Anno 3 - N. 7 / 2004


I LUOGHI DELLA RIGENERAZIONE DELL’UOMO NEL MITO GRECO

IL MITO DI DIONISO:

Nato due volte con lo stesso cuore

di Alvaro Vaccarella



Dioniso (vaso attico a figure rosse)


Dioniso fu generato dall'unione di Zeus e Persefone, e posto sotto la protezione dei Cureti.
I Titani, nemici di Zeus, attesero che il sonno s'impossessasse dei suoi custodi e a mezzanotte, dopo essersi sbiancati il volto con terra calcarea, indussero il bambino a seguirli, offrendogli doni. Precisamente un cono, un rombo, mele d'oro, uno specchio, un astragalo e un batuffolo di lana: secondo un'altra versione non furono i Titani a offrirgli tali oggetti per trarlo in inganno, bensì lo sorpresero mentre si rimirava nello specchio, circondato dai suoi giocattoli.
Non appena si rese conto del pericolo Dioniso tentò la fuga, tramutandosi via via in Zeus avvolto da una pelle di capra, Crono che fa cadere la pioggia, un leone, un cavallo, un serpente cornuto, una tigre e un toro.
A nulla valsero i suoi stratagemmi e due Titani riuscirono ad afferrarlo. Lo lacerarono e, tagliatolo in sette pezzi, lo gettarono in una caldaia posta sopra un tripode. Quando la carne fu cotta essi cominciarono ad arrostirla su sette spiedi, e solo al termine di questa seconda parte del procedimento di preparazione delle carni della vittima, si apprestarono al banchetto.
A questo punto intervenne Zeus. Il padre degli dèi, oltremodo adirato, interruppe il macabro festino a suon di fulmini, ricacciando i Titani agl'Inferi.
Il mito prosegue narrando la "resurrezione" del dio arrostito. Una versione racconta che Zeus ingoiò il cuore di Dioniso e poi lo generò di nuovo in Semele, che nella leggenda comune è detta sua madre. Una variante afferma che il cuore del bambino, sfuggito alla duplice cottura, fu pestato in un mortaio e versato in una pozione bevuta da Semele, la quale in tal modo concepì Dioniso, e lo mise al mondo una seconda volta.
Un'altra versione, forse maggiormente diffusa, ha per protagonista Atena. La dea, che prendeva parte al banchetto dei Titani, riuscì a sottrarre il cuore dello sventurato fanciullo prima che i suoi visceri fossero gettati nel calderone.
Lo celò in un paniere, riparandolo con una coperta. In seguito costruì una statua in creta. secondo una tradizione usò la cenere rimasta dopo il lancio di fulmini operato da Zeus e vi ripose il cuore palpitante: In tal modo ridiede a Dioniso la vita e l'immortalità.
Non ci soffermeremo, in questa sede, a prendere in esame le diverse questioni filologiche inerenti la narrazione, nè le varianti minori della storia di Dioniso, ritenendo più importante per i fini della nostra ricerca addentrarci nell'analisi della storia del dio che nacque due volte.
Marcel Detienne affronta il mito da un punto di vista strutturale, tenendo presente l'insegnamento di Lévi Strauss. La sua indagine, pertanto, punta a chiarire l'elemento più enigmatico e paradossale dell'intera vicenda: la doppia cottura cui vengono sottoposte le membra del giovane Dioniso. All'autore, tuttavia, non sfugge l'importanza dell'atto di separare il muscolo cardiaco dagli altri "splanchna" e cerca una spiegazione nel contesto culturale della tradizione classica. Così, al proposito, riferisce un'iscrizione riguardante le cerimonie celebrate a Efeso, in cui si faceva obbligo di estrarre i cuori delle vittime destinate al sacrificio, e sottolinea che a Rodi gli impuri non erano ammessi nel tempio di Asclepio. La condizione di purezza, in questo caso, consisteva nell'astensione dai piaceri dell'amore e dal cibarsi con fave e cuori. Il legame tra le fave e il cuore, secondo questo autore, va fatto risalire ai tempi dei pitagorici, per i quali i legumi rappresentavano simbolicamente il luogo caratteristico della rigenerazione nella sfera vegetale. L'equivalente, cioè, di cuore e cervello, luoghi della rigenerazione dell'uomo, che insieme con l'utero definivano “sede della vita”
Ai medesimi organi fu attribuita una grande affinità con lo sperma; agli occhi dei pitagorici ciò passava attraverso l'immagine dell'uovo simbolo per eccellenza del vivente. Uovo, cuore e fava, pertanto, erano elementi d'interdizione ai seguaci del culto di Dioniso Bromio a Smirne.
