Anno 3 - N. 7 / 2004
“L’UOMO È COLUI CHE SOGGIORNA RIMANENDO APERTO AL DIVINO”
GLI OSSERVATORI ASTRONOMICI IN PIETRA
Un Maraja del XVIII secolo e la ricerca astronomica
di Diego Vaccari
SOPRA: Osservatorio di Jaipur
SOTTO: osservatorio di Delhi
La fondazione di una città, la edificazione di un tempio o di una capanna, la realizzazione di un labirinto sono state vissute nel mondo antico come appuntamenti centrali nella vita della comunità.
I testi sacri delle varie Tradizioni (1) evidenziano che in queste occasioni il simbolismo di derivazione strettamente cosmologica, l’orientamento del luogo e la conoscenza dei punti di levata e/o di tramonto degli astri principali hanno rappresentato aspetti dotati di straordinaria universalità, presenti in culture spazialmente e temporalmente distanti.
La ragione di questo è da ricercare nel fil rouge, sottostante tali culture tradizionali, costituito dalla affermazione della corrispondenza tra il microcosmo ed il macrocosmo, sintetizzabile in pochi e chiari cardini, quali:
- la Terra è viva,
- il Cielo ne è la controparte,
- il compito degli umani è di partecipare alle “nozze tra il Cielo e la Terra” (2),
- il sacro è ovunque ed in tutte le forme;
e dal continuo ed incessante tentativo di arrivare ad una “reintegrazione” dell’individuo, perseguita in ogni momento della vita quotidiana e connotante ogni gesto umano, “in una realtà assoluta, percepita intuitivamente come una totalità: la Vita Universale, il Cosmo” (3).
L’aspetto che oggi colpisce maggiormente è la profonda compenetrazione tra la dimensione rituale ed una dimensione che a buona ragione si può definire scientifica; tra la creazione di “un rapporto tra l’ordine cosmico e l’ordine terrestre, tra l’ordine divino e l’ordine umano” (4), proprio della ritualità e la individuazione, con gli strumenti della razionalità, di una concatenazione casuale all’interno del mondo fenomenico, che è propria della indagine scientifica.
A conferma di come tali momenti fossero profondamente connotati e vissuti quali atti religiosi, nel senso più completo di re-ligo, di unione, di legame tra gli uomini ed il divino, tra gli uomini ed i saperi.
Esemplificativo a tale proposito è il caso della astronomia nel mondo antico.
L’osservazione astronomica ed il calcolo astronomico hanno accompagnato l’uomo da quando cominciò ad “accorgersi” del Cielo e delle Stelle, della Luna e del Sole e del loro moto rispetto alla Terra.
La osservazione della ciclicità dei fenomeni osservati nel cielo e della correlazione tra questi ed il susseguirsi delle stagioni ed i destini dell’uomo, in virtù di una lettura religiosa, mistica ed analogica, lo portarono ad osservarli con uno sguardo indagatore che univa al necessario “distacco” quella intima partecipazione derivante dal “sentirsi” a loro strettamente legato all’interno di un ordine complessivo.
Il termine di osservazione astronomica comprende così, nel mondo antico, le operazioni necessarie a calcolare la posizione degli astri, assoluta e reciproca, e l’orientamento in un determinato luogo, variabili necessarie nel computo del tempo, nella compilazione di un calendario, nella stesura delle previsioni metereologiche, nella costruzione di un oroscopo, nei riti associati ai luoghi di culto (5), etc.
Il continuo e costante riferirsi ad un ordine superiore, ad una realtà altra, che motiva ogni azione, se da un lato non ha impedito il raggiungimento di risultati straordinari, anche a giudizio dell’uomo di oggi, ha permesso il mantenimento della apertura al divino, della disponibilità all’incanto che conteneva ed impediva l’insorgere di pericolosi deliri di onnipotenza, in una sapiente sintesi tra riflessione e prassi “scientifiche” ante-litteram e l’orizzonte di riferimento metafisico, nel quale trovavano la loro giustificazione ontologica.
Sintesi questa per la quale l’interesse dell’uomo di oggi va ben oltre l’aspetto storico, per diventare apertura e disponibilità ad una forma di conoscenza da assumere a riferimento nella riflessione in corso sulla scienza moderna.
Riflessione questa sempre più irrinunciabile a fronte delle attuali drammatiche emergenze.
Se infatti è impreciso presentare la scienza moderna come solo meccanicistica ed atea - da Copernico (1543) a Newton (1730) c’è un continuo rinvio al Creatore ed al senso di armonia e di bellezza del cosmo - è vero che solo con Einstein, e più recentemente con i fisici di scuola francese, si entra nel pieno recupero di una dimensione metafisica.
