Anno 2 - N. 6 / 2003


STORIA DELLA MEDICINA

IL “PADRE DELLA MEDICINA”

La rivoluzione ippocratica vita brevis, ars longa

di Francesco Piscitello



Il primo aforisma nel testo ionico e nella versione latina di Nicolò Leoniceno (1433-1499): raccolta curata da Francesco Rabelais e pubblicata a Lione nel 1543


Dio del sole, della musica, delle arti, della poesia, protettore dei marinai e dei viandanti, Apollo fu anche la principale divinità medica dell’Ellade: a lui è rivolta infatti la prima delle invocazioni del giuramento di Ippocrate.
Secondo il mito delfico, Coronide, sposa di Apollo, aveva tradito il consorte divino con uno straniero. Uccisa dal dio e già sul rogo in procinto di venire arsa, dal suo ventre gravido venne estratto, per mano dello stesso Apollo che non voleva perdere il figlio, il piccolo Asclepio, futuro principe di Tessaglia.
Asclepio era dotato di grandi capacità guaritrici che aveva appreso dal centauro Chirone ed alla sua morte i figli - Podalirio e Macaone, chirurghi al pari del padre tra le fila greche nella guerra di Troia (1) - divennero, secondo l’usanza, sacerdoti del culto famigliare dell’illustre defunto, la cui fama taumaturgica gli sopravvisse e si estese: il suo culto raggiunse Epidauro, Paro, Rodi, Coo e Pergamo, in Asia Minore. Fu venerato anche in Roma con il nome latinizzato di Esculapio.
La medicina greca dei primordi ebbe carattere sacrale. Non è da stupirsi dunque se gli asclepiadi, ossia i discendenti del monarca tessalo, siano divenuti depositari del diritto di esercitare l’arte sanitaria in quanto detentori di un sapere medico che risaliva all’antenato ormai divinizzato: sapere che poteva venire trasmesso solo ai membri della famiglia, con rigorosa esclusione degli estranei.
Il culto di Asclepio fu introdotto a Coo dai tessali, probabilmente i primi abitanti dell’isola(2). Ippocrate vi nacque, nella famiglia degli asclepiadi, forse nell’anno dell’ottantesima olimpiade (3), corrispondente al 460 a.C.
Poco si conosce della sua vita. Sicuramente fu allievo del padre Eracleide. Probabilmente conobbe Democrito di Abdera e Gorgia di Lentini, dei quali ascoltò le lezioni filosofiche. Viaggiò molto: fu in Tessaglia, Tracia, Propontide e, secondo alcuni, in Egitto e in Libia.
La dottrina del “padre della medicina”, come fu chiamato, è raccolta nel Corpus Hippocraticum, un insieme di scritti non tutti sicuramente attribuibili al maestro di Coo (4).
Morì in tarda età: v’è chi dice a 104 anni!
Sulla sua tomba le api formarono un favo: quel miele guariva il mughetto dei bambini.

