Anno 3 - N. 8 / 2004
SACRALITÀ, GUERRE E QUOTIDIANITÀ IN CARLO MAGNO
“E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse”
(Dante, Par. VI, 94-96)
I re erano diventati secondo l’espressione biblica “cristi del signore”, protetti dal precetto divino, “nolite tangere christum meum”, non toccare il mio cristo, il mio unto
di Giuliano Tessera
A sinistra il fondatore laico - a destra il fondatore ecclesiastico ( Chiesa di Malles)
“Nell’anno 800, a Roma, nella basilica del Laterano, alla fine della messa di Natale, Leone III, accostandosi al re dei Franchi fra le acclamazioni del popolo, gli pose la corona sul capo e, dopo averlo salutato col nome di imperatore, si prosternò davanti a lui e lo “adorò”, secondo il cerimoniale bizantino. Il passo decisivo era compiuto. L’impero romano era ricostituito, e lo era per mano del successore di Pietro. Carlo ne provò un certo fastidio”(1). Dopo di che quando decise di nominare il figlio Ludovico, re d’Aquitania, unico sopravvissuto dei figli di Ildegarda, “collega di tutto il regno ed erede del titolo imperiale”, cambiò radicalmente il cerimoniale. La corona, infatti, fu posta sull’altare e Luigi se la pose da solo sul capo, senza alcun intervento del papa.
Carlo ha nitidamente presente questa sua decisione ora che è giunto ormai all’”extremo vitae tempore”, alla fine della sua vita come, non senza commozione ci narra il fedele Eginardo nella “Vita Karoli “, la prima e “meritatamente più illustre biografia del primo imperatore dell’età moderna” come testimoniano le note alla traduzione italiana (2). Dopo aver poi rimandato il figlio in Aquitania Carlo, “come era solito, sebbene gravato dalla vecchiaia”, parte per la caccia, nelle foreste circostanti la reggia di Aquisgrana, con poca scorta, cercando spesso la solitudine per poter riandare con la mente ai momenti più significativi della sua straordinaria vicenda di uomo, re, imperatore.
Le vicende che portano Carlo all’impero vengono riviste in lucida sequenza: la fine del potere puramente laico dei Merovingi caratterizzata dall’indifferenza con cui venne accolta la scomparsa di Childerico (ultimo discendente di Clodoveo) in convento, l’ascesa al trono di suo padre, Pipino, con l’appoggio del papa che subito dopo gli presentò il conto. E il papa, Stefano II, poi per la prima volta nella storia della Chiesa, si presentò a nord delle Alpi per chiedere (esigere?) aiuto, contro i Longobardi, a quella dinastia che aveva appena consacrato. Richiesta accolta e da quel momento l’impero carolingio assume una connotazione profondamente religiosa.
Così Pipino sarà “re per grazia di Dio” e Carlo erediterà proprio questa concezione per cui governare significherà far regnare su questa terra i precetti divini.
Però “unti, come re, i Merovingi non lo erano mai stati….ma quando Pipino, saltando il fosso che il padre Carlo Martello non aveva osato varcare, decise di chiudere in convento gli ultimi discendenti di Clodoveo e di assumere per sé, con il potere, la dignità regia, sentì il bisogno di aureolare la sua usurpazione con una specie di prestigio religioso… giustificato dalla Bibbia, pienamente cristiano”. Così Pipino, come i capi ebraici, ricevette dalla mano dei sacerdoti, l’unzione appunto.
Oltre a ciò Carlo ricorda bene ciò che avvenne quella fatidica notte di natale a Roma quando sul suo capo Leone III, proclamandolo imperatore, pose una “corona”. Era questa indubbiamente un cerchio d’oro simile a quello che, sulla fronte dei sovrani bizantini, sostituiva da molti secoli il diadema, nastro di stoffa ornato di perle e di pietre preziose…corona e diadema che gli imperatori avevano mutuato dalle monarchie orientali, probabilmente dalla monarchia persiana. Da tempo però la corona aveva perso il carattere originariamente sacro. Se Carlomagno sarà unto come re, non lo sarà come imperatore. Toccherà a suo figlio, Ludovico il Pio, ricevere dalle mani del papa Stefano IV a Reims, nell’816, come imperatore, il segno dell’olio benedetto insieme con la corona. E ciò Carlomagno, ovviamente, non poteva immaginarselo.