Recupero che si sviluppa attorno ai cardini della “epistemologia del cuore” (6), quali la creatività – la scienza è fatta di creazioni imprevedibili, di immaginazione – lo stupore, il ruolo del divino, la dimensione estetica, il senso del mistero, per poter riconquistare alla scienza stessa il diritto ad un rapporto estatico con la realtà, riprendendo la lezione di Newton e di Pascal, i cui interessi principali sono teologici e mistici, ben consapevoli così di poter comprendere meglio la natura stessa.
GLI OSSERVATORI ASTRONOMICI IN PIETRA IN INDIA
Parlando di osservatori astronomici, nono- stante la grande distanza culturale, è stato ritenuto significativo fornire un primo introduttivo contributo all’indagine di quanto prodotto dalla antica cultura indiana.
Anche se è improprio l’uso dell’aggettivo antico, visto che lo spunto è fornito dagli osservatori astronomici in pietra dell’India del Nord, risalenti al XVIII secolo.
L’uomo fin dalla antichità, per soddisfare l’esigenza di determinare la posizione degli astri, ha costruito veri e propri osservatori astronomici.
Quanto si può ancora oggi osservare a Stonehenge nell’Inghilterra meridionale, Chichen Itza in Messico, Copán in Honduras, pur evocando il ricordo di culture antiche improntate ad una dimensione magico religiosa a noi lontana, testimonia dello sforzo fatto per attrezzare determinati luoghi con la strumentazione necessaria alla osservazione del cielo ed al calcolo astronomico.
L’usanza di costruire osservatori con una strumentazione sostanzialmente in pietra e/o muratura si è mantenuta lungo il corso dei secoli, testimoniando comunque, soprattutto nel mondo occidentale, il progressivo attenuarsi della dimensione religiosa ad essi associata (7).
Gli osservatori astronomici costruiti nell’India del Nord per volere di Jai Singh II, maraja di Amber, capitale all’epoca del Rajasthan, oltre che essere quelli temporalmente a noi i più prossimi - risalgono infatti ad un periodo che va dal 1719 al 1738 - testimoniano ancora, nella ispirazione che ne guidò la progettazione e la costruzione, dell’esistenza di un collegamento tra la dimensione scientifica associata alla osservazione ed alla misurazione della posizione degli astri, e la dimensione metafisica, nella quale queste si finalizzano ed assumono senso.
Per comprendere il significato degli osservatori astronomici di Delhi e di Jaipur nel Rajasthan andando oltre il loro aspetto monumentale (8), li si deve contestualizzare, riferendoli tanto al particolare milieu culturale nel quale vengono progettati e realizzati, quanto al suo ideatore, Jai Singh II, il maraja di Amber.
L’ASTRONOMIA INDIANA
Si ritiene usualmente che le speculazioni a carattere astronomico rintracciabili nei Veda, i testi sacri dell’induismo, nella letteratura della religione jainista e nei siddhantas, testi in forma poetica, concorrano a definire l’ambito della astronomia dell’India antica.
Questa copre quindi un periodo di circa 3000 anni: da circa il 2000 a. C., cui risale il Rig Veda, il più antico dei quattro testi vedici, fino a circa il V, VI secolo d. C., cui risalgono le ultime composizioni dei siddhantas.
Testi a carattere sostanzialmente religioso e mitologico, in cui è affermata la natura divina dei corpi celesti e testimoniato lo stretto intreccio tra astronomia ed astrologia, e la visione cosmologica e mitologica sono supportate, ed evidenziate nella quotidianità, con quanto dedotto dalla attenta e meticolosa osservazione astronomica.
Così nella elaborazione dell’oroscopo, Janmakundali, il destino dell’uomo è governato dalla interazione dei demoni e delle forze del male con i Navagrahas, i nove pianeti conosciuti (Grahas), di cui si cerca di conoscere la esatta posizione; nell’elaborazione del calendario Hindu, Panchanga, la luna è definita “la creatrice dei mesi”.
La necessità di misure sempre più precise porta allo sviluppo di nuovi strumenti ed alla messa a punto di metodi per il calcolo matematico a supporto della elaborazione dei risultati delle osservazioni.
È sorprendente constatare che in tal modo gli antichi astronomi-matematici indiani – Aryabhatta (V secolo d. C.), Brahmagupta (VI secolo d. C.), Varahamihira (V secolo d. C.) – sono arrivati, parecchi secoli prima di quanto fatto nel mondo occidentale, a ragguardevoli risultati, tra i quali: il riconoscimento alle stelle della stessa natura del Sole, lo sviluppo di una teoria eliocentrica della gravitazione, la misurazione della circonferenza terrestre (9).
Significativo è anche il fatto che essi disponessero, per comunicare le conclusioni dei propri studi, di un apparto linguistico totalmente mutuato da quello mistico religioso ed ammantato di una forma poetica, assai lontano da quello oggi utilizzato anche solo nella divulgazione scientifica.