salute, malattia e pratica clinica
La concezione ippocratica della materia si fonda sulla dottrina dei quattro elementi - fuoco, aria, terra, acqua - ciascuno dei quali è provvisto di una speciale qualità: il caldo, il freddo, l’asciutto e l’umido. Nel corpo, questi elementi sono organizzati in “umori”: il sangue, proveniente dal cuore, che rappresenta l’aria, calda e umida; il flegma, che proviene dal cervello e rappresenta l’acqua, fredda e umida; la bile gialla, che proviene dal fegato e rappresenta il fuoco, caldo e secco; la bile nera, che proviene dalla milza e rappresenta la terra, fredda e secca. Il calore del sangue, che alimenta e mantiene la vita stessa, richiede un continuo apporto di pneuma che raggiunge il cuore attraverso la trachea o, secondo altri scritti, attraverso le arterie (5). Lo stato di salute dipende dall’equilibrio degli umori e la malattia dall’alterarsi di questo equilibrio, per eccesso o difetto di qualcuno di essi: ma poiché questi fluidi pervadono l’intero organismo, è l’intero organismo a soffrire quando l’equilibrio si altera. La visione ippocratica della malattia è dunque globale: è malato l’uomo intero e non qualcuna delle sue parti.
La malattia però si manifesta con sintomi, ed essi riguardano questa o quella parte del corpo. Ma, osserva Ippocrate, “quando uno di questi umori si isola e cessa di obbedire alla legge generale, non solo il luogo che esso abbandona ammala, ma anche quello dove si espande è sede di dolore e sofferenze. L’eccessiva evacuazione di umori dal corpo provoca un malessere; se invece essa avviene all’interno, questa metastasi o separazione da altri umori causa una doppia sofferenza, cioè tanto nel luogo evacuato dagli umori quanto in quello ove questi si concentrano (6)”.
L’esame del malato, al fine di individuare i segni di malattia utili alla diagnosi, dev’essere accuratissimo. Innanzitutto è bene che avvenga al mattino, quando l’animo si trova nello stato di maggiore tranquillità. Il medico esaminerà attentamente il corpo dell’infermo, ne misurerà la temperatura appoggiandogli una mano sul petto, osserverà la posizione che egli assume nel letto (letto è klìnê, in greco: di qui, la clinica, medicina pratica al letto del paziente), appoggerà l’orecchio al torace per ascoltare il suono del respiro (viene descritto persino un rumore simile a quello derivante dal soffregamento di una correggia di pelle(7), che ancor oggi la semeiotica fisica chiama “sfregamento pleurico”); s’informerà sulle sue evacuazioni, ne guarderà l’urina.
La guarigione, quando avviene, è opera di una vis medicatrix che la natura possiede: compito del medico è favorirla od almeno assecondarla, talora somministrando rimedi che abitualmente provocano sintomi simili a quelli manifestati dal paziente. Non si deve tuttavia attribuire ad Ippocrate, come queste osservazioni indurrebbero a credere, un’intenzione omeopatica che egli non ha mai avuto. Nella seconda sezione degli “Aforismi” il XXII, di chiara connotazione allopatica, dice testualmente: Quicumque morbi ex repletione fiunt, curat evacuatio. Et quicumque ex evacuatione, repletio. Et aliorum contrarietas. “Qualunque morbo provenga da pletora è curato dall’evacuazione. E qualunque malattia provenga da evacuazione è curata dalla ripienezza. E le altre, dalle cose contrarie (8)”.
La natura viene aiutata in vari modi: con prescrizioni dietetiche, esercizi fisici, massaggi, bagni. Il salasso è talora praticato, ma raramente. Come purganti vengono impiegati il latte in grandi quantità, i semi di ricino, la coloquintide, l’elleboro nero; come astringenti, la radice di melograno e la corteccia di quercia; come diuretici, il sedano ed il prezzemolo; come narcotici, il giusquiamo e l’oppio.
La chirurgia è ampiamente trattata nel Corpus Hippocraticum, dalla cura delle emorroidi con la cauterizzazione ed anche con l’escissione alla trapanazione del cranio, dal trattamento delle fratture a quello delle lussazioni. Scarse e poco chiare, invece, le descrizioni degli eventi ginecologici ed ostetrici e del tutto assente qualsiasi riferimento al taglio cesareo nonostante Ippocrate stesso, un asclepiade, discendesse da un antenato che proprio in quel modo era stato tratto alla luce.
La prognosi, impegnativo banco di prova dell’esperienza clinica, è tenuta in gran conto dalla scuola di Coo che le attribuisce grande importanza. A questo argomento vengono dedicati due libri, nei quali i segni fausti e quelli infausti vengono accuratamente descritti ed alcuni di essi, come la cosiddetta “facies hippocratica” (un pallore terreo e teso del volto che accompagna alcune gravissime situazioni patologiche acute) conservano intero il loro valore.