Parimenti i fedeli non dovevano avvicinarsi agli altari paludati di nero, e “non alzare la mano su vittime non sacrificabili, non offrire uova nei banchetti in onore di Dioniso, far bruciare sugli altari il cuore (della vittima), astenersi dalla menta che (accompagna) la specie esecrabile delle fave”. Più avanti Detienne spiega con maggiore chiarezza il motivo per cui i Titani non hanno mangiato il cuore. Il viscere, afferma, è proibito in quanto “è principio del vivente, archè nel doppio senso di ciò che dà inizio e ciò che comanda”. Per documentare le sue affermazioni cita un brano tratto da Filone d'Alessandria.
Ma il lettore del nostro scritto, giunto a questo punto, è in grado di giudicare quanto più antico sia il legame concettuale fra il cuore, sede della vita, e l'anima dell'individuo.
Quando Aristotele affermava la “necessità” di collocare il muscolo cardiaco al centro del petto, a custodia del calore vitale, semplicemente razionalizzava un pensiero consolidato e fortemente radicato nella società greca arcaica e quindi codificato e celebrato anche dal mito orfico. L'idea del cuore sede dell'anima, del viscere indispensabile alla vita dell'individuo, soprattutto nella componente affettiva e spirituale (al di fuori di ogni concezione fisiologica moderna), era dunque presente nel bacino mediterraneo ben prima dell'opera di Aristotele. E non è un caso che tale concetto sia stato espresso nel mito di Dioniso, il dio fanciullo, simbolo dell'essere precosciente e postcosciente dell'uomo.
Alcuni elementi del racconto meritano un ulteriore approfondimento.
Cominciamo dai Titani. Secondo Jung l'atto di spalmarsi il viso con terra calcarea per renderlo bianco “sta in molti luoghi a significare la trasformazione negli Spiriti (degli antenati)”. Lo stesso autore, tra l'altro, ricorda che spesso, nella mitologia, lo smembramento di un corpo ne simboleggia la nascita. Al di là di ogni riferimento ai procedimenti culinari dunque, dobbiamo pensare che Dioniso viene smembrato dagli spiriti dei suoi antenati (i Titani col volto dipinto di bianco) al fine di compiere l'atto di nascere nuovamente e definitivamente, questa volta immortale, come si conviene a un dio. Dall'intera operazione, tuttavia, è escluso il cuore, in quanto organo dotato di una vita propria, esso stesso assimilato a principio di vita, e quindi non abbisognevole di essere sottoposto ai riti di rigenerazione, rappresentati dallo smembramento e dalla successiva doppia cottura.
A questo punto dobbiamo soffermarci su un particolare non trascurabile: i diversi filoni della narrazione mitica, con i loro differenti sviluppi della storia della “resurrezione” del dio fanciullo. La seconda parte del mito di Dioniso può essere raggruppata secondo due schemi fondamentali. Nel primo osserviamo la seguente successione di fatti: il cuore, scampato al banchetto, viene battuto e ridotto in poltiglia. Successivamente il genitore - alternativamente Zeus o Semele - beve l'intruglio e dà luogo in questo modo a un nuovo concepimento, dal quale sortirà il dio.
Nella seconda versione i fatti si compiono secondo un diverso ordine.Innanzi tutto il cuore è preservato da qualsiasi ingiuria, e per quel che è dato capire, rimane palpitante per tutto il tempo della vicenda narrata. Un dio - Atena o Zeus stesso- impasta una figura di creta e vi introduce il muscolo cardiaco. La statua si anima divenendo il dio medesimo.
Nella prima versione, probabilmente più arcaica, il germe della vita, lo spirito che anima l'uomo e ne determina l'individualità è considerato tutt'uno con il muscolo cardiaco, ridotto in poltiglia, molto simile al liquido seminale (il richiamo ai pitagorici è evidente), e come tale “introdotto” nella figura - maschile o femminile poco importa- che agirà da tramite plausibile alla nuova generazione. Così come lo sperma sancisce l'univocità dell'individuo nascituro, la poltiglia ricavata dal cuore garantisce la sopravvivenza dell'essere precedente, con altrettanta precisa compiutezza. Il cuore dunque “è” lo spirito del dio in atto, così come lo sperma lo è in potenza. Fisicamente può essere trasformato in bevanda (purché non ne vada persa una goccia) senza con ciò perdere alcuna caratteristica, sottoponendosi al passaggio in un altro organismo: percorso indispensabile a una nuova generazione.
