Anno 2 - N. 6 / 2003


LA RINASCITA ISLAMICA

Il fondamentalismo islamico è in realtà solo un aspetto, la punta dell’iceberg di un fenomeno molto complesso e variegato

di Emanuela Scarpellini



Ritratto del Sultano Solimano I detto "Il Magnifico" (1494-1566) - ritratto attribuito a Tiziano (Tiziano Vecellio) - Vienna, Kunsthistorisches Museum.


A due anni dai tragici fatti dell’11 settembre 2001 molte cose sono cambiate negli equilibri internazionali e nelle prospettive per il futuro. Fino ad allora molti osservatori ritenevano che l’avvenire sarebbe stato dominato dalla globalizzazione mondiale, che sembrava ormai avere unificato i mercati finanziari, ridistribuito il fattore del lavoro fra le nazioni, diffuso gusti e tendenze culturali simili, reso omogenee le pratiche sociali. Usi e costumi locali sarebbero sopravvissuti, certo, ma più come differenze superficiali e di “colore” che come devianze strutturali rispetto a un modello dominante.
Successivamente la prospettiva sembrò capovolgersi radicalmente: i fautori di un mondo unificato e di un “governo globale” (magari sotto l’egida di organismi come le Nazioni Unite) si assottigliarono e si fecero avanti invece i sostenitori di uno scontro tra le civiltà. Il best seller del politologo americano Samuel P. Huntington condensò brillantemente tale mutamento di rotta, asserendo che con la fine della guerra fredda il confronto si era spostato sul terreno politico-culturale, e avrebbe visto contrapporsi le principali civiltà contemporanee (occidentale, islamica, confuciana, giapponese, indù, slavo-ortodossa, latino-americana, africana). Drammatici conflitti si sarebbero innescati sui punti caldi di contatto fra di esse (le “faglie”), causati soprattutto dalla contrapposizione allo strapotere occidentale. E fra i protagonisti di tale reazione in primo piano si sarebbe posto il mondo islamico.
È giustificata una simile teoria? Siamo davvero alle soglie di un inevitabile confronto globale, in particolare fra occidente e oriente? Lo sviluppo dei movimenti fondamentalisti, il ripetersi di atti di terrorismo in varie parti del mondo, il crescente numero di conflitti in Asia e Africa che vedono coinvolti paesi o gruppi musulmani sembrano in effetti segnali allarmanti.
Tuttavia, per comprendere appieno i termini del discorso, è necessario considerare il contesto generale. Il fondamentalismo islamico, che tanto ha fatto drammaticamente parlare di sé, è in realtà solo un aspetto, la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più complesso e variegato.
Negli ultimi trent’anni si è infatti sviluppato un grande movimento che, a partire dai paesi arabi, ha coinvolto tutto il mondo musulmano: la Rinascita islamica. Esso mira in sostanza, nelle sue varie declinazioni, a riscattare l’antica civiltà, o meglio la comunità dei credenti (Ummah), dalla decadenza in cui è precipitata dopo il crollo dell’impero ottomano sotto il giogo dei colonizzatori europei; una civiltà che in un lontano passato aveva mosso alla conquista del mondo, con non pochi successi. Questa ondata soprannazionale (che ha avuto importanti teorici, come l’egiziano Sayyd Qutb, ispiratore dei Fratelli musulmani, o l’ayatollah Khomeini) ha trovato negli intellettuali e nei giovani studenti (il cui numero è esploso per via di un formidabile boom demografico) degli agenti infaticabili. Portando una nuova identità e la speranza di un riscatto, e veicolata da una religione che non ammette separazione tra stato e chiesa, essa ha spinto grandi masse di fedeli a un’adesione totale a precetti e comportamenti sociali spesso molto rigidi.