Ben lo testimonia il termine sanscrito utilizzato per indicare la forza di gravitazione a base eliocentrica, Gurutvakarshan.
Il termine, composto delle parole Guru-vta-akarshan, esprime il concetto dell’essere attratto (akarshan) dal Maestro (Guru), e la sottolineatura del genere maschile associa il soggetto attrattore al Sole (Surya), considerato il centro della creazione ed il centro delle sfere celesti, ed indicato nei Veda con nomi di genere maschile, mentre la Terra è indicata con nomi ed aggettivi di genere femminile.
PRINCIPIO DI FUNZIONAMENTO DELLA STRUMENTAZIONE
È nel solco di questa tradizione di astronomi-matematici che si inserisce Jai Singh II con la costruzione dei cinque osservatori astronomici, dotati di una strumentazione che ancora oggi stupisce per le dimensioni gigantesche – lo strumento denominato Samrat Yantra, letteralmente strumento supremo, è alto 27 metri con una base di 45 metri - e per la accuratezza delle misure effettuabili.
Queste sono fatte sfruttando il principio della meridiana, il cui impiego conobbe nella antica India uno straordinario approfondimento, conseguentemente alle prescrizioni contenute in una serie di trattati, di derivazione vedica, conosciuti con il nome di Vaastu Shâstra.
Il termine Vaastu, omofono al termine Vasthu (Terra), rimanda attraverso la catena etimologica Vas (essere, risiedere), Vasa (habitat) e Vastu (argomento), alla nozione di spazio e di ciò che è contenuto nello spazio, il termine Shâstra rimanda alla nozione di scienza, pertanto Vaastu Shâstra, traducibile come “la scienza della casa”, individua tutte le prescrizioni per la costruzione degli edifici e per la localizzazione di insediamenti, civili e religiosi, in armonia con le leggi dell’Universo (12).
In accordo con le indicazioni contenute nel Vaastu Shâstra, un edificio deve essere costruito in modo da trarre benefici sia dalla energia solare sia dalla energia cosmica.
Per ottenere questo, esso deve essere integrato in un opportuno modello, dato da un quadrato, la cui diagonale, orientata nel senso NordEst-SudOvest, rappresenta la direzione in cui giace lo spirito della Terra, il Vaastu Purusha, con i piedi situati a SudOvest e la testa a NordEst.
Era pertanto indispensabile per gli antichi architetti indiani conoscere in un determinato luogo tanto la direzione equinoziale, l’asse Est Ovest, quanto quella meridiana, l’asse Nord Sud. Da qui derivò la formalizzazione di un metodo, poi conosciuto con il nome di cerchio indiano: la più antica meridiana.
Il metodo prevede che un pilastro, lo gnomone, sia conficcato nel centro dell’area interessata dalla costruzione, e che successivamente sia disegnata una circonferenza dalla base dello gnomone con raggio pari alla sua altezza fuori terra. La determinazione dei due assi è fatta considerando la posizione dell’ombra dello gnomone proiettata sulla circonferenza: la massima differenza tra le due posizioni consente di individuare la direzione equinoziale; ed il tracciamento di due circonferenze centrate su i punti estremi di questo scarto, consente l’individuazione di quella nord-sud.
A partire da questo primo elementare impiego, l’ombra dello gnomone fu utilizzata per calcoli astronomici sempre più sofisticati, fino ad arrivare alla strumentazione monumentale di cui sono dotati gli osservatori di Jai Singh II, costituita da costruzioni in muratura la cui ombra proiettata su scale graduate consente il calcolo dell’ora e la determinazione di grandezze astronomiche.
Tra tutti gli strumenti degli osservatori in pietra, una particolare attenzione meritano quelli raggruppati sotto il termine di Jai Prakash Yantra (letteralmente luce di Jai), progettati dallo stesso maraja e solitamente costruiti per ultimi, per poter verificare con le loro misurazioni il corretto funzionamento degli altri. Oggi essi sono visibili solo negli osservatori di Delhi e di Jaipur, ma è facile ritenere che per la loro funzione di controllo, fossero presenti anche negli altri.
Utilizzati per le misurazioni diurne e notturne, sono costituiti da una coppia di semisfere concave fissate in una piattaforma di arenaria. Le due semisfere rappresentano capovolto l’emisfero celeste sovrastante l’osservatore e riportano la posizione di tutti gli astri e delle 12 costellazioni zodiacali, costituendo così una mappa completa dei corpi celesti sulla quale poterne riconoscere la posizione in qualunque momento della giornata, anche in pieno giorno e quindi con la impossibilità di una osservazione diretta. Il funzionamento diurno sfrutta l’ombra proiettata sulla superficie della semisfera da un anello tenuto sospeso al centro da una coppia di tiranti metallici ancorati sul perimetro in corrispondenza dei quattro punti cardinali. La posizione dell’ombra consente di calcolare il tempo, la declinazione e la longitudine del sole, etc.