il giuramento di ippocrate
Il Corpus comprende, accanto ad opere dal contenuto strettamente clinico quali i famosi “Aforismi”, anche opere di carattere etico (“Del decoro”; “Precetti”; “Il Medico”) alle quali si collega il celebre giuramento:
Per Apollo medico e per Asclepio, per Igea e Panacea e per gli dei tutti e le dee che chiamo a testimoni io giuro che, secondo le mie forze ed il mio giudizio, manterrò questa promessa e questo impegno scritto.
Stimerò il mio maestro come un padre, vivrò con lui e lo soccorrerò nei suoi bisogni; terrò i suoi figli come fratelli ed insegnerò loro l’arte se essi vorranno apprenderla. Renderò partecipi dei precetti e degli insegnamenti i miei figli, i figli del mio maestro e chiunque sia legato da un contratto e si consideri vincolato dal giuramento del medico: ma nessun altro.
Regolerò la mia vita per il bene dei malati secondo il mio giudizio e la mia forza e non recherò offesa o danno ad alcuno.
Non somministrerò farmaco mortale neppure se richiesto, nè darò mai tale consiglio. Parimenti non prescriverò mai a donna alcuna rimedio abortivo.
Custodirò con innocenza e purezza la mia vita e la mia arte.
Non eseguirò l’operazione della pietra, ma la lascerò praticare agli esperti di questa materia.
In qualunque casa io entri, lo farò per sollievo del malato, mi asterrò da ogni offesa o danno volontario e non avrò rapporto carnale con donne od uomini, liberi o schiavi.
Manterrò il silenzio su quanto vedrò o udrò durante l¹esercizio della mia arte ed anche, al di fuori di ciò, su quanto riguarda la vita delle persone: lo terrò invece segreto come cosa che non dev’essere divulgata.
Se terrò fede a questo giuramento, mi sia concesso di godere della mia vita e della mia arte e possa essere per sempre onorato fra gli uomini: il contrario accada invece se io lo violi e spergiuri.
Accanto alle norme che regolano i rapporti con il maestro e l’apprendimento dell’arte medica il giuramento affronta tre ordini di questioni: quelle relative alla persona del medico ed alla sua morale personale; quelle che riguardano il suo comportamento professionale e quelle attinenti alla riservatezza.
Le norme relative alla morale (aver cura della dignità della vita e dell’arte, astenersi da rapporti sessuali con persone legate al paziente) sono rivolte, con tutta evidenza, a tutelare la rispettabilità della sua persona: il medico deve ispirare fiducia non soltanto per la sua sapienza ma anche per l’integrità della sua vita.
Per quanto concerne la pratica professionale, il giuramento contiene delle precise interdizioni. Quella di non eseguire l’”operazione della pietra”, ossia l’asportazione dei calcoli dalle vie urinarie, ha evidentemente perduto ogni significato (se non quello di una sineddoche che invita ad una prudente astensione da ciò che non si sa fare). Mantiene invece, parzialmente, la sua attualità il divieto di praticare l’interruzione di gravidanza: anche nei paesi dove oggi questa pratica è consentita, la legge contempla comunque il diritto all’obiezione di coscienza e lo stesso codice deontologico va in quella direzione.
Gode invece di inalterata attualità l’interdetto nei confronti degli atti o dei consigli volti a provocare la morte. Questo divieto non può venire interpretato, tuttavia, come una ippocratica giustificazione dell’accanimento terapeutico, che rientra in una fattispecie assai differente: è invece riferibile appieno - e la cultura deontologica del mondo occidentale accoglie senza esitazioni questo concetto - alla partecipazione del medico, sotto qualunque forma, alle esecuzioni capitali, così come l’impegno a non recare danno ad alcuno include la partecipazione, con atti o con pareri, a pratiche come la tortura (tornata tristemente in auge, o forse mai scomparsa, in molte parti del nostro pianeta) anche se ammessa o tollerata dall’autorità.
L’ultima questione infine, l’impegno al silenzio su ciò che vedrà o udrà durante l’esercizio della professione, rappresenta la prima menzione storica dell’obbligo del medico al segreto professionale, esplicitamente previsto come condizione legata alla pratica sanitaria.

