Anno 3 - N. 8 / 2004
CONSTANTINOS KAVAFIS
poeta "storico" (1863-1933)
di G. C. M.
Invano cerchereste in Alessandria d'Egitto la Rue Lepsius, se non forse incontrando qualche anziano signore che comprenda il francese o l'italiano: il quale, scuotendo la testa, vi dirà che dopo la Rivoluzione la via si chiama Sharia Sharm el Scheikh. Qui, al numero 10, è la casa ove abitò dal 1907 fino alla morte il poeta greco-alessandrino Constantinos Kavafis.
In un'oscurità polverosa e immota sono le stanze, ora occupate da una pensione di infimo livello, come già sapevo da uno scritto di Lawrence Durrell. Il Museo-archivio di Kavafis si trova oggi nel Consolato di Grecia, ove sono stati trasportati il suo mobilio, di un improbabile gusto neo-bizantino assai malinconico, nonché le suppellettili di Rue Lepsius con i libri - in greco, francese, inglese ed italiano, le lingue che conosceva e parlava - ed anche molte edizioni di traduzioni delle sue liriche.
Anche qui un'aria vecchiotta, quasi senza tempo, di sopita indolenza come è Alessandria quando ci si discosti anche di poco dal bel lungomare, assai più vivace di traffico.
Constantinos Kavafis nacque in Alessandria nel 1863 in un'agiata famiglia di commercianti greci provenienti da Costantinopoli: la morte prematura del padre costrinse la famiglia, a causa di condizioni economiche particolarmente difficili, ad emigrare dapprima in Inghilterra e poi ad Istanbul (1876-1885). Ritornato ad Alessandria Kavafis trovò un impiego statale, aiutando il proprio bilancio con un'attività di agente di cambio. Ciò gli consentì qualche viaggio, a Parigi e ad Atene, ove ebbe contatti con l'ambiente dei critici letterari, in particolare con Gregorios Xenòpulos (1867-1951), facendosi apprezzare per le sue poesie, la cui prima raccolta fu pubblicata nel 1904.
All'attenzione internazionale Kavafis si pose in modo definitivo con alcune composizioni presenti in traduzione nel saggio dell'amico E.M. Forster Pharos and Pharillon (Richmond Surrey, L. e V. Woolf, Hogarth Press, 1923).
Gli ultimi quindici anni di vita del poeta, forse anche per la sua dichiarata omosessualità angosciante e ricca di rimpianti, furono tempestosi: e tutto ciò in un ambiente tutt'altro che puritano, quanto piuttosto ambiguo e più che permissivo.
Operato ad Atene nel 1932 per carcinoma laringeo (la malattia di Freud e di Puccini) Constantinos Kavafis si spense nella sua casa dell'Alessandria tanto amata a dispetto delle contrarietà dell'ambiente ("Perenne approdo questa città") il 29 aprile 1933. Lasciò un "Archivio" ancora in parte inesplorato.
Fu solo due anni dopo che l'Editio Princeps venne pubblicata ad Alessandria, (Ta Poi®mata K.P. Kabafh, Alexandria, Sengòpulos, 1935).
Filippo M. Pontani, delicato traduttore in italiano delle poesie di Kavafis, così ne sintetizza, con profondo pathos, la personalità, iscritta nel proprio ambiente alessandrino, caro al Poeta quanto questo si dimostrò ingrato nei suoi riguardi: "Nella cristallizzazione di un passato biografico e storico, circoscritto a esemplari momenti e parvenze, è l'alibi e la perennità di Kavafis: il suo è un canto severo e fermo della memoria ed è riscatto di un mondo che appare gravato da fatali condanne".
Dagli antichi miti, vissuti in modo evemeristico (non era del resto questo filosofo dalla nativa Sicilia venuto poi in Alessandria?) ai fatti storici dell'antica Grecia, Kavafis costruisce quell'ossatura quasi senza tempo, nella quale alberga la carne che fu per lui motivo di una gioia oscura ed ambigua, sofferta e mai liberatrice, densa nella memoria quanto straziante nel rimpianto.
La sua casa di Rue Lepsius, luogo di meditazione e di piacere, se non altro è lo specchio di un'esistenza difficile, ricca di emozioni non facili da sopportare, ma indispensabili anche al suo estro poetico.
Soprattutto la sua stanza senza finestra: vi si respira, come dice Marguerite Yourcenar quella lenta "cristallizzazione" che emerge dal suo canto.
Vengono qui in mente i versi del sicuramente autobiografico "Il dio abbandona Antonio":
Non lamentarti se la tua fortuna diminuisce,
il lavoro di una vita è fallito
ed i tuoi progetti si sono dimostrati illusioni.
