Anno 3 - N. 8 / 2004


LE OPERE, LA VITA

STORIA E CULTURA NEL PENSIERO DI VOLTAIRE

Elogio della borsa: “andate alla borsa di Londra, un posto più rispettabile di molte alte corti, e vi troverete rappresentanti di tutte le nazioni uniti per promuovere il benessere degli uomini; là l’ebreo, il musulmano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione; le uniche persone che considerano come infedeli sono quelle che fanno bancarotta; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta la promessa del quacchero [...]”

di Franco Livorsi



Voltaire (1776)

J.A. HOUDUN (Versailles, 1741 - Parigi, 1828) Montpellier, Musée Fabre


François Marie Arouet le jeune, che scelse come nome d’arte quello di Voltaire, nato a Parigi nel 1694 e morto lì nel 1778, non è stato né il più grande filosofo né il più grande pensatore politico dell’Illuminismo, ossia della corrente culturale fondamentale del XVIII secolo, caratterizzata dall’impegno assiduo a portare i lumi della ragione, soprattutto sperimentale, in ogni ambito dell’esistenza, lottando contro il cosiddetto irrazionale, identificato con la tradizione, pretesa oscurantista, del Medioevo, ritenuta viva in quello che sarà poi detto ancien régime, fondato sull’alleanza tra il trono e l’altare. Il più grande filosofo dell’epoca dell’Illuminismo è stato infatti Immanuel Kant, l’autore della Critica della ragion pura (1781 e poi 1787) e della Critica della ragion pratica (1787), mentre i maggiori pensatori politici dell’epoca illuministica sono stati Montesquieu e Rousseau, autori rispettivamente dello Spirito delle leggi (1748) e del Contratto sociale (1762).
Ma Voltaire è stato ugualmente la figura più importante, più rappresentativa, dell’Illumini-smo europeo, in quanto autentico uomo di cultura, autore acuto ed efficace in sommo grado, scrittore versatile, caustico ed ironico come nessun altro, che nelle sue opere(1) spaziava dal teatro tragico in versi ai poemi e dalla saggistica filosofica e storica al romanzo filosofico. Egli è stato il pensatore più impegnato in tutte le battaglie caratteristiche dell’Illuminismo. Ha insomma avuto, nell’Illuminismo europeo, un ruolo simile a quello che nel Rinascimento aveva avuto Erasmo da Rotterdam.
Questa sua rappresentatività di tutto l’Illuminismo si vede già nella sua vita(2) tumultuosa, cui qui possiamo solo accennare, e ancor più nella sua filosofia della storia, nelle sue idee politiche e nel romanzo filosofico.
La classe emergente epocale, nel 1700, era già la borghesia, delle alte professioni come delle imprese, benché la nobiltà, supportata dal clero cattolico, avesse ancora l’egemonia politica in Francia e in quasi tutti i paesi europei.
E Voltaire di questa borghesia emergente fece organicamente parte. Era figlio di un prestigioso notaio parigino. Fu educato dapprima, come allora usava, in un grande collegio religioso, in cui fu allievo brillantissimo e molto apprezzato di quei gesuiti che poi sarebbero diventati la bestia nera nelle sue memorabili battaglie culturali. Il padre avrebbe voluto farne un giurista, ma egli intraprese svogliatamente tali studi e non li finì mai, preferendo seguire una sua precoce vocazione da poeta, letterato e più oltre saggista, che gli diede, ancor giovane, grande fama come autore di tragedie in versi, per noi in gran parte prive di autentica forza poetica e drammatica, ma all’epoca spesso famose. Compose pure diversi poemi in versi, come La Lega o Enrico il Grande (1728), intitolato poi Henriade, di esaltazione di Enrico IV, il sovrano già capo dei protestanti calvinisti francesi, gli ugonotti, che si era alla fine convertito al cattolicesimo per prendere il trono, pronunciando il 23 luglio 1593 la famosa frase “Parigi val bene una messa” e che poi aveva inaugurato un’apprezzabile e socialmente fruttuosa politica di tolleranza religiosa.
