Anno 2 - N. 6 / 2003
IL PONTE: UNO SGUARDO ALL’INTORNO
“Come una strada fatta sopra dell’acqua… luogo al quale da tutte le parti facilmente si possa andare, cioè che sia nel mezo della Provincia, overo nel mezo della città”
Massima integrazione di funzioni e di paesaggio naturale-artificiale (e il condur l’acqua è il suggello della natura che compenetra l’architettura)
di Daniele Garnerone
Il ponte di Rialto (1740 ca.) Michele Marieschi - San Pietroburgo, Hermitage
“Tu miri i folti boschi delle Alpi onde in vari giri discende e verso il Po si affretta il Ticino che dolcemente ne lambe le mura, e le due rive congiunte da stupendo ponte marmoreo col rapido moto dei flutti suoi rallegra a avviva; limpido e celere in modo meraviglioso perocché quasi stanco da lungo corso e trattenuto dalla vicinanza di un fiume tanto maggiore esso qui arriva e molto della nativa limpidezza debba avere a lui tolto l’unione di tante acque che riceve per via” (1).
“C’è un certo esercizio di estetica nella progettazione di un ponte [...] che comporta per un ingegnere una particolare sensibilità architettonica soprattutto immaginando la forma di un ponte come un importante punto di riferimento nella città [...]” (2).
Ho voluto iniziare con due citazioni, l’una di Petrarca, l’altra di Santiago Calatrava, distanti sei secoli ma in realtà molto vicine nel riconoscere al ponte il ruolo di architettura maggiormente espressiva per la sua capacità di segnare fortemente il paesaggio e di incidere nella composizione dell’assetto urbano. Agente di connessione a scala territoriale che non di rado manifesta un forte senso di monumentalità soprattutto per il rapporto con il contesto, con lo spazio urbano o con l’ambiente naturale dal quale, del resto, discende una forte valenza simbolica per la comunità.
Risale al neolitico la volontà di costruire un manufatto per superare un ostacolo determinato dalla morfologia dei luoghi, al fine di consentire gli spostamenti sul territorio. E’ stata una costante dell’attività dell’uomo nell’incessante opera di trasformazione dello stato naturale, della costruzione dell’habitat umano (la patria artificiale descritta dal Cattaneo); deriva dal bisogno di comunicare che nel corso dei secoli si è manifestato attraverso una continua evoluzione, espressione della struttura sociale, dipendente dalla disponibilità dei materiali e dalla conoscenza delle tecniche costruttive. Due sponde di un fiume sono identiche per struttura e forma, identico suolo e medesima costituzione, semplicemente separate a volte da uno strapiombo, altre da un avvallamento più o meno incassato e scavato, eroso da un elemento diverso: il vento, anche, ma soprattutto l’acqua, sempre presente, modellatrice di forme in una opera incessante, quotidiana, come quella umana.
Etimologicamente il ponte rimanda al collegamento di due punti fra loro distanti, separati da una materia diversa, fors’anche da una assenza di materia. È il caso, val la pena sottolinearlo, di quella mancanza di terra e suolo che costituisce un limite, che obbliga ad un volo, ideale tramite per continuare il percorso tra due luoghi finiti altrimenti non raggiungibili. Sorvolare, dunque, con la medesima leggerezza di un volo di uccello, antico approccio dell’uomo dai tempi di Icaro, impossibile sogno da materializzare per forza con l’ausilio di strumenti altri che non siano quelli possibili alla forza naturale delle ali, delle leggere forme di un qualsiasi volatile.
Ossessione di ogni tempo nel tentativo di fondere la levitas, la gravitas e l’impetus, il ponte storicamente si presenta con una immagine di grande suggestione per la volontà di connessione che sottende, violando l’equilibrio naturale dello spazio, una intenzione che si afferma nei riti sciamanici, si concreta idealmente nel fenomeno meteorologico dell’arcobaleno, nelle evocazioni spirituali del cristianesimo e dell’islamismo, si materializza nelle immense gradonate che si elevano ai “monti cosmici” delle civiltà babilonese, egizia e maya.