Nella seconda versione, più articolata e per molti versi meno “realistica”, i concetti espressi appaiono più raffinati, leggibili secondo una chiave aristotelica. Lo spirito vitale che è in noi si concreta nella propria eternità, e non può essere sottoposto a riti che ne sanciscano la nascita o la morte. La separazione dal resto delle membra è l'unico atto possibile per una traslazione. Lo spirito è “pneuma” impalpabile e quindi il gesto va compiuto su ciò che lo contiene: il cuore.
La cavità ventricolare sinistra giunge, per un processo di osmosi e di sovrapposizione sempre più stretta, a identificarsi con lo spirito vitale, ma solo fisicamente, poiché quest'ultimo conserva sempre la propria identità. C'è in questo, come in altri racconti, un attributo del cuore che giustifica metaforicamente la qualità immortale dello spirito: il movimento pulsante dell'intero muscolo. Nel mito di Dioniso, pertanto, è l'anima ad essere preservata dalla cottura, il cuore rappresentandola simbolicamente. Per questo il muscolo non può subire lacerazioni o insulti: li subirebbe l'anima. La tesi espressa dal Detienne, secondo la quale il muscolo cardiaco di Dioniso sfugge alla distruzione in quanto “permette al dio di rinascere anche dopo essere stato divorato” probabilmente è solo una parte della più complessa attribuzione simbolica di cui è protagonista il viscere.
In realtà siamo di fronte a una funzione di “contenitore” dello spirito vitale, per alcuni versi già presente ai tempi degli egizi. L'analogia con alcuni aspetti del processo d'imbalsamazione è talora molto evidente. Anche sulle sponde del Nilo, come è noto, si procedeva a una separazione del muscolo cardiaco dal resto delle membra. Solo queste ultime, infatti, richiedevano un processo particolare affinché ne fosse garantita la conservazione. Il cuore, al contrario, non era trattato, ma conservato a parte nei vasi canopici. In sua vece era simbolicamente riposto al centro del petto un manufatto in pietra a forma di scarabeo con il dorso inciso prima dell'ultima cerimonia di sepoltura.
Sono propenso a credere che il gesto di Atena sia da interpretare in questo modo. Lo spirito di Dioniso, contenuto nel ventricolo sinistro (metafora della sua presenza è l'incessante palpitare) è nascosto in un cesto. Sarà riversato intatto nella statua di creta, riprendendo le proprie funzioni nella sede “naturale”, che del resto non aveva mai abbandonato.
Le due versioni di questo mito testimoniano l'evoluzione di un pensiero arcaico. Dapprima la carne stessa di cui si compongono i ventricoli “è” lo spirito dell'individuo, l'essenza della sua vita. Successivamente il ruolo del viscere è stato per così dire ridimensionato, ed è divenuto il contenitore dello spirito vitale, gelosamente racchiuso nel ventricolo sinistro. In questo particolare ruolo l'immagine del cuore sopravviverà a lungo.
Per dovere di completezza, e per rafforzare quel legame fra cuore e organi genitali presente nell'antichità più remota, riferiamo una terza interpretazione del mito, ad opera di Kerenyi, basata su un'analisi filologica, più che strutturale, della narrazione.
A proposito di Atena descritta nell'atto di nascondere un viscere di Dioniso durante il banchetto dei Titani, egli commenta: ”S’affermava che si trattasse del cuore di Dioniso. In ciò si cela un gioco di parole. Infatti si diceva pure che Zeus avrebbe affidato il “kradaios dionysos” alla dea Ipta, affinchè questa lo portasse sulla testa. Ipta era un nome dato nell'Asia Minore alla Grande Madre Rea, 'kradiaios' è una parola a doppio senso: può derivare sia da 'kradia', 'cuore', sia da 'krade', 'albero di fico' e in quest'ultimo caso significa un oggetto fatto di legno di fico. Ma la cesta sul capo di Ipta era un “linknon” un ventilabro nel quale si nascondeva di solito un “phallos” sotto la frutta, quando nelle processioni festive veniva portato sulla testa: un oggetto che Dioniso stesso aveva fatto col legno del fico. Si ha anche notizia che il Liknites “colui che è nel ventilabro”, venisse “svegliato" ripetutamente dalle donne che servivano Dioniso sul Parnaso, le “Tiadi”.