È la nascita della consacrazione: i re erano diventati, secondo l’espressione biblica “Cristi del Signore”, protetti dal precetto divino, “Nolite tangere Christum meum”, non toccare il mio Cristo, il mio Unto.
Le implicazioni che tutto ciò poteva comportare non sono del tutto chiare a Carlomagno che avverte pertanto, anche nel momento in cui rivive la propria consacrazione, un senso di indefinibile disagio. Certamente non sarebbe stato contento di apprendere che a Bisanzio si deridesse il rito dell’olio santo, poco familiare alle liturgie orientali e si raccontasse che Carlomagno sarebbe stato unto dal papa “da capo a piedi”, mettendo così in ridicolo il più grande tra i carolingi.
Nasceva, comunque, il Sacro Romano Impero.
E, poi, le guerre. Tante, incessanti, vittoriose; su tutta la piattaforma continentale europea, poiché ormai, nel Mediterraneo, le flotte musulmane imperavano. Dall’Aquitania, per completare l’operazione iniziata dal padre, per passare subito dopo, alla definitiva soluzione del problema dei Longobardi e della continua minaccia che apportavano alla Chiesa di Roma. “Comunque - testimonia Eginardo - la conclusione di questa guerra fu la sottomissione dell’Italia, la deportazione in esilio perpetuo del re Desiderio (suo suocero, avendone sposato nel 770 la figlia Ermengarda), l’espulsione dall’Italia di suo figlio Adelchi e la restituzione ad Adriano, capo della chiesa romana, delle proprietà strappate dai re longobardi”.
“E quando il dente longobardo morse
la Santa Chiesa, sotto le sue ali
Carlo Magno, vincendo, la soccorse”. Dante, Par. VI, 94-96.
Ora è “Rex francorum et longobardorum”, e la sua epopea è solo all’inizio.
Si sente, “remeur d’histoire”, sa di aver smosso profondamente la storia e che immani fatiche è costata la guerra contro i Sassoni (durata 33 anni!), popolo dedito “al culto dei demoni e ostili alla nostra religione”; entra contemporaneamente in Spagna dove sperimenta “la perfidia dei Baschi”. E non può non commuoversi al ricordo di chi cadde nello scontro: Eggiardo, sovrintendente alla mensa del re, Anselmo, conte palatino e Rolando, prefetto della marca britannica. E poi ancora impegnato a domare i Bretoni e poi in Baviera dove Tassilone, incitato dalla moglie, figlia del re Desiderio, desiderosa di vendicare il padre esiliato, stringe alleanza con gli Unni, confinanti a oriente. E ciò provoca la guerra contro gli Avari, “cioè gli Unni” come ci è testimoniato. “Tutta la nobiltà degli Unni morì in questa guerra…e tutte le ricchezze e i tesori accumulati da lungo tempo furono saccheggiati”. Infine contro i Normanni,”che si chiamano Danesi” (Eginardo) tamponando le loro mire egemoniche.
Tutto ciò per 47 anni, “con la più grande perizia e il massimo successo”.
E poi, se vogliamo, c’è anche la diplomazia, come testimonia l’epistolario con Harun-al- Rashid, califfo di Bagdad, re dei Persiani, “che a parte l’India teneva quasi tutto l’Oriente”, per i rapporti d’amicizia contratti. E ciò vale anche con gli imperatori di Costantinopoli, per altro legittimamente sospettosi di tanto potere acquisito.