L’idea del ponte reca in sé una complessità di significati diversi insiti nella sua natura di artificio, in un insieme concettuale molto ampio che coinvolge la natura dell’uomo e delle manifestazioni di cui è interprete a vari livelli nel definire l’assetto del territorio, passando metaforicamente attraverso la letteratura, la pittura, la psicanalisi. Ciò concorre a riconoscere al ponte una sua matrice ideologica che affonda le radici nel tessuto sociale sin dai tempi più antichi. Prodotto dell’ingegno umano che modifica uno stato naturale precedente, al di là dei risultati formali raggiunti il ponte ha fortemente condizionato l’immaginario collettivo nella dialettica dell’unione e della divisione di entità diverse, spazio diviso da condizioni naturali e da ancestrali rapporti umani.
Molte le leggende legate alla costruzione di ponti; in Italia vi sono almeno una cinquantina di “ponti del Diavolo” (3), la cui vicenda è tradizionalmente intessuta sulla rivalità tra santo e demonio e sulla contrapposizione tra il bene ed il male. Simili ataviche congiunture appartengono a quasi tutte le culture, sino a quelle primitive, in una alternanza di mito e letteratura, arte e folklore. Le narrazioni svolte attorno alla figura di un ponte hanno offerto occasioni dai tempi più antichi (Eschilo, I Persiani) ai giorni nostri (Eric Maria Remarque, Il ponte di Remagen, da cui è stato tratto un film, 1968), sino al cinema, dove il ponte è al centro della narrativa, luogo di forti e contrastate pulsioni (Il ponte sul fiume Kwai, 1957, tratto comunque da un libro). La sua natura di tramite di passaggio e di “annientamento” di un naturale o innaturale ostacolo sta fors’anche alla base dell’aurea nefasta ed a volte catastrofica acquisita in taluni casi, com’è in decine di film gialli, in quanto luogo di suicidio e di morte (4), sino al crollo ed al disastro, con toni epici (per celare le nefandezze umane, negli anni della guerra fredda, in Cassandra Crossing, 1976) (5).
Nelle rappresentazioni pittoriche della città medioevale si individuano riferimenti precisi della cultura urbana cui è partecipe il ponte; città delimitate da mura e morfologicamente finite hanno solo alle porte un collegamento, adattabile alle evenienze – il ponte levatoio – con il territorio circostante. L’idea strenuamente difensiva che esprime il ponte nell’organizzazione dello spazio medioevale tende nei secoli a mutare e nella cultura rinascimentale – della quale è interprete Palladio – il ponte è “come una strada fatta sopra dell’acqua… luogo al quale da tutte le parti facilmente si possa andare, cioè che sia nel mezo della Provincia, overo nel mezo della città” (6) .
Ruolo compositivo per antonomasia in pittura, dove il ponte assume valenza di forte centralità nel paesaggio naturale ed umano. Van Eick ed i fiamminghi lo impiegano per dare profondità al paesaggio fluviale; nella Tempesta Giorgione impone al centro della scena il ponte che costituisce il fulcro del paesaggio, protagonista assoluto tra antitesi simboliche e spaziali.
L’immagine del ponte è metafora per Kirchner (1880-1938) quando nel 1905 formula il programma della compatta comunità di artisti (7) riunita a Dresda sotto il nome Die Brücke (Il Ponte). La scelta del nome dichiara esplicitamente la volontà di collegamento tra le forze dell’avanguardia mitteleuropea nell’impegno anti-impressionista.
A volte il ponte assolve al compito di rafforzare le visioni prospettiche, passando attraverso linee oblique dal primo piano ai piani di fondo. Diffusa è l’immagine dei ponti ferroviari e stradali nei manifesti celebrativi degli itinerari turistici dei primi decenni del Novecento, dagli Chemins de Fer alle Rhatische Bahn.