Per le sue idee controcorrente Voltaire si trovò a scontrarsi subito con la nobiltà tradizionalista e clericale, finendo due volte, per circa un anno tra il 1717 e il 1718, e per un mese nel 1726, alla Bastiglia. Fu liberato, la seconda volta, purché emigrasse. Andò così in Inghilterra, per tre intensi anni, scoprendo con piacevole sorpresa tutto un mondo - inaugurato dalla “gloriosa rivoluzione” parlamentare inglese del 1689 - in cui vigeva la libertà politica e soprattutto d’opinione, in cui la capacità imprenditoriale era più apprezzata della nobiltà del sangue, in cui c’era tolleranza per ogni credo religioso e che era all’avanguardia nel campo della scienza e della tecnica. Da tale esperienza ricavò la grande opera Lettere filosofiche, del 1733, comparsa in inglese e tradotta in francese nel 1734 con il titolo Lettere inglesi, considerata come il “manifesto dell’Illuminismo francese”. L’Inghilterra costituzionale e tollerante, ma anche caratterizzata dall’empirismo di Locke e dalla rivoluzione scientifica di Newton(3), diventava così - con oltre dieci anni di anticipo su Montesquieu - una sorta di modello o esempio per l’Illuminismo europeo. Non appena tradotta nella lingua madre dell’autore, l’opera fu condannata al rogo dal parlamento di Parigi, e l’autore, che era rientrato a Parigi ed era ormai molto famoso, fu costretto a ritirarsi in Lorena, a Cirey, ospite del barone di Chatelet e ben presto amante per la vita - senza obiezioni del marito come allora accadeva spesso nell’alta nobiltà - della moglie di costui, Madame Émilie de Chatelet, la prima donna da lui veramente amata per lunghi anni dopo tante facili relazioni con attrici e signore compiacenti.
Nei lunghi anni di soggiorno a Cirey, Voltaire, che aveva saputo trasformare il piccolo capitale ereditato dal padre in una grande ricchezza che gli consentiva di vivere sempre nel lusso e nella raffinatezza come molto amava, compose opere importanti. Insieme alla sua Émilie, appassionata cultrice di studi matematici e scientifici, approfondì le teorie di Newton, da lui già conosciute e discusse in Inghilterra con il principale collaboratore del grande scienziato e già apprezzate in Lettere inglesi. Così nel 1737 pubblicò Elementi della filosofia di Newton portati a conoscenza di tutti, determinante per l’accoglimento definitivo della teoria del grande scienziato inglese da parte della cultura europea(4). Ma compose pure grandi opere storiche e sulla storia, come Il secolo di Luigi XIV (1753) e Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni (1756).
Fu pure gratificato dall’amicizia e intensa corrispondenza dei maggiori sovrani dell’assolutismo europeo, con particolare riferimento a Federico II di Prussia, il machiavellico sovrano autore dell’Antimachiavelli (1739), pubblicato da Voltaire a Londra nel 1740, da lui stesso prefato, e definito “il catechismo dei re”, improntato alla negazione del principio machiavellico della subordinazione della morale alla politica(5).
Voltaire fu per ciò in grado di tornare in modo trionfale, con la sua Émilie, morta però poco dopo, a Parigi, vezzeggiato a corte, apprezzato dalla favorita del sovrano (Madame de Pompadour) e gratificato da una ricca pensione reale. Ma dopo la morte dell’amata Émilie, anche per la crescente ostilità degli ambienti nobiliari tradizionalisti, istigati dai gesuiti, emigrò in Prussia, alla corte del regale amico Federico II, che lo gratificò di una ricca pensione. Lì scrisse appunto Il secolo di Luigi XIV (1756) e parte del suo importante Dizionario filosofico (1764). Ma anche a Berlino finì per urtarsi con alti cortigiani e con lo stesso sovrano, con cui pure rimase in corrispondenza sino alla morte. Riparò quindi in Svizzera, presso Losanna, vivendo nella sua grande e ricca tenuta “Les delices” e pubblicandovi opere importanti come il richiamato Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni. Ma anche in Svizzera l’atmosfera, in tal caso per l’ostilità dei pastori calvinisti, finì per farsi pesante per lui. Allora, nel 1760, si ritirò, per diciotto anni, nella sua tenuta di Farney, trasformandola in un paese agiato, in cui esercitava un potere quasi assoluto e viveva in modo quasi regale. Di lì condusse le sue grandi campagne contro l’intolleranza clericale, culminate nel Trattato sulla tolleranza (1763). Infine, ormai molto vecchio, tornò, da trionfatore, a Parigi, dove morì poco tempo dopo.
