa sfrenata e pericolosa prendeva posto nei palchi che venivano messi nella Piazza. In media l'intero percorso veniva coperto in due minuti e venti secondi.
Così i focosi destrieri percorrevano l'intero Corso, sul quale gli Artiglieri pontifici in grande uniforme formavano cordone per contenere la folla che faceva ressa entusiasta, per ammirare la corsa. Inoltre un drappello di Dragoni pontifici pochi minuti prima dell'inizio dei corsa faceva il percorso di galoppo, e senza tanti riguardi piombava sulla folla che invadeva una parte della strada senza risparmiare, all'occasione, colpi di sciabola per intimare l'obbedienza. Da notarsi che il Carnevale di Roma iniziava il sabato precedente la domenica di Sessagesima e terminava martedì seguente la Quinquagesima. Le corse erano otto, come otto erano i palii, che consistevano in varie canne di seta o di altra stoffa che pendevano da alcune aste. I fedeli del Campidoglio con la loro bella livrea, cappello a “a marmitta” e fiocco giallo e mantello giallo-rosso, li portavano prima in cavalcata per la città, preceduti da araldi con trombe, sino al palazzo ove risiedeva il Papa. Questi palii benedetti dal Papa erano finanziati dalla comunità israelitica, in seguito alla direttiva di Papa Paolo II che disponeva il pagare da parte degli ebrei la somma di millecentotrenta fiorini d'oro; fiorini spiccioli, che non erano un capriccio, ma avevano un significato: volevano far ricordare i trenta denari che ebbe Giuda! Dopo il pontificato di Papa Gregorio XVI la somma si aggirò sui seimila scudi.

La Corsa dei Barberi, che si chiamava così per la razza dei cavalli corridori, originari della Barberia (che però nel secolo scorso provenivano in realtà dalle nostre paludi pontine), fu abolita nel 1874 con un decreto del Consiglio Comunale. Essa rappresentava uno storico rito del carnevale romano “rinascimentale” e fu immortalata dai migliori pittori e acquerellisti di Roma, e dal veneziano Ippolito Caffi.
Il sindaco Pietro Venturi, per rilanciare il carnevale, riprese l'abitudine delle Corse dei Barberi; il ritorno di questa corsa fece divertire molti, mentre altri si disgustarono per il ripetersi di un'usanza carnevalesca che non aveva nulla di civile.
Nel 1884 le corse dei barberi furono proibite, e per sempre, e fu invece organizzata la cavalcata degli artisti, nel giorno di giovedì grasso, da Piazza del Popolo sino a Piazza Venezia. L'ultima cavalcata fu effettuata nel 1890.
Alla fine del 1800 il carnevale, che non è più una festa popolare, è in piena decadenza.
Gogol nei suoi Racconti di Pietroburgo, a proposito dei Carnevale di Roma fa dire a un suo interlocutore: “Questo è un carnevale per bambini. lo mi ricordo il vero carnevale: quando per tutto il corso non c'era neppure una carrozza e per tutta la notte le vie erano piene di musica... o quanta allegria! Ma adesso che specie di carnevale è mai questo?... E’ una porcheria”.
Nel 1900 vi fu a Roma l'ultimo carnevale di una certa importanza; ma non fu dato il ballo a corte, perché era l’anno giubilare e la Regina Margherita non volle; forse anche perché casa Savoia aveva preso ai pontefici il palazzo del Quirinale, per tanto tempo loro residenza. A questo proposito la voce popolare vide nell'assassinio di Monza di re Umberto la maledizione che, si dice, gravi su coloro che vogliono prendersi i beni della Chiesa.
Nel 1901, il Carnevale a Roma passò quasi inosservato fin quando s’inaugurò la Fontana dell'Esedra' con le Naiadi del Rutelli, e, forse per le scandalose nudità delle procaci statue, Roma si risvegliò dal suo letargo, e si organizzò proprio in quella piazza una mascherata che fu l'ultimo “sprazzo”» di vita del Carnevale romano.