Le risposte dettate dalle esigenze, storicamente influenzate se non determinate dalle ideologie, superano le connessioni tra città e territorio prendendo nuove forme originate dai modi d’uso dello spazio urbano, dalle relazioni sociali ai rapporti di produzione, controllati dalla cultura dominante. Si manifestano tipologie specializzate nei ponti abitati che travalicano i percorsi e offrono occasioni di stanzialità: l’Old London Bridge, del 1209 (sostituito dopo 600 anni dal New London Bridge), fu per molti secoli l’unico collegamento tra le sponde del Tamigi nel cuore della città e vi furono insediate attività commerciali, edifici per il culto e per abitazioni (8); l’Hotel-Dieu, il pont au Change ed il pont Notre Dame a l’Ile de la Cité sulla Senna (a Parigi sino al 1780 tutti i ponti erano sovrastati da case), il progetto del 1798 per Bristol o il Regent Bridge di Edimburgo, il sistema palazzo-percorso murato-fiume a Ponte Vecchio e Rialto in Italia. Bruno Zevi cita questi ultimi a confronto di una delle 100 opere indagate nei Linguaggi dell’architettura contemporanea: è il Museo-ponte di Maurizio Sacripanti a Maccagno, Varese. L’edificio, del 1991, testimonia (come altri lavori di Sacripanti) “…del piacere per la mutazione, l’invenzione continua, l’oscillazione tra razionalismo ed organicismo, l’incompiuto e la «creazione aperta». Un organismo vivo, disarticolato in una serie continua di percorsi che si integrano agli elementi naturali (acqua, aria, cielo, alberi) accogliendo nel progetto le valenze del sito, non come metaforica e retorica allusione, ma come reali materiali costruttivi dell’architettura” (9).
Ancora, dunque, l’integrazione dell’ambiente naturale nell’architettura. Altri esempi “storici” si leggono oggi (quando ciò è ancora possibile) per la loro integrazione con il paesaggio naturale e con l’ambiente urbano: Pont du Gard, Segovia, Spoleto. Controllo e governo del territorio si riverberano nei complessi fortificati di Castelvecchio a Verona – dimora e fortezza a guardia del ponte scaligero, 1354-57, completato nel 1375 col mastio – e di Valeggio sul Mincio, nei pressi del villaggio di Borghetto: il complesso della diga-ponte viscontea – detta ponte Rotto, del 1393 – doveva spingersi ben oltre i 600 metri realizzati e collegarsi con il castello scaligero. Ancora, Spoleto e il trecentesco Ponte delle Torri, del Gattapone (o Gattaponi), ponte e fortezza assieme, ma anche acquedotto elevato ad oltre 76 metri sul torrente Tessino. Di qua il boscoso Monte Luco, di là il Colle di Sant’Elia; l’acqua pura arrivava direttamente alla Rocca, lungo i 230 metri dell’impressionante manufatto, non solo per le colossali dimensioni, ma anche per la nuda severità del muraglione, aperto da dieci arcate ogivali. Massima integrazione di funzioni e di paesaggio e il condur l’acqua è il suggello della natura che compenetra l’architettura non solo in senso ambientale. Gli acquedotti sono in questo senso assai rappresentativi; su tutti prevale Pont du Gard: l’opera fu realizzata sul Gardon, Provenza, intorno al 19 a.C. per condurre le acque sorgive da Uzés a Nîmes. L’eccezionalità dello stato di conservazione è, qui più che altrove, esaltata dal rapporto con il fiume e con il vasto territorio boscato all’intorno. Ma, necessariamente, di Pont du Gard, di Segovia e di altri acquedotti tratterò prossimamente.
Nel mondo antico le fasi di espansione e colonizzazione, militare e civile, restituiscono esempi mai più ripetuti (il leggendario ponte sul Reno costruito in dieci giorni), o ripresi nella “solida fermezza” (i ponti rinascimentali ispirati a quelli dell’età romana). Altre volte è riproposto il modello architettonico più antico, l’unico che garantisca la tenuta alla forza distruttiva dell’acqua (il ponte di Bassano del Grappa, riproposto dopo quattro secoli di continue distruzioni sul modello disegnato da Palladio).
Fiume e ponte, storicamente legati da un rapporto di reciproca interdipendenza e vicinanza, diventano celebrativi nelle opere pubbliche di grand-travaux, zivilization ed urban-renewal.