Le tappe di questo movimento, che rappresenta forse uno degli avvenimenti di maggiore portata della fine del XX secolo, sono presto dette. La prima è costituita da uno dei vari episodi del conflitto arabo-israeliano, la guerra del Kippur del 1973, a seguito della quale per la prima volta il petrolio viene utilizzato come arma e mezzo di pressione nei confronti dell’Occidente. L’Arabia Saudita assurge al ruolo di prima potenza islamica, diffondendo la sua rigida dottrina wahhabita grazie alle straordinarie ricchezze accumulate.
La seconda tappa è la realizzazione di un sogno: la nascita del primo stato islamico, grazie alla rivoluzione iraniana del 1979. Seppure posta in atto da sciiti (e non dai sunniti, come la maggioranza dei credenti), essa segna una data fondamentale, perché addita a tutti i credenti la possibilità di dare vita a una moderna teocrazia che adotti la sharia, cioè l’apparato di leggi derivate direttamente dai testi sacri dell’Islam, come norma dello stato. L’impatto è enorme: mentre i martiri di Khomeini si immolano nella guerra contro l’Iraq, il movimento si diffonde in Libano (Hezbollah), in Palestina (Hamas) ed elettrizza le comunità musulmane da tempo insediate in Europa (Europa che alcuni anni più tardi assisterà perplessa alla fatwa lanciata contro Salman Rushdie per il suo libro considerato sacrilego).
La terza tappa ci porta nello scenario di un Afghanistan invaso dall’Armata Rossa, dove è stata dichiarata la jihad, guerra santa, alla quale partecipano fedeli provenienti da molti paesi (fra cui Bin Laden) a fianco degli allievi delle scuole religiose pakistane, i talebani. La ritirata dell’esercito sovietico nel 1989 è festeggiata come una grande vittoria dagli jihadisti islamici, che porteranno poi la loro esperienza in altri teatri: in Algeria, dove la crescita del partito islamico si trasforma presto in una sanguinosa guerra civile; in Egitto, dove si moltiplicano gli attentati a turisti e oppositori interni; in Bosnia, enclave islamica in Europa coinvolta nelle guerre balcaniche degli anni ’90 e poi ancora in Cecenia e Tagikistan, sulle ceneri dell’impero sovietico, e in Africa, in Sudan e Nigeria. Senza parlare del rapido processo di islamizzazione avvenuto nel sud-est asiatico, in particolare in Indonesia, il paese con la maggiore popolazione musulmana del mondo.
I successi ottenuti hanno favorito il movimento islamico ovunque e in tutte le sue forme. È significativo il fenomeno di reislamizzazione a cui si assiste in molti paesi europei, dove alla generazione dei padri ormai integrata, o parzialmente integrata, nelle società occidentali, è seguita una seconda generazione di giovani molto più sensibili ai valori islamici, anche nei comportamenti esteriori quotidiani (che hanno comportato ad esempio il ritorno al velo per le donne e a un atteggiamento molto rispettoso per la religione negli uomini). Limitare questo ampio movimento alla sua espressione più estremista e violenta è certo riduttivo e sostanzialmente scorretto.
Resta il problema dal quale eravamo partiti: può tutto ciò portare a uno scontro globalizzato? L’esperienza storica non autorizza facili risposte (né negative né purtroppo, positive). Tuttavia ci mostra che seppure il confronto tra diverse civiltà possa talvolta rivelarsi drammatico, la strada non è segnata aprioristicamente. Le civiltà infatti non sono monoliti che si fronteggiano l’un l’altra senza possibilità di contatto; non si tratta di muro contro muro. La loro forza risiede invece nella capacità di crescere e svilupparsi entrando in contatto con altre forme sociali e culturali. Nel mondo odierno, salvo forse che per minuscoli gruppi umani, si può parlare in effetti di forme ibride cioè di civilizzazioni che si evolvono tramite un continuo interscambio (si pensi solo agli effetti delle moderne comunicazioni di massa, alla televisione o a Internet). L’immagine di rigide e chiuse civiltà contrapposte è perciò fuorviante, perché non tiene conto della capacità di mutazione e adattamento.
In questo capacità di evolvere, che è tipica di ogni forma di vita, riponiamo le nostre speranze.