Nel frattempo il dio di Alessandria, Serapis, la cui testa è stata ritrovata in mare ad Herakleion, la città greca fondata assai prima di Alessandria ed ora in fondo al Mediterraneo immota ed immutabile, evoca tristi presagi:
Ascolta le note, i raffinati strumenti del mistico coro
e dì "addio a lei, ad Alessandria che stai perdendo".
Come questo suggerimento ad Antonio, morto suicida, bene si attaglia a chi questi versi scrisse, epilogo di una vita sofferta e destinata al ricordo della memoria, il solo che per ciascuno può restare; né a lui si addice l'acqua della "fonte dell'oblio".
Nei temi più classici, spesso anch'essi vissuti con una declinazione autobiografica, e in quelli del suo vivere ed amare quotidiano aleggia lo spirito antico, anche minuto, dell'ellenismo; la catarsi degli aspetti anche meno nobili diventa qui, come dice Pontani "una verità del mutevole".
Il poeta, secondo Nelo Risi, altro traduttore di Kavafis "agisce con la sensibilità e l'inquietudine dell'artista contemporaneo": non stupisce quindi l'interesse suscitato dalla sua poesia in Ungaretti, Montale e Moravia.
E viene oggi in aiuto, di Q. Lorando e coll. , Il lessico di Kavafis (Padova, Liviana, 1970) strumento di necessaria consultazione per chi voglia avventurarsi nella lettura del testo greco dato l'uso, accanto a termini arcaici o desueti, di neologismi di invenzione.
Eventi del passato storico e della realtà presente costituiscono in Kavafis un continuum, come se tutto fosse contemporaneo o piuttosto al di là del tempo. Larve di ieri e di oggi, sentimenti di sempre che hanno trapassato quel mondo poetico - dai classici antichi a Bisanzio - del quale abbiamo, attraverso quanto ci ha tramandato la Anthologia Palatina, un vero florilegio della poetica di un mondo mai abbastanza rimpianto in senso culturale. È quello cui si richiama Jacob Burckhardt fautore di una grecità perenne.
Il passato diviene realtà odierna in Kavafis: "un'aria ferma quale è dato di vedere in certi mattini nelle isole dell'Egeo" dice poeticamente Nelo Risi.
Questa affermazione che leggo a molti anni di distanza dal mio soggiorno a Rodi - ero allora nell'età dell'innocenza ma già in quella dei sentimenti - mi ha riportato agli anni del Liceo, quando il professore di greco, allievo del celebre grecista Manara Valgimigli, mi diede da tradurre dalla edizione tneuberiana (senza note!) la Lettera a Menecèo di Epicuro. E come sovrappiù, ma per questo mi aiutò lui stesso (si trattava di neo-greco oltretutto con neologismi ed arcaismi), alcune poesie di Constantinos Kavafis, poeta del quale allora ignoravo l'esistenza. Debbo ritenere che si trattasse (eravamo nel 1940-41) dell'edizione alessandrina Ta Poinumata del 1935.
Le brevi traduzioni, più in prosa che in poesia ovviamente, sono rimaste tra le mie carte per oltre sessant'anni ed ora mi fa piacere presentarle, solo per testimoniare come sono venuto a conoscenza della poesia di Kavafis, in virtù del mio mentore di allora, uomo di incredibile cultura, che poi sostituì a Padova il Maestro nella Cattedra di Letteratura greca.
Gli eventi della vita mi hanno condotto all'arte medica, ma sempre ho avuto la nostalgia di quel mondo greco al quale l'umanità è debitrice di molto di quello che è. "Noi vediamo con gli occhi dei Greci e parliamo con le loro espressioni" scriveva Burckhardt indicando così il dovere preciso dell'uomo di cultura nel realizzare "un'immagine della continuità dello sviluppo universale".
Delle poesie di Kavafis ardisco qui di seguito presentarne alcune con il testo a fronte che, non disponendo di quello originale di Alessandria (1935) è ora quello, filologicamente corretto, di Nelo Risi e Margherita Dalmàti (Torino, Einaudi, 1992), qui in trascrizione monofonica.
Fino al momento della nostra traduzione solo 13 poesie di Kavafis erano state volte in italiano, ad opera di quattro poeti (Cattaneo 1919, Sarandàris 1932, Fiorito 1934, Pontani 1937 e 1939) e pubblicate su Riviste a noi non accessibili all'epoca.
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VOCI
Ideali amate voci
di coloro che son morti
e di quelli che a noi perduti
è come se morti fossero.
Nei sogni talvolta parlano a noi
e la mente nostra che pensa,
qualche volta le percepisce.
E con il suono ritornano,
le voci della prima poesia della vita,
al pari di notturna musica
che perde vita mentre s'allontana.
