Anno 2 - N. 6 / 2003
salute OGGI come IERI
ELOGIO DELLA POLENTA
Per fare una polenta come si deve occorrono le modalità e gli arnesi di un tempo, poi acqua salata, farina di mais e l’ingrediente principale: l’olio di gomito
di Ambra Morelli
La polenta
Pietro Longhi
(1702-1785)
Venezia, Ca' Rezzonico
Per fare una polenta come si deve occorrono le modalità e gli arnesi di un tempo, poi acqua salata, farina di mais e l’ingrediente principale: l’olio di gomito.
La polenta è cibo conosciuto da tutti e a tutte le latitudini, oggi considerato più occasione per far bisboccia, cibo da consumare in gruppo, momento di golosità (non tanto per la polenta ma per quel che si mangia assieme), cibo legato all’inverno, alla montagna, magari alla presenza di un camino acceso. Un tempo era invece cereale base dell’alimentazione soprattutto delle popolazioni povere, in alcuni casi anche unico cibo quotidiano a disposizione per sfamare fami ataviche.
In alcune regioni per dimostrare l’origine antichissima della polenta si sono scomodati Adamo ed Eva che, in un cupo giorno per l’umanità, furono cacciati dall’Eden, fecero fagotto frettolosamente e si portarono via lo stretto necessario per vivere compresi alcuni semi di granturco. Si immagina poi che abbiano vagato a lungo alla ricerca del luogo ideale in cui fermarsi per riposare e saziare la fame che, abituati com’erano alle delizie del paradiso terrestre, per la prima volta sentivano. Giunsero così ad un luogo “che l’è in centro a chele tere che i fa sponda al Bremb e al Sere”: di tale importanza investivano l’alimento “polenta” le popolazioni delle valli bergamasche.
La preparazione delle polentine si perde nella notte dei tempi: da queste deriva la polenta come oggigiorno la intendiamo. È tra i cibi che l’uomo imparò a preparare agli albori della civiltà perché la polenta intesa, in senso generico, ha una storia lunghissima e varia, anche se la modalità di preparazione rimane sempre la stessa cioè cottura in acqua di cereali ridotti in farina.
Il nome polenta deriva dal latino pultes ovverosia polentina, pappa. Oggi per polenta si intende un impasto di farina di mais, intriso di farina di granturco, molto denso e cotto nel paiolo, rimestato continuamente.
L’uso delle polentine era abituale già all’epoca romana. Non conoscendo il mais, si facevano polentine di farina di farro, di miglio ed altro ancora e si univano in cottura altri ingredienti. Su De re coquinaria di Apicio (testo di cucina vecchio di due millenni, preziosa testimonianza su quello che doveva essere la gastronomia dell’epoca) vengono descritte le “farinate romane”, apprezzate polentine fatte con semola, latte o acqua bollente e sale ben mescolati, così da ottenere una pasta densa che si mangia col cucchiaio: è un piatto base su cui si versa un po’ tutto, piselli, ceci, carne, pesci freschi, erbe fini ed altro ancora, aromatizzate con semi di finocchio o coriandolo.
Tra gli ingredienti anche miele e uova o il formaggio per creare polente caseate, che ci riportano, quest’ultime, alle più note del giorno d’oggi, oppure latte, carne di agnello, salsa acida di maiale.
Nello stesso testo vengono riportate le preparazioni delle pultes julianae (polentine friulane e venete) preparate in onore dell’imperatore Giuliano che ne era ghiotto estimatore.
Fino al V secolo a.C. (il pane arrivò dalla Grecia solo dopo il V secolo) i popoli italici avevano consumato i cereali sotto forma di zuppe o pappe: si preparavano con farina di segale, farro, miglio, sorgo, orzo, riso, grano saraceno, castagne e, quando era disponibile, frumento. Si ottenevano impastando le farine di questi cereali con acqua. Nelle zone padane queste zuppette si identificavano con termini come pult, polt, puta, puti, putiscia.
La pult era conosciuta in tutta l’area del Mediterraneo ma dalla metà del ‘700 la coltivazione del mais soppiantò quasi completamente quelle di altri cereali e, soprattutto nelle zone di montagna, la “polenta gialla” sostituì il pane e spesso anche il companatico.
Sembra che la pianta del mais sia stata portata in Europa da Cristoforo Colombo il quale, al ritorno dal suo viaggio nel Nuovo Mondo, portò alcuni semi di una pianta chiamata dagli indigeni mahiz (da cui deriva il nome botanico di Zea Mais). Più certo è che le popolazioni precolombiane dell’America centrale lo conoscevano bene perché già da 5000 anni lo coltivavano e si cibavano di mais.