E’ difficile, per Carlo, staccarsi dal ricordo dei mille episodi culminati sempre in sfolgoranti vittorie. Non può comunque non ricordare le mogli e i figli, numerosi entrambi. Da Ermengarda, ripudiata per motivi ignoti a Ildegarda, nobile di origine sveva, da cui ebbe tre figli, Carlo, Pipino e Ludovico e tre figlie, Rotrude, Berta e Gisella (oltre a un altro maschio e due femmine). Da Fastrada, della stirpe dei Franchi Orientali ( Germani) , con le figlie Teoderada, Iltrude e Rodaide avuta da una non meglio identificata concubina. L’alamanna Liutgarda fu la moglie successiva, e, ancora, quattro concubine da cui ebbe altrettanti figli e figlie.
Rivede per un attimo la tanto rispettata madre Bertrada e la sorella Gisella, dedita alla vita religiosa. Un figlio, diciamo illegittimo, di nome Pipino, deforme per una gobba, fu costretto alla vita monastica dopo un tentativo di congiura durante la guerra contro gli Unni: è l’ultimo bagliore di questi ricordi.
Il tempo vola, non c’è tempo per le lacrime e l’affetto. La caccia è finita, notevole, come sempre, il bottino. Torna alla reggia, alto e maestoso sul suo cavallo, con la chioma al vento emanando autorità e imponenza. Già pregustava gli arrosti, cui era avvezzo, anche se i medici, “che gli erano particolarmente odiosi”, lo esortavano ormai spesso ad abituarsi a carni lessate. Non poteva mancare comunque, una volta svestito del farsetto di pelli di lontra, della tunica orlata di una fascia di seta nonché della biancheria di lino, un salutare bagno di vapore termale, magari con qualche figlio Poi, finalmente, la cena, allietata da letture di artisti preferibilmente intenti a sottolineare brani della “città di Dio” di Agostino. A fine pranzo, forse, un sorso di ippocrasso(4) (sorta di infuso di vino con erbe e droghe macerate).
Il sonno è spesso intervallato da momenti di veglia attiva volta anche a ogni sorta di incombenze. E, in assenza di Pietro da Pisa, cui aveva affidato i personali insegnamenti grammaticali o il precettore Albino, detto Alcuino di York (latinizzazioni diverse di Alwin, nome anglosassone Ealh-wine: amico del tempio), dottissimo in ogni campo, trae da sotto i guanciali tavole e fogli di pergamena per abituare la mano a tracciare lettere, con non poca fatica.
A Eginardo, poi, veniva affidata la redazione del suo diario quotidiano.
Nel mese di Gennaio, Wintarmanoth, come lui stesso l’aveva chiamato, febbre e dolori al petto lo prostrano, rapidamente. Nel “settanduesimo anno della sua vita e nel quarantasettesimo dall’inizio del suo regno, il quinto giorno prima delle calende di febbraio (Hornung), alla terza ora del giorno, Carlo Magno morì.
Fu sepolto nella basilica di Aquisgrana lo stesso giorno della sua morte e sopra il suo tumulo venne innalzato un arco dorato con il ritratto e l’iscrizione:
SOTTO QUESTO SEPOLCRO GIACE IL CORPO DI CARLO GRANDE E ORTODOSSO IMPERATORE CHE AMPLIÒ CON ONORE IL REGNO DEI FRANCHI E LO RESSE FELICEMENTE PER XLVII ANNI. MORI’ SETTANTENNE L’ANNO DEL SIGNORE DCCCXIV, INDIZIONE VII, IL GIORNO V PRIMA DELLE CALENDE DI FEBBRAIO.
“Adpropinquantis finis complura fuere prodigia”, molti, troppi avvenimenti eccezionali precedettero la fine: eclissi di sole e di luna, il sole poi, si presentò ripetutamente con una macchia nera nel cerchio;il crollo improvviso del portico edificato tra la basilica e la reggia di Aquisgrana; l’incendio e la distruzione del ponte sul Reno a Magonza ritenuto indistruttibile; il bolide luminosissimo caduto dal cielo durante l’ultima spedizione in Sassonia contro Goffredo, re dei Danesi, seguito dallo stramazzo improvviso del cavallo imperiale; i continui tremori del palazzo imperiale e della folgorazione della mela d’oro che adornava il culmine del tetto; e via dicendo.