Tale ipotesi, seppure ricca di suggestioni, e per nulla svilente le precedenti affermazioni sul simbolismo del muscolo cardiaco, si trova in contrasto con la tradizione antica in auge presso i cretesi. Ogni due anni, infatti, celebravano la “passione” di Dioniso con una rappresentazione che ricostruiva il mito nei suoi dettagli. Un toro era sbranato a simboleggiare lo smembramento del fanciullo e una musica di cembali e flauti ricordava le lusinghe messe in atto per ghermirlo. L'intera processione era preceduta da uno scrigno portato verosimilmente da un sacerdote, nel quale, era detto, si custodiva il sacro cuore di Dioniso. Va rilevato ancora una volta il gesto simbolico di anteporre all'intera rappresentazione il nucleo più importante: l'estrapolazione del cuore dal resto delle membra.
Più che il mito del bollito arrosto, quello di Dioniso è il mito del cuore separato, che sfugge alla morte e rigenera l'esistenza della divinità. Senza nulla togliere all'opera preziosa e per molti versi illuminante di Detienne, ritengo che il nucleo fondamentale del racconto della nascita - morte e rigenerazione - del figlio di Persefone risieda nell'indicare attraverso il linguaggio del mito, la funzione del muscolo cardiaco. Il viscere si identifica prima, e racchiude poi, il principio di vita posto in ciascun essere.
Tale concetto sarà da un lato razionalizzato e sistematizzato da filosofi e scienziati, sopravvivendo nel corso del tempo fino al XVII secolo, dall'altro enfatizzato dai poeti che, esprimendo gran parte dei propri sentimenti attraverso le qualità della funzione simbolica attribuita al cuore, contribuiranno a rafforzare nell'immaginario collettivo l'idea di un viscere deputato a svolgere il ruolo di polo spirituale dell'essere vivente.
Nella suggestione di immagini liriche e di metafore sempre più complesse e raffinate, al muscolo cardiaco è riservato il compito di racchiudere l'aspetto trascendente e metafisico di ogni sussulto emotivo. Così, per esempio, Archiloco esorta sé stesso: “Cuore, cuore mio sconvolto da tormenti senza scampo/sorgi, i tuoi nemici vinci, opponendo ad essi il petto...”
L'immagine del viscere è antropomorfizzata al punto che l'invocazione attribuisce al cuore il possesso di un'altra parte del corpo: il petto. Non è per nulla un paradosso, se non apparente, dal momento che il muscolo cardiaco ha completamente perso, in questo frangente, ogni significato fisiologico, trasformandosi in “doppio” del protagonista, e perciò nuovamente in possesso di attributi somatici oltre che psichici.
Lo stesso autore ripropone l'uso dell'immagine del cuore per indicare un altro aspetto del sè. “Intonar so il ditirambo di Dioniso, mio signore, / il bel canto il so, dal vino folgorato nel mio cuore”.
In entrambi i frammenti citati Archiloco ha operato una scissione fra forze inconsce e sé razionale, le prime indicate rispettivamente come la spinta necessaria per reagire ai tormenti e come l'azione dell'alcol sulla percezione del reale, la seconda come fredda capacità di autoanalisi, che conduce all'autocommiserazione.
Se dunque nel mito abbiamo scorto un'immagine del cuore caratterizzata dallo stretto rapporto con l'idea dello spirito vitale, di nucleo insopprimibile dell'esistenza e fonte di vita, con l'opera dei poeti cogliamo un altro aspetto della sua immagine. Il cuore diventa la metafora “naturale” dell'aspetto non razionale dell'uomo, della sua sfera emotiva, e ancor più di quella affettiva.
I versi di Saffo a questo proposito, sono illuminanti. “Scuote Amore il mio cuore/ come il vento sul monte/ si abbatte sulle querce”.
Si pensi alla diversa risonanza che avrebbe assunto l'immagine poetica se il verso esordisse con altre parole. Ad esempio “Scuote Amore il mio corpo” , oppure “Scuote Amore me stessa”. Seppure di significato analogo, sarebbero apparsi privi di purezza e spiritualità, come appesantiti dall'immagine ingombrante del resto del corpo.
Il cuore, tuttavia, non esprime in questo caso un sentimento astratto, privo della componente carnale: si limita a confinare Amore in una dimensione più leggera, simbolica senza privarla, al tempo stesso, di ogni altra componente sensibile e concreta. Perché quando si ama, si ama con tutto se stessi.