Vediamo, a questo punto, quale sia stata la filosofia della vita e soprattutto della storia di Voltaire. Questa, già ben chiara nelle Lettere filosofiche o Lettere inglesi e in Elementi della filosofia di Newton portati a conoscenza di tutti, si vede bene alla voce Storia da lui pubblicata sull’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e della tecnica (1731-1765) curata da D’Alembert e soprattutto da Diderot (opera cui molto contribuì)(6): voce poi trasformata nel saggio del 1756 Il pirronismo nella storia. Il pirronismo, com’è noto, era stato l’antico scetticismo greco, qui inteso come atteggiamento volto a rifiutare qualsiasi forma di credenza indimostrata o indimostrabile, e dunque qualsiasi forma di dogmatismo, nel lavoro storico, in filosofia e nella sfera religiosa. La storia ci dimostrerebbe che nelle epoche in cui ha dominato l’irrazionale - la fede indimostrabile, la religione specie monoteistica e cosiddetta rivelata - sono prevalse la barbarie, l’indigenza e la decadenza culturale, mentre nelle rare fasi in cui sono prevalsi i valori di tolleranza e di libertà del pensiero, i risultati economici, politici e artistici sono stati straordinari.
Voltaire approfondì tale tesi nel 1764, in Filosofia della storia, saggio poi apposto come introduzione all’edizione definitiva del suo Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni. Tale opera, nella sua lotta implacabile contro il dogmatismo, svolge una polemica accanita soprattutto con il Vecchio Testamento e con gli ebrei. Emergono lì veri e propri accenti antiebraici, anche se sarebbe sbagliato vedere Voltaire come un antisemita perché egli difende la libertà d’opinione ed economica di tutti, ebrei compresi.
La storia sacra - sosteneva Voltaire - non è affatto confermata da quella profana. I miti biblici sono stati ricavati da racconti anteriori egizi, babilonesi ed assiri. Gli ebrei, sino a Saul, sarebbero stati “un’orda di arabi del deserto”. L’intolleranza e lo stragismo verso le etnie pagane e politeiste, invece tolleranti, avrebbero fatto del popolo che si pretendeva “eletto da Dio” un “popolo abominevole”.
L’ostilità nei confronti del monoteismo, dogmatico e fanatico, fa da antefatto a quella nei confronti del cristianesimo e soprattutto del cattolicesimo (contro il quale, nel Dizionario filosofico, aveva lanciato il suo ben noto écrasez l’infâme, “schiacciate l’infame”). Anticipando ed influenzando la grande opera Storia della decadenza e caduta dell’impero romano dell’inglese Edward Gibbon, del 1776-1788, Voltaire riteneva che il cristianesimo, con le sue superstizioni per lui assurde e con il suo intollerante fanatismo, derivati dall’ebraismo, non solo avesse minato il paganesimo, ma determinato la fine dello stesso impero romano, incapace - sulla base di quello spirito - di resistere ai barbari, del resto ben presto riconosciutisi - non a caso - in quelle credenze irrazionali(7).
Tuttavia sarebbe erroneo vedere Voltaire come un nemico non solo dell’ebraismo e del cristianesimo - cui, com’è ben chiaro in tutti i suoi saggi e soprattutto nel Trattato sulla tolleranza, attribuiva il massimo grado di intolleranza(8) - ma dello spirito religioso in quanto tale. Egli fu piuttosto il massimo rappresentante di una tendenza, cara soprattutto alla Massoneria, nata a Londra nel 1717 e assai diffusa in epoca illuministica, che si chiama “deismo”. Ammetteva sempre, al pari di Newton, l’esistenza di un Dio creatore e ordinatore dell’universo. La fede in un Dio creatore e garante d’immortalità spirituale, svincolata però da ogni religione storica e soprattutto monoteistica e rivelata, gli pareva fondamentale vuoi per spiegare l’ordine dell’universo e vuoi per fondare la perenne morale razionale dell’umanità. Del resto è ben nota la sua sentenza: “Se Dio non ci fosse, bisognerebbe inventarlo”9. Ma le epoche più civili restavano per lui quelle in cui la religione aveva condizionato solo marginalmente la politica e in cui la libertà dei diversi culti era stata massima.