Per l’osservazione notturna, la versione più evoluta dello strumento, prevede la suddivisione di ciascuna semisfera in 6 spicchi di marmo intervallati ciascuno da uno spazio in cui l’osservatore può posizionarsi e fare le misurazioni astronomiche di uno specifico corpo celeste, traguardandone la posizione attraverso l’anello.
Rimane ad oggi ancora un mistero il motivo per cui Jai Singh II nella costruzione della strumentazione abbia rifiutato il ricorso a dispositivi ottici, di cui del resto era a conoscenza, promuovendo la costruzione di grandi strumenti fissi.
Taluni autori ipotizzano che alla base di questa decisione ci fossero motivazioni inerenti la filosofia indù più che l’astronomia.
Resto indubbio invece il ruolo del maraja quale cerniera tra l’astronomia indiana, le antiche concezioni cosmologiche ed il nuovo ordine scientifico che si stava delineando.
JAI SINGH II
In qualità di discendente della dinastia Kachhawaha, Jai Singh II, nato nel 1686 (10 ), salì al trono nel 1699. Diventando maraja di Amber, fece atto di sudditanza all'imperatore moghul Aurangzeb, delegandogli la difesa armata del proprio regno.
In tal modo Jai Singh II poté concentrarsi sugli studi astronomici, sua passione, raccogliendo l'eredità degli antichi astronomi-matematici indiani. A tale eredità, Jai Singh II° affiancò tanto i contributi degli astronomi islamici, soprattutto del mondo persiano, quanto quelli del mondo occidentale, raggiungendo così un equilibrio tra un forte sentimento religioso, la dinastia cui appartiene rivendica la propria discendenza divina dalla Sole, ed un lucido e preciso approccio scientifico.
Lo testimonia la motivazione da cui derivò il programma di costruzione degli osservatori astronomici. Nel 1719, alla corte dell'imperatore moghul Muhammad Shan, nel Forte Rosso di Delhi, si tenne una disputa tra gli astronomi indù e gli astronomi mussulmani sulla posizione di alcuni pianeti.La conoscenza esatta di queste posizioni era necessaria per definire la data più propizia nella quale l'imperatore avrebbe dovuto dar inizio ad una campagna militare.
Jai Singh II, ritenendo che la causa della disputa fosse nella insufficiente precisione della strumentazione in ottone disponibile a corte, ispirandosi a quanto da circa due secoli avevano fatto gli astronomi islamici (11), propose la costruzione a Delhi di un osservatorio astronomico.
L'osservatorio avrebbe dovuto essere dotato di una strumentazione in muratura ed in pietra che, viste le dimensioni, avrebbe garantito un elevato livello di precisione delle misure necessarie alla compilazione delle tavole astronomiche.
L'imperatore accettò la proposta e nacque così l'osservatorio astronomico di Delhi, completato nel 1724 e successivamente quello di Jaipur (1727-1728).
A questi si affiancarono quelli di Varanasi (1737), di Mathura (1738) e di Ujjiain (1734) nel Madhya Pradesh.
Oggi l'osservatorio di Mathura è scomparso, quelli di Varanasi e Ujjiain sono in cattivo stato o limitati a poche rovine che non consentono di cogliere la complessità della costruzione.
Solo gli osservatori di Delhi e soprattutto di Jaipur testimoniano pienamente dell'ingegno del maraja. Ciascuno di questi osservatori fu dotato di una grande varietà di strumentazioni, sia in muratura sia con anelli o piatti graduati in metallo su fondamenta in muratura, finalizzati tanto alla misurazione diurna, quanto a quella notturna.
Con il tempo si diffuse l'uso di chiamare gli osservatori con l'unico termine Jantar Mantar, il cui significato è all'incirca quello di strumenti di calcolo, ma la cui origine etimologica rimanda, tramite la versione dialettale (Jantar), al termine sanscrito YANTRA, indicante una figura simbolica a supporto della meditazione, e, tramite la contrazione Mantar, al termine sanscrito MANTRA, indicante una formula o una parola sacra.
NOTE
1) Eliade Mircea, I riti del costruire, Milano, ed. Jaca Book, 1990.
3) Eliade Mircea, Borobudur tempio simbolico, Torino, ed. Bollati Boringhieri, 1999.
4) Burckhardt Titus, Considerazioni sulla scienza sacra, Milano, ed. Archè, 1987.
5) Romano Giuliano, Orientamenti ad siderea, Ravenna, ed. Essegi, 1995.
6) AA.VV., Cristianesimo, natura, epistemologia del cuore, a cura di Valle Luciano, Milano, ed. Nardini, 1996.
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