Tutto ciò non turbò Carlo, che ripensava, in realtà soddisfatto, alla “renovatio” che aveva prodotto e all’impero che aveva ricostituito.
IL GIOIELLO CAROLINGIO DI MALLES/MALS
IN VAL VENOSTA/VINSCHGAU
la chiesa di san benedetto
La chiesa di San Benedetto di Malles/Mals è discretamente situata in una frazione del borgo, apparentemente senza pretese. È in qualche modo protetta dalle imponenze dell’Ortles, dominata dalla sagoma bianca dell’Abbazia di Monte Maria (Marienberg) e rapidamente raggiungibile dal convento (benedettino) di Müstair (Monastero) della diocesi di Coira nella Rezia curiense cui apparteneva. Al centro della vallata sorge la piccola città fortificata di Glorenza (Glurns), fondata da Mainardo II. Quando Carlomagno separò le strutture diocesane da quelle comitali (806), l’abbazia, e le sue dipendenze, passarono direttamente sotto il potere statale franco.
Le attività principali dei benedettini, come si sa, erano il culto e la preghiera unite però dal probo lavoro che, nelle località di transito o di valico, come in questo caso (visto che da Müstair si poteva accedere alla Val Venosta e ai valichi valtellinesi o engadinesi) assumevano l’importante compito di alloggiare i viaggiatori.
È molto probabile che Carlomagno, dopo essere stato incoronato imperatore a Roma sul finire dell’ anno 800, scegliesse questo tragitto per attraversare le Alpi.
Si trattava della Via Claudia Augusta che traeva il suo nome dall’imperatore romano Claudio (41-54 d.C.) che, secondo le due pietre miliari scoperte a Rablà, nei pressi di Merano e Cesiomaggiore, avrebbe fatto costruire questa importante arteria nel 46 d.C. su un tracciato aperto in verità per la prima volta dal padre Druso in occasione delle campagne belliche da lui dirette nel Norico tra il 16 e il 13 a.C.
Il cippo onorario di Rablà dice:
TIBERIO CLAUDIO CESARE AUGUSTO GERMANICO, PONTEFICE MASSIMO, INSIGNITO DELLA TRIBUNICIA POTESTAS PER LA SESTA VOLTA, CONSOLE DESIGNATO PER LA QUARTA, IMPERATORE PER L’UNDICESIMA, PADRE DELLA PATRIA, LA VIA CLAUDIA AUGUSTA, CHE IL PADRE DRUSO, APERTE LE ALPI CON LA GUERRA,AVEVA TRACCIATO, MUNI’ DAL FIUME PO’ AL FIUME DANUBIO PER MIGLIA.
Anche il passaggio su questa via, peraltro ancor oggi non individuata, può essere considerato il “segno” di una operazione straordinaria, quale la ricostituzione dell’Impero Romano, ormai Sacro, che Carlomagno si accingeva a completare.
La “renovatio”, termine già usato dalle fonti contemporanee per indicare la generale rinascita politica e culturale, è lo strumento fondamentale di cui Carlomagno e i suoi successori si servono per dare unità a un insieme etnico e geografico assolutamente differenziato.
L’alleanza con la Chiesa poi è decisiva anche perché ad essa è affidata la cultura antica. È in questa prospettiva che va colto il legame tra la dinastia carolingia e l’ordine benedettino, favorendo lo sviluppo delle grandi abbazie e raccogliendo a corte i chierici più colti dell’epoca e propagando incessantemente la cultura. In questa età “dell’abbondanza e della gioia” come la definirà Nitardo nell’844, ben si inquadrano una nuova scrittura e una nuova monetazione.
