Anno 2 - N. 6 / 2003
POESIA
Il caffè delle muse
di F.P.
Yoschi Iku (1833 - 1904) Silografina a quattro toni
C’è profumo di donna, oggi, nel CAFFÈ DELLE MUSE. Se ne incontrerà più d’una.
Victoria Surliuga è una nostra connazionale che vive negli Stati Uniti, a Houston. Di quei connazionali di cui andare orgogliosi. Nonostante la sua giovanissima età - 31 anni, lei felice! - ha un curriculum di tutto rispetto: basti dire che insegna letteratura italiana alla Rice University. Si occupa prevalentemente di poesia: tesi di dottorato su Loi, Maiorino, Neri.
Parlo di lei perché l’apprezzo molto. L’ho conosciuta ad una lettura pubblica in una libreria milanese: poi abbiamo cenato a casa mia, con Giampiero Neri e Silvio Aman. Gazpacho andaluso, nella cui preparazione - abbia indulgenza il lettore per la narcisistica debolezza - non temo rivali. Salvo gli andalusi.
Esuberante e vivacissima, Victoria è anche poetessa di grande sensibilità. Porgerò al lettore il commosso lirismo di questi versi che a me sono molto piaciuti:
Abbandono
usurato
dalle piogge
il cancello
si frantuma
in un lamento
non ha più
protezione
il giardino
trascurato
Il tessuto delicato del verso è elegantemente accolto in una pubblicazione dal gusto raffinato, com’è consuetudine del Pulcinoelefante che ne è l’editore: una plaquette che Victoria mi offre, accompagnata da parole d’amicizia che le ricambio con grande affetto, prima di ripartire per Houston.
Alla mostra Fantastico Novecento (Arona, Villa Ponti, 26 luglio - 2 novembre: quando uscirà questo numero di EOS sarà purtroppo già terminata) ci vado con Pinuccia Balza, la mia interlocutrice privilegiata in materia d’arte.
La sa lunga sull’arte, Pinuccia. Molto lunga. E la ama. Sembrano carezze gli sguardi con cui percorre tele e bronzi con occhi carichi di sentimento, così lontani dalla connotazione rigorosa, severa, scientifica, asettica del suo lavoro: cellule staminali, DNA...
Ad Arona, in un pomeriggio che più luminoso non potrebbe essere, ci accoglie un’amica, Pierangela Barcellini.
Io so che l’impegno di Pierangela nell’allestimento di questa esposizione - come, peraltro, in tutte le attività culturali di Villa Ponti - va ben oltre il suo ruolo di responsabile delle pubbliche relazioni. Ma non se ne può parlare, lei non te lo permette: l’understatement è il suo credo, il suo stile di vita.
Curato da Manuela Boscolo e Carlo Occhipinti, il viaggio attraverso questo novecento davvero fantastico è straordinariamente emozionante. Cento opere tra dipinti e sculture, provenienti da collezioni private piemontesi e lombarde, un’antologia delle correnti artistiche degli ultimi cent’anni che si snoda percorrendo il cubismo, l’astratto e l’informale, il surrealismo, l’espressionismo tedesco, la pittura metafisica, la pop art, il nuovo realismo rappresentati dai grandi protagonisti dell’arte del XX secolo quali - l’elenco è largamente incompleto - Picasso, Braque, Klee, Kandinsky; e poi Burri, Fontana, Hartung, Vasarely; e Dalì e De Chirico e Magritte; Mirò, Savinio, Chagall; e ancora, Morandi, Grosz, Kokoschka; e Modigliani, Munch, Schiele, Utrillo, Matta, Picabia, Ray, Wharol. Mostra nella mostra - occupa ben tre delle otto sale - l’Omaggio a Felice Casorati a centovent’anni dalla nascita e quaranta dalla morte raccoglie 44 opere fra dipinti ed incisioni, sculture e disegni, del grande artista novarese, uno dei più rappresentativi del novecento italiano. Contenitore prezioso di questa eccezionale esposizione è Villa Ponti, che mi accoglie con il suo garbo settecentesco e contribuisce, con il calore di Pierangela e la grazia di Pinuccia, a completare il fascino di questa giornata generosa di cultura e di sole.