Lo sviluppo industriale produce anche una ampia serie di tipi architettonici accomunati dalla necessità di collegare (noto il caso del Pont Transbordeur di Arnodin, costruito nel 1904 nel porto di Marsiglia, con una piattaforma mobile sospesa a carrello sull’acqua); passaggi aerei ed edifici sopraelevati, dighe e sbarramenti estendono la tipologia del ponte a strutture di servizio integrate con l’ingegneria idraulica: ponts-levants, ponti apribili, girevoli, ponti di barche, ponti-canale (il complesso di Saint-Florentin sul canale di Borgogna, 1810) e ponti multipli (il ponte a quattro diramazioni all’incrocio dei canali di Ardres e di Calais (10). Ma ben prima dell’avvio dei processi industriali, le città d’acqua vedevano risolti in modo originale i nodi del tessuto urbano strutturato da rii e canali; Comacchio rientra nell’orbita della Chiesa dopo il periodo veneziano e, con il XVII secolo, intensifica l’attività edilizia sulle tredici isole dell’originario arcipelago. L’identità del tessuto urbano si afferma anche per le singolari soluzioni adottate nella costruzione dei ponti a cavaliere della confluenza dei numerosi corsi d’acqua, cui presiede Luca Danesi, architetto pontificio ravennate particolarmente attivo nell’opera di ricostruzione della città, grazie anche alle specifiche attitudini alla soluzione dei problemi idraulici. Trepponti è il suo magistrale intervento del 1634, il ponte più celebre della città delle Valli e scenografica soluzione architettonica per raccordare cinque percorsi pedonali nel punto di confluenza di quattro canali, uno dei quali, il Canale Pallotta, è scavato nel medesimo periodo per collegare direttamente Comacchio al mare.
L’immagine urbana si arricchisce di tipi riconducibili al ponte, raggiungendo livelli di eccezionalità anche nell’applicazione all’architettura residenziale; grandi complessi edilizi si caratterizzano per la propria funzione “passante”, consentendo il transito anche a veicoli, con vere e proprie strade interne. Le connessioni spaziali ponte-città divengono citazioni esplicite nelle architetture costruttiviste che disegnano sistemi urbani come legamenti tra edifici, nel congiungimento di percorsi orizzontali e verticali; il ponte-città in linea di Levrov, il garage di Mel’nikov sulla Senna, i grattacieli orizzontali di El Lissitzky e le abitazioni collettive di Ginzburg. Le Courbusier “trasforma” la strada dei grandi complessi per Algeri, per Rio, per San Paolo in forme riconducibili al ponte, strutture a pontile secondo nuovi codici delle forme architettoniche, come quelle di Gregotti all’Università delle Calabrie o nel progetto dell’insediamento per 3200 abitanti a Cefalù, 1976. Karl Marx Hof, a Vienna, 1927, riassume emblematicamente questa applicazione all’architettura residenziale; l’eccezionale opera di Karl Ehn, simbolo della politica residenziale socialista, è una cittadella per 5000 abitanti nella città che si sviluppa per oltre un chilometro. Lo sfondamento della cortina su Heiligenstädterstrasse diventa occasione per una piazza-giardino dalla quale osservare la cadenza dei quattro enormi arconi che si aprono sulla facciata del corpo centrale, restituendo il senso della forza ed espressività con cui il superblocco aggredisce il tessuto urbano e da questo si isola, lo scavalca celebrando con il succedere delle torri il “trionfo” dello Hof dedicato al massimo teorico del movimento operaio.
Un momento fondamentale nel processo evolutivo della costruzione dei ponti corrisponde all’impiego dell’arco, ampiamente utilizzato dai Romani mediante l’uso della pozzolana come legante cementizio. Pur tuttavia, anche i ponti di Roma repubblicana erano di legno ed il primo attraversamento del Tevere è il Ponte Sublicio. Alla costruzione dei ponti sul Tevere presiedeva il Collegio dei pontefici, a capo del quale era il Pontifex Maximus. Pontifex, titolo poi attribuito agli imperatori, cioè pontem e facere, secondo Varrone, fare ponti, dove fare è un operare sacrale. Per Anita Seppilli (Sacralità delle acque e sacrilegio dei ponti) (11) il far ponti è legato al mito d’origine della divinità dell’acqua, fonte di purezza da un lato e porta degli inferi dall’altro. Consentire l’attraversamento delle acque con un percorso innaturale si carica di simbolismi magici e significati religiosi. Violare l’acqua con i piloni era sentita come una azione fortemente sacrilega, un atto di forte opposizione allo stato naturale. Natura versus cultura, una perenne sfida all’equilibrio, non di rado evoluta nel più dirompente dei crolli sotto la spinta tumultuosa delle acque (fra gli altri, il ponte Stirling, in Scozia, del 1400, andato in gran parte distrutto per la insufficienza delle strutture di fondazione nell’alveo).