Sotto la sovrintendenza di Eginardo una serie incredibile di opere architettoniche vedranno la luce: nei quarantasei anni di regno verranno innalzati settantacinque palazzi, sette cattedrali, duecentotrentadue monasteri, prendendo spesso a modello l’architettura costantiniana.” Lo stesso palazzo imperiale di Aquisgrana (l’odierna Aachen), che i contemporanei chiamano spesso il Laterano, doveva evocare la residenza papale presso San Giovanni” (1). La piccola chiesa di San Benedetto, a Malles, non ha nulla di monumentale o altisonante, ma tra le chiese altomedievali, per la conservazione di buona parte della pittura e della decorazione a stucco, costituisce di per sé un caso rarissimo. Per l’incuria e i crolli (e gli scempi) molto è andato perduto, ma ciò che è rimasto (portato alla luce nel1913/14) è così straordinario “che la chiesa può essere considerata uno dei più importanti monumenti artistici del periodo attorno all’’800” (2). Il recente studio citato, onestamente, fa presente che nella chiesa di San Benedetto “della metà e della seconda metà del secolo VIII non vi è più molto da vedere”. E’ vero, però che degli affreschi rimasti, gli stucchi, anche altrove collocati e il loro rapporto con l’architettura, non possono non stupire per la loro straordinarietà e suggestione. Solo alcuni flash.
Tra le pitture della parete nord, le più frammentarie, facenti parte di un ciclo di Davide (con cui Carlo Magno amava confrontarsi) vi è un particolare interessante: Davide che fa fustigare i Filistei, ma la fantasia popolare vi vedeva tradizionalmente la punizione dei fornai di Malles, ritenuti disonesti. Ciò che ovviamente colpisce maggiormente nella piccola aula triabsidata è indubbiamente la parete dell’altare che ha conservato la pittura monumentale anche se i colori sono alterati in parte e degli stucchi è rimasto ben poco. E proprio gli stucchi uniti alla pittura giocavano un ruolo fondamentale nell’incorniciatura delle figure nelle nicchie. In queste sono rappresentati Cristo con angeli e i santi Gregorio e Stefano.
Cristo è raffigurato giovane in posizione frontale, regge un libro aperto con alcune righe di scrittura ancora visibili. I due angeli che lo circondano tengono in mano un sottile scettro e quello alla destra anche un globo terraqueo. Il globo è un attributo di sovranità, lo scettro di dignità.
Sui tratti di muro, tra le nicchie sono raffigurati i due fondatori, posti più in basso in grandezza più piccola del naturale: il fondatore “laico” dalla parte del Vangelo e quello “ecclesiastico” dalla parte dell’Epistola. Entrambe le figure hanno il capo circondato da un nimbo, il che sta a significare che erano ancora in vita. È particolarmente suggestiva la figura del barbuto fondatore laico che regge una grande spada, avvolta però da un nastro quale simbolo di pace.
Indossa un costume carolingio: una lunga tunica sino alle ginocchia sfumata di rosso con bordi, calzoni serrati da lacci incrociati e un mantello di colore blu scuro, molto simile a come Eginardo descrive i vestimenti di Carlo Magno.
Il fondatore ecclesiastico ha naturalmente la tonsura; sopra una sottoveste chiara porta una dalmatica grigio-blu e una casacca ocra. È volto verso Cristo nella nicchia centrale e gli offre il modellino della chiesa.
I fondatori formano di fatto una sorta di corte celeste.
In situ, come si dice, è conservata anche una straordinaria colonnina di stucco decorato, il cui fusto consiste in tre segmenti di nastro intrecciato lavorato a traforo in motivi diversi. Stucchi molteplici e sorprendenti, in parte ricostruiti e visibili nel Museo Civico di Bolzano, dove ,comunque, nel Museo Archeologico dell’Alto Adige (in gran parte dedicato alla “mummia glaciale” rinvenuta sul ghiacciaio Similaun in Val Senales ) l’intera parete della altare è stata ricostruita.
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