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PREGHIERA
I flutti del mare hanno rapito un marinaio.
Ignara la madre un lungo cero accende
dinnanzi alla Panaghia perché di nuovo
tornino i bei giorni:
al vento tende l'orecchio.
Supplice prega e ancora prega:
triste ed intenta l'ascolta l'immagine,
sa, lei, che il figlio più non farà ritorno.
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FINESTRE
In queste oscure stanze
ove difficili giorni vivo,
qua e là vagando, alla ricerca di una finestra.
Se una finestra s'apre quale sollievo.
Non trovo finestre, di trovarne sono incapace.
Ma forse non trovarne è meglio:
egual tormento forse sarebbe la luce.
Chi può sapere quali cose nuove essa rivelerebbe.
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ALLOR QUANDO RIAPPAIONO
Tenta, o poeta, di conservarle
anche se rare son quelle che non svaniscono,
le tue erotiche visioni.
Nei tuoi versi, velate in parte,
cerca di farle tue, o poeta,
quando affiorano alla tua mente,
di notte o nel fulgore del meriggio.
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MONOTONIA
Giorno monotono segue ad eguale
monotono giorno. Stesse identiche
cose monotone ripetiamo in modo monotono,
identici momenti ci sovrastano e se ne vanno.
Passa il mese ed un altro ancora ne porta.
Facile è prevedere le cose che avverranno.
Sono le uggiose cose di ieri.
Alla fine il domani non cela l'aspettativa di un altro giorno.
La poesia "Il dio abbandona Antonio", assai godibile nella traduzione poetica di Nelo Risi (1968) oggi qui riproposta, che ritengo molto autobiografica, è fortemente premonitrice circa il mistero della vita e della morte: quale breve spazio ti diasthma mikrñ tra i due misteri. Solo la frñuhsiw, la saggezza, quella di Epicuro e poi di Seneca, evita all'uomo la trenodìa di un pianto funebre.
IL DIO ABBANDONA ANTONIO
Soprattutto non illuderti, non dire che è stato un sogno
o che il tuo udito s'è ingannato:
non accettare queste inutili speranze.
Come colui che per tempo, da uomo forte che a te s'addice di essere,
eguale ad una città come è questa e della quale avesti la signoria,
con fermo passo va alla finestra,
con animo commosso ascolta - non pregare -
e senza i lamenti dei vili
un estremo piacere concedi a te stesso, ascolta del mitico Tiaso
la dolce musica e dì addio alla tua Alessandria
che ora tu perdi.
Il mistero della vita e della morte in Kavafis costituiscono il Leitmotiv della sua poesia e della sua concezione nonché il pathos della esistenza.
L'amore per una città che mai si vorrebbe abbandonare e nella quale si desidererebbe morire (basta averla vista una sola volta!) per il poeta è "croce e delizia" degli affetti - non solo spirituali - che egli vive nel fuggevole presente ma, soprattutto nella dolente memoria: di questi sentimenti le poesie Voci e Quando riappaiono sono, mi sembra, emblematiche.
Kavafis, autodefinitosi poeta storico, è in realtà autonomo, uno splendido isolato, non ha mai fatto parte di alcuna corrente letteraria del suo tempo. Di lui è stato detto che attinse la solitudine del genio senza altri riferimenti.
"Nutrito come era di infinite linfe culturali, e per la fedeltà alle "voci" segrete… anche al di là delle catarsi sempre attinta dall'arte, è qui un'esemplare emozionante moralità" dirà di lui e della sua poesia Filippo M. Pontani.
Le sue immagini sopravvivono nella memoria, quelle storiche come quelle personali: “conservale tu, memoria mia, come erano”.
Una vita, quella di Kavafis, sofferta ma piena, in accordo con l'affermazione del Brihadaranyaka Upanishad (I, 4, 15): "La vita non è servita a nulla a colui che lascia questo mondo senza aver realizzato il proprio mondo interiore".
Nessuna presunzione luciferina nel presentare la nostra modesta traduzione che minimamente può accostarsi a quelle mirabili di F.M. Pontani, di Nelo Risi e di Nicola Crocetti Valenti traduttori e poeti, per tacere degli altri già ricordati. Ci ha spinto solo il piccolo innocente piacere di aver incontrato la poesia di Kavafis oltre sessant'anni fa quando nessuno, almeno in Italia, praticamente conosceva il suo estro poetico e di aver avuto la fortuna di essere a fianco di un estimatore del neo-greco e delle sue opere letterarie.
Non solo nitore del cielo mediterraneo, ma anche tempeste di sabbia del deserto africano: fu vita vera quella di Constantinos Kavafis che, come dice il poema indiano, realizzò il suo mondo interiore.
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