Fuor di polemica si può dire che con Voltaire, e naturalmente anche con altri pensatori illuministi, nascesse una sorta di storiografia giudicante, tendente a commisurare i contesti storici ad un modello antidogmatico e tollerante costantemente opposto al fanatismo. Più ci si avvicinava al modello antidogmatico, tollerante verso le religioni e credenze altrui, più si era buoni politici e in epoche felici; più si era lontani da esso, più si era retrogradi. Voltaire non solo teorizzava tale modello di storia, ma lo verificava come storico. Ciò si vede bene nella sua grande opera Il secolo di Luigi XIV, del 1756. Il discrimine del buon governo per Voltaire non era però il carattere assolutista o meno del potere, ma il suo essere aperto alle scienze ed arti, il suo essere immune dal condizionamento dei preti e della religione sulla politica ed il suo essere garante della superiorità della legge sull’arbitrio. Perciò apprezzava in sommo grado, diversamente da Montesquieu, Luigi XIV, il sovrano che pure aveva detto: “Lo Stato sono io”, e agito di conseguenza. Egli tracciava un grande affresco narrativo e di storia dei costumi e della cultura dell’epoca di Luigi XIV, illustrandone il grande splendore in ogni campo. E nelle pieghe del libro tornava ad approfondire la sua filosofia della storia, basata sull’individuazione di talune epoche di splendida civiltà, come quella di Luigi XIV, proposte come esempio da emulare, diversamente da quelle ritenute di barbarie, dominate dalla superstizione, dall’intolleranza e dal fanatismo. Per lui le epoche esemplari erano state quattro in tutto: l’Atene antica al suo massimo splendore, da Pericle a Alcibiade; Roma antica tra repubblica ed impero, da Cesare ad Augusto; il Rinascimento italiano e appunto, infine, l’età di Luigi XIV, il cui secolo veniva detto “il più illuminato della storia”, in cui “la ragione umana si è in generale fatta più perfetta”.
Va pure notato che Voltaire, pur portato a definire - come tutti gli illuministi - modelli paradigmatici che spaziavano nei secoli, dava pure un suo contributo alla formazione del mito moderno del progresso(10). Ciò, tra l’altro, nello stesso Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni, lo disponeva a condannare non solo il Medioevo come barbarie, attizzata e peggiorata dal clericalismo trionfante, ma anche a vedere negativamente i “selvaggi”, connotati a suo dire da superstizioni e tabù di tipo assurdo, che sin dall’inizio la civiltà aveva avuto il merito di superare. In ciò il suo approccio era molto diverso da quello evidenziato dal mito illuministico del “buon selvaggio”, attivato da memorie sui pellirossa d’America, contrapposti al corrotto spirito europeo. Quest’approccio si trovava persino negli aforismi amari e pessimistici di Chamfort, e soprattutto nei grandi primi discorsi, del 1750 e del 1754, di Rousseau, diventato con essi famoso: saggi in cui il ginevrino aveva sostenuto la tesi paradossale della degenerazione morale progressiva connessa al cosiddetto progresso delle scienze e delle arti, e aveva visto nella proprietà comune il connotato positivo dello stato di natura, la cui fine aveva portato l’autoritarismo statale ed ogni vizio individuale e sociale. Si sa che quando Voltaire ricevette il testo di Rousseau Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra li uomini (1754) - in cui era contenuta la famosa apostrofe contro il primo uomo che aveva posto i paletti tra campo e campo dicendo “Questo è mio” considerato come l’iniziatore di tutti i mali successivi - inviò all’autore una lettera sarcastica, che iniziava la sua costante polemica con lui, in cui diceva tra l’altro: Non si è mai impiegato tanto spirito a volerci rendere bestie. Quando si legge il vostro lavoro, prende la voglia di camminare a quattro zampe(11).