Si tratta di una pianta che cresce e si moltiplica ovunque con un ciclo riproduttivo breve (circa 80 giorni dalla semina al raccolto): i pellerossa dell’America settentrionale ne erano consumatori e quando i “visi pallidi”, impadronendosi dei loro territori, li obbligarono a spostarsi altrove, la caratteristica di rapida maturazione del mais consentì loro di approvvigionarsi in tempi relativamente brevi.
Probabilmente Cristoforo Colombo non fu il primo a portare in Europa il mais, perché si suppone che alcune specie di origine orientale di questo cereale fossero state introdotte prima del 1500. Le prime coltivazioni di granturco (“turco” come sinonimo di forestiero) furono praticate in Andalusia dagli arabi che lo impiegavano come foraggio.
Venezia fece le prime importazioni e le zone di coltivazione furono proprio nel Polesine, da dove si diffuse in Lombardia e Piemonte per espandersi poi in tutto il nord Italia. All’epoca, la polenta è assente al sud dove la pianta di mais è vista come curiosità botanica e sistemata nei giardini di Palermo. Oggi è uno dei cereali di base della popolazione mondiale e con esso si producono farina, olio, fiocchi, pop-corn.
In Piemonte si diffuse dalla metà del 700 prima come curiosità per i palati raffinati dei signori dell’epoca, poi largamente diffusa e destinata quindi a cibo di massa. All’epoca fu fondata una “Accademia dei Polentofagi” e più tardi si istituì la “Società della Polenta” nota con la sigla PPP, cioè “Prima Patria poi Polenta”. Agli inizi dell’800, periodo di guerre e grandi carestie, fu il piatto maggiormente consumato, piatto unico, nel senso che c’era solo polenta, nutriva poco ma riempiva lo stomaco e non faceva sentire i morsi della fame. “La pulenta la contenta” recita un vecchio proverbio lombardo, ad evidenziare il senso di sazietà che conferisce la polenta. Ma la scarsa presenza nel mais di niacina (vitamina PP), contenuta in una forma non assimilabile dall’uomo, provocò la gravi manifestazioni endemiche di pellagra delle popolazioni depresse delle zone montagnose, che furono il prezzo di una dieta basata sul consumo quasi esclusivo di polenta.
Oggi la fame endemica non è più un problema e la polenta, alimento semplice e dal gusto neutro, viene elaborata con ricette di grande fantasia. La varietà di farina può essere scelta in sintonia col piatto che l’accompagnerà: farina gialla macinata più o meno grossa, “fioretto” o “bramata” o mista, a seconda della tradizione e che ne determinerà la consistenza finale, oppure “bianca”, usata in alcune zone del Veneto e Friuli, dalla consistenza morbida e dal gusto delicato. Le ricette regionali non si contano, dalla “polenta concia” del Piemonte alla “taragna” della Valtellina (con grano saraceno), dalla lombarda “polenta e gras pestà” alla “polenta e bruscit” della zona di Varese, dal “pan de mei” del lago di Garda e Iseo alla così definita “polenta leggera per stomachi deboli” composta da: farina di mais, cipolla, salvia, prezzemolo, acciughe salate, funghi secchi, olio e farina bianca. È una ricetta della metà dell’800, quando si iniziava a sostituire il burro con olio secondo i consigli di un tipo di gastronomia dietetica e innovativa!
La polenta, del resto, è piatto base per elaborazioni gastronomiche ampie e pertanto si potrebbero fare mille esempi. Ne cito solo un’altro in finale (“polenta e osei”, oggi sostituiti con i cosiddetti uccelli scappati, perché non ci sono più e sono sostituiti con carne di vitello o maiale) solo perché la bontà del piatto ha stimolato l’ispirazione di un poeta come Carlo Porta, portandolo a scrivere un breve ma incisivo sonetto. Per ringraziare un amico che gli fece avere un certo numero di uccelletti, tordi per la precisione, e che consigliava come miglior accompagnamento la polenta, Carlo Porta stese i seguenti versi:
“Quanto ai tordi, quanto ai merli, / eran pingui freschi e sani / che una gioia era il vederli, / il palparli con le mani. / Ma la gioia la più intensa / quella fu dei convitati, allorquando sulla mensa /caldi caldi fur portati. / Volti in candide indumenta, / con lardosa maestà, / sedean sopra una polenta / come turchi sul sofà”.
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