Giorgio e Baton

quasi una favola





 






di  Maria Cristina Magri


C’era una volta un bambino, nato con un amore così innato per gli equini da non pronunciare come prima parola un banalissimo “mamma” ma un sovversivo, inconsueto e bene augurante “lallo”: ma fortunatamente era nato in una casa dove il cavallo era amato da tutti, e nessuno si lamentò della sua originalità.
Generazioni di ippofili - appassionati guidatori di attacchi e orgogliosi ufficiali di cavalleria- lo avevano preceduto e guardavano con soddisfazione il rampollo che consolidava sempre di più questa inclinazione: la somarella cieca regalo di compleanno, i due muli dello zio (che provò ad attaccare in pariglia e che gli scapparono bel belli per la campagna, lasciandolo con in mano briglie e imboccature), il cavallo da tiro enorme e gentile del fattore nella casa di campagna, il primo cavallo da sella tutto suo (un ex-carrozziere) che lo portò anche a vincere qualche concorso. Tutti gli insegnavano qualcosa e intanto il bambino cresceva e diventava ragazzo, la curiosità lo portava ad ampliare i suoi limiti, a trovare sempre nuove cose da scoprire ma i cavalli erano sempre lì, vicini.
Poi il ragazzo diventò un uomo con tanto di famiglia e i cavalli una amatissima parte del suo lavoro: in ogni angolo del mondo dove era mandato come giornalista si può stare sicuri che un cavallo (da montare, guidare o anche soltanto guardare) lo trovava – così i pezzi sulla musica jazz si alternavano a quelli sull’ippica, le cronache nazionali all’ippologia e via trottando di questo passo.
A questo punto si potrebbe pensare che almeno un poco il sacro fuoco equestre si fosse smorzato in lui, che almeno in parte si fosse saziata a la sua fame di cavalli; forse anche lui pensava di essere ormai arrivato ad un punto fermo di serenità, e forse quel viaggio in Unione Sovietica nel quale avrebbe visitato gli ancora magnifici e curatissimi haras poteva vederlo finalmente valutare con cuore tranquillo fattrici e stalloni super-blasonati.
Forse pensava di essere al sicuro dalle sgroppate d’allegria di quando era puledro – pardon, di quando era ragazzo: i capelli già un po’ grigi, i figli oramai grandi, nessuna novità da immaginare ammirando quegli ultimi prodotti della ex-Grande Madre Russia, semplicemente altre aste come tante, adesso i puledri ma un momento, cos’è quel puledro?... Giorgio non sente più la confusione, le parole incomprensibili dello speaker, non c’è più tutta quella gente intorno, non ci sono più le centinaia, migliaia di cavali visti e conosciuti e desiderati, adesso dentro i suoi pensieri vede solo quel puledro, un piccolo morello brioso dalle proporzioni perfette e tutto il resto è sfocato, sullo sfondo indistinto rimane fermo e limpido solo lui: un kabardin di tre anni con gli occhi brillanti di tutto quello che un bravo cavallo si porta dentro il cuore, un puledrone allegro e sereno come tanti, tantissimi altri che ha già visto ma. si è innamorato di nuovo - come quando era ragazzo, come quando era bambino.
La mano che si alza da sola, il battitore fa cadere tre volte il martello di legno con colpi secchi e decisi: Baton è suo.
E sarà il suo ennesimo cavallo, il suo ennesimo amore: ma forse sono sempre stati lo stesso cavallo anche gli altri pur sotto nomi e mantelli diversi, quello stesso che aveva chiamato “lallo” tanto tempo prima, lo stesso che ora ha un mantello nero come una notte scura, e gli occhi gentili di chi non ha mai dovuto aver paura di qualcuno.
Il puledro cresce, tanti anni di passeggiate e di gioia e arriva ancora un altro cavallo (un argentino pezzato) per fare compagnia al kabardin, lì sulle colline intorno a Bologna.
Gli anni passano uno dopo l’altro e un brutto giorno l’argentino se ne va verso le praterie del cielo; Baton è rimasto solo, e lui non può nemmeno montarlo perché tutti (medici e figli, che noiosi) lo sconsigliano dal rischiare cadute o altri guai; tocca accontentarli, dopotutto non sarebbe nemmeno bello dare un dispiacere al suo vecchio amico russo andando a combinargli sciocchezze dopo diciassette lunghi anni di amicizia senza problemi, via.
Bisogna trovare una soluzione ma un cavallo di vent’anni non è facile da sistemare e non deve rischiare di non essere più felice: sarebbe come se anche tutti gli altri cavalli che è stato venissero messi in soffitta tra le cose vecchie ed inutili, come se tutte le carezze passate sul loro mantello liscio e caldo venissero buttate via.
Ma questa è quasi una favola, e che favola sarebbe senza bambini? così qui ne abbiamo due, due bambine per la precisione: due sorelline che da tanto tempo sperano e desiderano un cavallo tutto per loro che diventi un amico, il loro amico.
Le bambine hanno genitori poco disposti a viziarle e nicchiano - un cavallo è un’impegno, sono disposte loro a farsene carico e curarlo e governarlo e rispettarlo? Certo che sì, sono dispostissime, faranno tutto quello che servirà e lo prenderanno così com’è, anche vecchio e un po’ acciaccato. Tanto a loro basta che sia un cavallo e che faccia loro accarezzare anche tutti gli altri, quelli dei loro sogni.
Così il vecchio kabardin cambia casa e va dalle bambine bionde, in un maneggio che sembra disegnato dentro un quadro che ha per sfondo le colline dolci dell’Umbria e Orvieto tutta bella sul suo sasso di tufo che diventa rosso al tramonto.
Baton arriva di notte, sudato per il viaggio e stanco e spaesato ma le bimbe lo hanno aspettato tutto il giorno e quando finalmente viene scaricato dal van lo passeggiano, lo asciugano, lo accarezzano ed è subito loro, subito sente che è cambiata la scuderia ma le carezze sono quelle che ha sempre conosciuto, sono mani che non gli chiedono niente di diverso da quello che può dare. Quelle manine gli dicono cose che conosce già.
Adesso è passato qualche mese, Baton ha un paddock tutto per lui nell’aria pulita tra gli uliveti, il lavoro con le bimbe è leggero e in punta di piedi sta cominciando la sua ventesima primavera.
E arriva la stagione dolce con le foglioline tenere sui rami, col sole tiepido che fa sorridere e trova un cavallo nero come una notte scura e gli occhi gentili e brillanti di allegria che sgroppa nel paddock, e carica i cani della scuderia che si intrufolano nel suo territorio, e lavora serissimo in maneggio con sopra due briciole di ragazzine ed esplode ogni tanto in rallegrate scoppiettanti, pieno di una nuova voglia di essere vivo che non sentiva più da tanto tempo.
Sembra un puledro quel vecchio kabardin, sembra tutti i puledri che ha visto nascere e crescere il bambino che diceva “lallo” e che adesso ha qualche capello grigio, un bambino che c’era una volta e che c’è ancora adesso - e si chiama Giorgio.



Per il mio carissimo amico Giorgio Martinelli, con tutto il mio affetto e gratitudine.