L’approccio di Voltaire, diversamente da quello di Rousseau, era sempre modernizzatore e riformista. Pur con totale ammirazione per il sistema politico inglese, per il proprio paese e per l’Europa si dimostrava molto favorevole all’assolutismo, però riformato, “illuminato”. Lo si nota nel suo Dizionario filosofico (1764)(12) e in Quesiti sull’Enciclopedia (1776 e sgg.) e con ogni evidenza già nel testo La voce del saggio e del popolo (1750), in cui diceva che “un governo non può essere buono se non vi è un unico potere”. Per lui l’assolutismo era sinonimo di monarchia, che poteva essere parlamentare come nell’amata Inghilterra o legittima come in Francia, ma che anche nella forma della massima concentrazione del potere non era, diversamente da quello che aveva opinato Montesquieu nel fondamentale Spirito delle leggi (1748), “dispotismo”. Polemizzava anzi espressamente con il grande Montesquieu, in A.B.C. Dialogo curioso tradotto dall’inglese da M. Huet (1768), in cui diceva assurdo vedere nel dispotismo una specifica forma di governo (in Montesquieu accanto a repubblica e monarchia), essendo esso, piuttosto, “l’abuso della monarchia: la corruzione di un bel governo”, tematica da lui approfondita nel Commentario sullo “Spirito delle leggi”, del 1777(13). Era favorevole ad un mutamento del sistema assolutista tale da affermare in esso, però, le tendenze all’autonomia del solo potere giudiziario dall’esecutivo o governo regio (ossia il primato della legge sull’arbitrio, dal momento che - affermava nei Pensieri sul governo (1752-1756) - “la libertà consiste nel non dipendere che dalle leggi”(14). Fu perciò favorevolissimo all’opera - soprattutto contro la tortura nei procedimenti giudiziari, che era stata per millenni una procedura giudiziaria basata sul principio di potenziale colpevolezza invece che innocenza dell’accusato - del grande giurista illuminista milanese Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), testo che commentò e di cui contribuì decisamente a determinare il grande successo internazionale(15). Voltaire era inoltre fautore di quella che oggi è detta totale laicità dello Stato, che non avrebbe dovuto farsi condizionare in alcun modo né dalla religione né dal clero. Apologizzava lo spirito produttivistico invece che parassitario e veteronobiliare, o peggio ancora clericale. Era, soprattutto, fautore della libertà d’opinione in materia religiosa e più in generale per ogni autore. Riteneva fondamentale, per il buon governo, la diffusione delle scienze e delle arti, la cui protezione e vitalità connotavano il carattere buono o ottimo di un regime politico. Grande uomo d’affari egli stesso, persuaso sin dall’inizio dal testo di Mandeville La favola delle api, ovvero vizi privati pubblici benefici (1703, 1726 e poi 1729) che lo spirito per sé egoistico dell’arricchimento e del lusso potesse andare a vantaggio della società(16), già in Lettere filosofiche o Lettere sugli inglesi, aveva fatto un ben significativo elogio della borsa, scrivendo: Andate alla borsa di Londra, un posto più rispettabile di molte alte corti,e vi troverete rappresentanti di tutte le nazioni uniti per promuovere il benessere degli uomini; là l’Ebreo, il Musulmano e il Cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione; le uniche persone che considerano come infedeli sono quelle che fanno bancarotta; là il Presbiteriano si fida dell’Anabattista e l’Anglicano accetta la promessa del Quacchero. Quando lasciano queste pacifiche e libere assemblee, alcuni vanno alla sinagoga, altri a bere; l’uno va a farsi battezzare in una larga vasca nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’altro fa tagliare a suo figlio il prepuzio, mormorando sul capo del bambino qualche parola in ebraico che non capisce; altri ancora si recano alla loro Chiesa con il cappello in testa in attesa della ispirazione divina, e tutti sono contenti.
Se ci fosse solo una religione in Inghilterra ci sarebbe il rischio del dispotismo, se ce ne fossero due la gente si taglierebbe reciprocamente la gola; ma in effetti ce ne sono trenta, e tutti vivono felici ed in pace(17).