La costruzione di ponti non fu perseguita identicamente dai popoli antichi, né fu ugualmente sentita la necessità di superare gli ostacoli naturali. In questo senso gli antichi Romani si distinsero per garantire i collegamenti sui vasti territori dell’impero. Tra il IV ed il IX secolo dell’era cristiana le realizzazioni subirono un deciso calo, a fronte di unità politiche territorialmente meno estese ed economicamente meno forti. Dall’uso pressocchè indistinto della pietra e dei materiali lapidei si passò alla ghisa ed al ferro a partire dalla seconda metà del Settecento. Il primo ponte in ghisa fu realizzato tra il 1776 ed il 1779 su progetto dell’inglese Abramo Darby, (secondo altra fonte su disegno dell’architetto T. F. Pritchard), sul fiume Severn, scavalcato a Coalbrookdale da una sola arcata. Da quel primo ponte in metallo tutt’ora esistente gli esempi si moltiplicarono incessantemente per tutta la stagione dell’industrializzazione del territorio, sino al mastodontico ponte ferroviario sul Firth of Forth, vicino ad Edimburgo, realizzato tra il 1882 ed il 1889 o tra il 1879 ed il 1890 secondo la fonte, su progetto di John Flower e Benjamin Baker. Campata di 533 metri, altezza sull’acqua di 45,72 metri, la complessa struttura metallica e la forma architettonica derivata appaiono in questo caso emblematicamente assurti a simbolo del progresso tecnico e della capacità di resistenza ed interazione del materiale. È il primo grande ponte in acciaio, composto da due grandi travi di oltre 500 metri assemblate col sistema delle travi a mensole equilibrate, particolarmente adatto per superare ampie portate. A queste si aggiungono gigantesche strutture a torre, ciascuna costituita da quattro colonne appoggiate su massicce pile in muratura ed elevate sino ad oltre 100 metri. Forse come in nessun altro caso il ponte sulla baia del Firth of Forth appare come una enorme macchina industriale che ha fatto dell’assemblamento e dell’intrico della struttura metallica la propria forza espressiva, evidentemente sottolineata dal colore rosso che si staglia come con impeto sulla baia scozzese.
Nell’Ottocento il progressivo incremento delle quantità dei mezzi di trasporto, dei flussi di traffico e di velocità di spostamento ha profondamente influito sulle vie di comunicazione, coinvolgendo conseguentemente il ponte quale struttura di primo piano nel sistema di infrastrutture territoriali. Influenza riconducibile all’evoluzione della tecnica di costruzione e riscontrabile tanto nell’immagine architettonica quanto nella componente materica. A far tempo dal XVIII secolo si moltiplicarono le realizzazioni di grandi strutture metalliche; arco e travatura reticolare divennero dominanti, caratterizzando la tipologia dei ponti per oltre un secolo, evolvendo nel tempo sulla base di nuovi schemi che coscientemente si spogliavano di velleità decorative ed allontanavano dalle espressioni figurative più ridondanti (12) per tendere ad una maggiore chiarezza e razionalizzazione delle forme, più propriamente derivate dalla padronanza delle geometrie strutturali in grado di sfruttare al meglio i requisiti e le potenzialità del ferro prima e dell’acciaio poi, sino ai giorni nostri.