il magistero ippocratico
L¹autorità e il prestigio del “padre della medicina” si estese ben oltre la sua era, permeando di sé il pensiero e la prassi dell’antichità greco-romana, del medioevo, del rinascimento fino agli inizi dell’era moderna. Ancora nel 1799 una celebre prolusione di Giovanni Rasori alla facoltà medica di Pavia, nella quale il clinico parmense criticava fortemente il maestro di Coo (9), suscitò un vero e proprio scandalo nel mondo accademico: e non soltanto per la lesa maestà morale, ma anche per ragioni strettamente scientifiche. È vero che il Rasori, carattere impetuoso quant’altri mai, era stato particolarmente violento nella sua invettiva. Ma la punizione - a testimonianza del perdurante prestigio della figura e dell’opera di Ippocrate - fu severissima: il professore perse la cattedra.
Ippocrate occupa un posto di primissimo piano nella storia dell’arte sanitaria: a lui più che ad ogni altro si deve un cambiamento nella medicina che, con termine oggi di moda, possiamo definire epocale. Questo cambiamento contempla tre aspetti che, io credo, sono strettamente legati l’uno all’altro.
Innanzitutto, nella concezione ippocratica, la malattia è un evento svincolato dall¹intervento divino: si tratta di un fatto appartenente alla sfera dei fenomeni naturali, legato ad alterazioni del normale funzionamento del corpo, osservabile e studiabile da parte dell’uomo che può arrivare a comprenderne i meccanismi ed escogitare rimedi. Certo è che, nel quinto secolo prima di Cristo, gli strumenti materiali a disposizione (ed anche quelli mentali, metodologici: Galileo e Cartesio erano di là da venire) sono modesti e dunque gli errori sono possibili ed anche frequenti. È perciò errato formulare giudizi, come fa il Rasori, sulla base della coincidenza o meno di affermazioni diagnostiche, prognostiche o terapeutiche con quelle fattibili nel tempo attuale od anche nello stesso secolo XVIII. Non nella correttezza scientifica delle sue asserzioni si deve identificare il merito di Ippocrate, ma nell’aver portato - od avervi fortemente contribuito - la medicina dalla sfera delle cose divine a quella delle cose naturali.
Ma una scienza naturale aperta alla ricerca (che conoscerà un grande splendore nell’imminente epoca alessandrina) non è compatibile con il carattere sacerdotale adatto ad una medicina religiosa, teurgica: deve aprirsi all’apporto di studiosi dalla mentalità laica e raziocinante. Da ieratica deve farsi demotica.
Diviene necessario allora un grande cambiamento anche nella formazione del medico. L’accesso all’arte non dev’essere riservato solamente a chi ne è legittimato dalla sua condizione di accolito di una casta sacerdotale: dev’essere esteso anche a chi, per la sua provenienza dal mondo secolare, provi, nei confronti del maestro, il rispetto dovuto alla sua autorevolezza ma non la soggezione ispirata da un ruolo sacrale.
Se l’appartenenza al mondo religioso - all’interno del quale vige una forte tradizione ed un insieme severo di regole - costituisce di per sé un’accettabile garanzia morale, l’apertura dell’esercizio della medicina al mondo laico esige una particolare attenzione a tutelarne gli aspetti etici: ed ecco perché, in questo contesto culturale, prendono corpo norme di comportamento professionale, morale, umano che l’aspirante alla professione medica s’impegna a rispettare con giuramento solenne.
Ad un sapere divenuto - pur secondo i modi e le possibilità dell’epoca - scientifico, non basta più l’apprendimento dalla voce del padre, maestro e sacerdote; non basta più lo studio dei testi sacri; non basta più la fede nell’intervento divino. Occorre l’osservazione umile e attenta del malato e dei segni di malattia di cui è portatore, occorre accumulare esperienza. Ed occorre anche, su queste cose, riflettere, pensare, ragionare: observatio et ratio. Ma la vita, ahimè, è breve.
E l’arte lunga.


GLI AFORISMI
Accanto a numerose affermazioni oscure, a prescrizioni fantasiose, ad annotazioni incomprensibili (ma non si può non tener conto dell’epoca in cui furono scritti) che hanno suscitato l’invettiva furente del Rasori, gli Aforismi - una raccolta di sentenze sulla patologia, la clinica, la prognosi, la terapia - contengono osservazioni di acume stupefacente ed ancora perfettamente valide. È noto per esempio che, per ragioni ormonali, la gotta è caratteristica degli adulti di sesso maschile: ne sono pressoché esclusi gli affetti da eunucoidismo, le donne prima della menopausa ed i ragazzi prima della pubertà. E negli Aforismi si dice:
Eunuchi neque podagra laborant, neque calvi sunt (1): gli eunuchi non soffrono di gotta né divengono calvi.
Mulier podagra non laborat, nisi menstrua defecerint (2): la donna non soffre di gotta se non sono cessate le mestruazioni.
Puer podagra non laborat ante usum venereorum (3): il fanciullo non soffre di gotta prima (che sia in grado) di accedere al sesso.
Si noti l’osservazione che gli eunuchi, oltre a non soffrire di gotta, non divengono calvi: anche questo è verissimo.

(1) Afor. 32, sez. 7, in APHORISMORUM HIPPOCRATIS SECTIONES SEPTEM
(apud Seb.Gryphium - Lugduni, 1543)
(2) Afor. 33, sez. 7, ibid.
(3) Afor. 34, sez. 7, ibid.


IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE: UN “ESCAMOTAGE” GIURIDICO?
Il giuramento viene comunemente considerato come una formula di impegno, una promessa solenne di carattere deontologico che il medico era tenuto a compiere all’atto del suo ingresso nella professione. Ma ad una lettura attenta non sfuggirà il fatto che se il capoverso 1 costituisce un’introduzione ed il 9 un auspicio, le norme di carattere strettamente etico sono esposte soltanto nei capoversi 3, 4, 5, 6, 7, 8. Il capoverso 2 contiene invece un impegno che non si riferisce ai rapporti con il paziente bensì con il maestro e con gli allievi: a quest’ultimo molti autori, e tra essi il Pazzini (1), attribuiscono un significato del tutto particolare.
Innanzitutto, osserva il Pazzini, non ha senso che un medico provi, nei confronti dell¹antico maestro, se non un senso di gratitudine e di devozione, ma è assurdo che s’impegni a provvedere ai suoi bisogni materiali e addirittura a vivere con lui; ed altrettanto poco senso ha l’impegnarsi ad insegnare gratuitamente l’arte ai suoi figli. Per di più questo impegno è scritto, quasi si trattasse di un contratto legale e non di una formula rituale, per quanto solenne e di carattere iniziatico.
Ma Pazzini e quanti ne condividono il pensiero suggeriscono proprio questo: che si tratti davvero di un documento legale.
La medicina greca aveva avuto fino ad allora un carattere sacrale; il suo esercizio era interdetto agli estranei ad una stirpe che vi era legittimata dalla sua ascendenza, come quella degli Asclepiadi cui Ippocrate apparteneva; il sapere - segreto - poteva venire trasmesso solo all’interno della famiglia.
Tuttavia, proprio nel V secolo a.C., la medicina cominciò ad affrancarsi dal suo carattere sacerdotale per divenire francamente laica. Eventi rivoluzionari come questo non si verificano però senza difficoltà: ed è in questo processo di non facile trasformazione che la lettura che del giuramento fa il Pazzini può trovare un importante significato.
La norma religiosa del culto asclepiadeo proibisce l’insegnamento della medicina a chiunque non appartenga alla famiglia. Ma nella famiglia è tuttavia possibile entrare attraverso l’istituto dell’adozione, esplicitamente contemplato dal diritto greco. Ecco dunque il significato del giuramento, almeno per quel che concerne il secondo capoverso: un impegno a provvedere agli eventuali bisogni materiali del maestro, divenuto ormai legalmente assimilabile ad un padre carnale; un impegno a considerare i suoi figli come fratelli perché tali sono diventati; un impegno a non comunicare il sapere medico - un segreto di famiglia - se non a coloro che si vincolino alla stessa formale promessa, legata alla loro adozione. E l’impegno è scritto, come si conviene ad un atto legale. Un atto legale volto, se non a vincere completamente, almeno ad attenuare le resistenze della tradizione nei confronti di un cambiamento verso il quale spingeva l’evolversi dei tempi.
Sia o non sia questa la lettura più attendibile del giuramento, rimane il fatto che le norme etiche che vi sono contenute e l’atmosfera morale ed umana che lo pervade conservano un valore che non ha perduto d’attualità duemilacinquecento anni dopo la sua stesura.

(1) A. Pazzini: storia dell’arte sanitaria
(Minerva Medica -Torino,1974)



GIOVANNI RASORI
E “IL PRETESO GENIO D’IPPOCRATE”
“S’egli è padre di qualche cosa in medicina, lo è di tutti gli errori ch’egli ha seminato il primo, e che hanno robustamente vegetato per tanti secoli; lo è per quella cieca deferenza superstiziosa all’antichità, per cui in medicina si giurò sulla parola del maestro, e si ritardò di secoli il progresso della scienza; lo è di tante inezie uscite dalle teste de’ suoi commentatori; lo è di tante dispute di parole e d’interpretazioni, in cui si sono perduti gl’ingegni de’ suoi seguaci”.

Giovanni Rasori: “Analisi del preteso genio d¹Ippocrate”
Prolusione accademica per l’anno 1799 alla facoltà medica dell’Università di Pavia (1)
G. Rasori: OPERE (Tipografia della Speranza - Firenze, 1837)


Asclepio medica un braccio ferito
(tavoletta votiva)
Atene, Museo Nazionale
Codice bizantino
Nel medioevo al giuramento di Ippocrate fu attribuita una valenza cristiana, come in questo codice dove il testo è scritto a forma di croce.
Apollo estrae Asclepio dal ventre di Coronide morta. (silografia, XVII sec.)
Ippocrate in un erbario del sec. XIV.