Va notato che Voltaire fu autore di numerosi romanzi filosofici, un genere letterario tipicamente illuministico, in cui la narrazione - com’è oggi caldamente respinto da ogni editore e critico letterario - è funzionale all’affermazione di determinate tesi e per ciò utilizzata come strumento per diffondere idee. Molti tra questi romanzi a tesi sono datati e ormai interessanti solo come documenti storici. Ma tra questi c’è un capolavoro assoluto, che è infatti ancora oggi letto e riletto con indicibile gaudio da chiunque lo scopra: è Candido o L’ottimismo (1759). La tesi dell’opera è datata e anche ingiusta. Voltaire, che pure in sede filosofica aveva subito la suggestione di quel genere di pensiero per qualche tempo, se la prendeva con le idee di quello che è stato uno dei più grandi filosofi della storia, Leibniz, il quale aveva però anche sostenuto che Dio aveva creato “il migliore dei mondi possibili”, in relazione all’equilibrio generale del cosmo e al principio del libero arbitrio umano. Questa visione provvidenzialistica e metafisica della storia nel Candide era respinta da Voltaire, per il quale la realtà era al di là del bene e del male. Egli, tendenzialmente scettico per principio e sempre ostile ad ogni metafisica, inclinava più al saggio pessimismo che non all’ottimismo. Lo si era visto anche in un suo Poema sul disastro di Lisbona (1756), su un tremendo terremoto del tempo, colto da lui come occasione per negare la provvidenza divina(18). L’ammetterla avrebbe rivalutato il cristianesimo, detestato. E gli sarebbe parso un’irrisione della sofferenza umana. Ma il motivo polemico di tipo filosofico per fortuna è in Candido solo un’occasione.
Il giovane Candido, tedesco della Westfalia, allievo di Pangloss (rappresentazione caricaturale del filosofo leibniziano), era stato espulso dal suo bel castello perché colto ad amoreggiare con la giovane baronessina Cunegonda. Di lì erano iniziate molte avventure e disavventure in ogni parte del mondo, tra disgrazie e situazioni rocambolesche o boccaccesche di ogni genere, coinvolgenti tutti i personaggi richiamati ed altri ancora, come la vecchia nutrice di Cunegonda o lo scettico e saggio Martino, in cui Voltaire raffigurava se stesso.
Erano stati anche in Paraguay, vedendo all’opera i gesuiti, che si comportavano in modo tale che i selvaggi avevano modificato la morale naturale del non uccidere nessuno con l’aggiunta: “a meno che non si tratti di un gesuita”. Le disavventure avevano modificato la visione ottimistica di Candido, ma non quella di Pangloss. Ciò alla fine stupiva. Però ad un certo punto “Pangloss confessava di aver sempre atrocemente sofferto, ma, avendo una volta sostenuto che tutto andava a meraviglia, lo sosteneva sempre, e non lo credeva affatto.” Qui Voltaire canzonava come inautentico il tener fede alle proprie idee contro l’esperienza. Più oltre, per risolvere la vexata quaestio del male nel mondo, pur creato da Dio, gli amici, che vivevano curando una piccola proprietà in Turchia, si erano rivolti a un saggio musulmano.
Abitava nei dintorni un dervis ricchissimo - il riferimento qui va di nuovo a Voltaire stesso - che aveva fama di essere il miglior filosofo della Turchia; andarono a consultarlo. Pangloss prese la parola e gli disse: “Maestro, veniamo a pregarvi di dirci perché è stato creato un animale così strano come l’uomo. - Di che cosa ti impicci? disse il dervis, è forse affar tuo? - Ma, reverendo padre, disse Candido, c’è un’orribile quantità di male sulla terra. - Che importa, disse il dervis, se ci sia male o bene? Quando Sua Altezza manda una nave in Egitto, si preoccupa forse se i topi stiano comodi o meno sulla nave? - Dunque, che cosa bisogna fare? disse Pangloss. - Tacere, disse il dervis. - Mi lusingo, disse Pangloss, di poter discutere un po’ con voi sugli effetti e le cause, sul migliore dei mondi possibili, sull’origine del male, sulla natura dell’anima e sull’armonia prestabilita. - Il dervis a queste parole chiuse loro la porta in faccia.