Chiyojo (1703-1775) occupa un posto di speciale rilievo nella storia dello haiku, forma poetica della tradizione giapponese che consta di tre versi, rispettivamente di cinque, sette, cinque sillabe. Nella raccolta CENTO HAIKU (a cura di I. Iarocci, con presentazione di A. Zanzotto. Guanda, 1997) se ne trovano quattro. Uno di questi, composto in occasione della morte del figlioletto, dice così:
Mio piccolo cacciatore di libellule,
oggi
chissà fin dove ti sei spinto...
Non riescono ad uscirmi dalla testa, questi tre versi: e suggeriscono pensieri a non finire. Pensieri nei quali probabilmente Chiyojo non si riconoscerebbe, pensieri che non vogliono certamente tentare una pur modestissima esegesi - nell’ottica giapponese od in quella occidentale - od anche solo proporre un commento: per nessuna delle due cose ho titolo alcuno. Pensieri in libertà, invece: libere associazioni, chiacchiere - com’è nello stile del CAFFÈ DELLE MUSE - stimolate dalla lettura.
La caccia. Un’attività virile, maschia: anche se alla portata di un bambino possono solo trovarsi delicate libellule. E perché vi si dedica un piccolo giapponese? Vorrà forse emulare il padre, ardimentoso cacciatore di tigri e di draghi, almeno nella mitologia domestica? Emularlo per conquistare l’amore della madre? Non l’amore tenero che già possiede (Mio piccolo...), ma quello che lei riserva al forte, intrepido padre: la cittadinanza giapponese è forse negata a Freud, a Edipo?
Ma ecco la morte. Si è inoltrato, il cacciatore di libellule, nel luogo del mistero (...chissà fin dove...), là dove nemmeno l’eroe senza paura, il prode che non teme il drago, che non teme la tigre, ha osato affacciarsi. In quel chissà fin dove ti sei spinto si avverte più la stupita ammirazione per il coraggio di un valoroso - che in quel luogo, infatti, non viene condotto: vi si spinge - che non la tenerezza suscitata dall’indifesa fragilità di un bambino.
L’uomo che s’impone all’ammirazione di una donna - per sapienza, o talento, o coraggio - è già molto vicino a conquistarne l’amore: ma il prezzo della conquista, per il piccolo cacciatore, è la morte.
L’amore attraverso la morte. Nello haiku di Chiyojo, come negli strati più profondi, inconsci, dell’animo umano, amore e morte vanno insieme: tanto che il mito greco li vuole fratelli, Eros e Thanatos.
Ma l’amore è fonte di vita, non di morte. Cosa unisce dunque tra loro questi contrari?
Per milioni di anni la vita si è perpetuata in modo asessuato, ed ancora molte specie viventi si riproducono così. Quando una cellula - batterica per esempio - si scinde in due nuove cellule, si dice che essa muoia. Ma si tratta di una pura convenzione: dov’è infatti il suo cadavere? La materia di cui si costituiva non giace inerte, sfatta: essa si versa per intero nelle cellule cosiddette figlie, nelle figlie di queste e così via, senza che si vedano mai spoglie mortali. La morte è solo un accidente per l’organismo asessuato. Avviene per troppo freddo, per troppo caldo, per troppa secchezza o troppa umidità; o perché schiacciato, bruciato, divorato; od ancora perché, responsabile della mia tonsillite, s’imbatte nelle molecole di penicillina che ho assunto per combatterlo.
Nella riproduzione per mezzo del sesso non tutta la materia del genitore scorre in quella del figlio: ne passa solo una piccola parte, il materiale genetico del quale lui è soltanto teca, custodia. E per far ciò deve mescolarsi con quello di un altro individuo, complementare. Dopo avere adempiuto a questa funzione una, due, venti volte, quell’involucro - il corpo: dell’uno e dell’altro, del padre e della madre - va inevitabilmente incontro al decesso. Muore.
Nella riproduzione asessuata la morte, quella vera, quella con cadavere, è dunque un incidente, un evento fortuito, non il naturale approdo del vivere. Ma l’essere che si riproduce per via sessuale - ossia che conosce l’amore! - porta la morte dentro di sè, come necessità, come destino. La morte irrompe, nella storia della vita, nel momento stesso in cui vi appare l’amore.
È forse proprio questa inconscia consapevolezza - si chiuda un occhio sull’ossimoro spericolato - il legame sotterraneo che unisce la poetessa del lontano settecento, del lontano Giappone, al suo lettore europeo del secolo ventunesimo: consapevolezza che entrambi ritrovano, chissà!, nella loro memoria cellulare.
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