Un altro saggio turco, un contadino sereno che Candido e i suoi amici avevano supposto ricco, replica loro così:

- Ho soltanto venti jugeri, li coltivo con i miei figli; il lavoro allontana da noi tre grandi mali: la noia, il vizio e il bisogno.

E qui è evidentissima la morale borghese del lavoro che rende liberi, confermata dal saggio Martino con la sentenza, quasi finale:

“Lavoriamo senza discutere, è il solo mezzo per rendere la vita sopportabile.”

conclusione:

Tutto il piccolo gruppo approvò questo lodevole proposito, ognuno si mise a esercitare i propri talenti. La piccola terra rese molto. Cunegonda a dire il vero era (diventata) assai brutta, ma divenne un’eccellente pasticciera. Pasquetta ricamò, la vecchia si occupò della biancheria. Anche fra’ Giroffé si rese utile, divenne un ottimo falegname e perfino onesto; e Pangloss diceva talvolta a Candido: “Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel migliore dei mondi possibili; infatti se voi non foste stato cacciato da un bel castello a calci nel sedere per amore della signorina Cunegonda, se l’Inquisizione non vi avesse preso, se non aveste percorso l’America a piedi, se non aveste infilzato il barone, se non aveste perso tutti i vostri montoni del buon paese dell’Eldorado, ora non sareste qui a mangiare cedrati canditi e pistacchi. - È giusto, rispose Candido, ma bisogna coltivare il nostro giardino”(19).

Con quest’elogio dell’operosità e del senso del limite umano, contro ogni astrattezza e dogmatismo, si conclude idealmente la parabola di Voltaire. A questo punto forse si può capire bene perché il terzo stato trionfante, nell’anno in cui varava una costituzione ancora liberale e monarchica, il 1791, avesse voluto seppellire nel Pantheon le sue ossa.
E si comprende anche la morale che dalla sua complessa e lunga parabola intellettuale, interrogandosi sull’attualità o meno della sua opera, ha voluto trarre Ayer al termine di un denso studio su di lui: Se guardiamo un po’ più lontano e osserviamo fenomeni come la recrudescenza del fondamentalismo negli Stati Uniti, gli orrori generati dal fanatismo religioso nel Medio Oriente, i rischi terribili presenti a tutto il mondo di un’ostinata intolleranza politica, dobbiamo certamente concludere che possiamo ancora imparare dall’esempio di lucidità, acutezza, onestà intellettuale e coraggio morale di Voltaire(20).

Mi pare che su ciò si possa ben concordare.