Gustave Eiffel è indiscutibilmente un maestro nell’uso del ferro, un artista nel disegno di arcate e nella composizione ardita di forme sospese nel vuoto. I ponti sul Douro, Porto, 1876-77, e sulla Truyère – Cantal, Auvergne – 1880-84, sono opere gigantesche che restituiscono un grandioso equilibrio, anche se nel caso di Porto il rapporto con il contesto è oggi profondamente alterato dall’espansione della città che ha trasformato le alture boscose e scoscese in periferia urbana. Mi riferisco al Dona Maria Pia (13), cioè al primo e più interno dei due ponti in ferro sul Douro, nel cui letto non era possibile affondare i piloni di sostegno a causa dell’instabilità del fondo, ma anche delle forti e mutevoli correnti. A fronte di una profondità compresa tra quarantacinque e sessanta piedi, Eiffel superò il fiume con una campata unica di 500 piedi, circa 160 metri, la maggiore fra i ponti non sospesi; tecnicamente si tratta di un arco a due cerniere, elevato per 61 metri sul pelo dell’acqua, costruito senza armatura mediante cavi sospesi. Il ponte, con le alte travature dei piloni, fu una esperienza fondamentale per Eiffel in vista della costruzione della Torre di mille piedi. Un procedimento simile fu seguito per gettare a St. Louis il ponte sul Mississipi. Ma l’opera più audace di Eiffel – con l’architetto Léon Boyer – è il Viaduc du Garabit. Lungo circa mezzo chilometro, ha una altezza folle con il piano di scorrimento ferroviario a 122,5 metri sull’acqua del fiume Truyère, scavalcato con una arcata di 165 metri. Il progetto fu portato a compimento analizzando ogni mezzo sperimentale a disposizione per disegnare gli archi parabolici, forme pure dominate dalla leggerezza e dalla trasparenza della tessitura metallica, perfetto esempio di ingegneria ottocentesca ed architettura che si impone con un grande senso di monumentalità del paesaggio. Le elaborazioni grafiche ed i calcoli analitici del Viaduc du Garabit arricchirono l’esperienza di Eiffel, poi applicata con estrema sicurezza e precisione contro le insidie del vento ed in ordine alla statica delle travature metalliche nella torre alta mille piedi, quella Tour Eiffel innalzata in occasione dell’esposizione Mondiale di Parigi nel 1889. Come la Tour originaria, il Viaduc du Garabit è oggi ridipinto in colore rosso poinsettia. Come il Golden Gate (San Francisco), come il Firth of Forth.
I ponti di Eiffel richiamano il senso di un corretto rapporto con la natura ed il paesaggio, determinando un sistema nel quale la componente umana – il manufatto – e l’ambiente naturale, già fortemente caratterizzato dalla forra, sono reciprocamente esaltati in un sistema perfetto. Un legame indissolubile suggellato da un rapporto esclusivo, monumentale direi come nel caso italiano del Ponte di San Michele a Paderno sull’Adda. “Altissima meraviglia” (14), il ponte fu progettato dall’ing. svizzero Giulio Rothlisberger e realizzato dalle Officine di Savigliano tra il settembre 1887 ed il maggio 1889. Un’opera di compiuta bellezza che appare naturalmente legata al fiume che scavalca sino ad 80 metri di altezza, in uno scenario grandioso alla determinazione del quale concorrono tanto “l’immane selva di lamiere e spranghe” (15), quanto la vallata fluviale, profondamente incassata tra rilievi boscosi e rocce affioranti, maggiormente oggi con le alberature che avvolgono i basamenti – in pietra di Moltrasio – dai quali si imposta la quadruplice arcata di 150 metri in corda. Non di meno, concorre alla definizione complessivamente unitaria del paesaggio la percezione della complessa strutturazione in tempi storici – dal tracciato leonardesco del Naviglio della Martesana dei primi del Cinquecento al “grande sostegno” del Naviglio di Paderno della fine del medesimo secolo – e della diffusa presenza di infrastrutture ed insediamenti che risalgono alla prima industrializzazione del territorio milanese, dalle centrali idroelettriche a monte ed a valle al complesso di Crespi d’Adda. L’audace segno nel solco dell’Adda, privo di qualsiasi ambiguità, è l’espressione tangibile dell’unità territoriale delle due sponde (16). Per la sua costruzione fu impiegata la tecnica della chiodatura, assemblando senza saldature l’enorme quantità di metallo.
La vicenda della costruzione del ponte è strettamente legata all’espansione dei collegamenti ferroviari tra milanese e bergamasca degli ultimi decenni dell’Ottocento, in un’area già fortemente caratterizzata in senso industriale. Realizzate nel maggio 1888 le opere murarie di sostegno, nel febbraio successivo fu gettata l’arcata con l’impiego di “circa centomila chiodi”. Per quello che fu definito il “lavoro di maggior lena” dell’epoca realizzato in Italia contribuirono sino a 470 operai contemporaneamente, senza che nessuno riportasse incidenti di sorta – come si evince dalla relazione tecnica dei lavori – neppure nella fase di erezione del gigantesca struttura lignea di servizio alla costruzione del ponte, concluso superiormente da una travatura reticolare a doppio livello, ferroviario e stradale, ad 80 metri sul pelo dell’acqua (17). Oggi i treni percorrono a bassa velocità l’unico binario della linea ferroviaria; lungo quei 266 metri c’è tutto il tempo per godere del paesaggio sull’abisso, pervasi dallo stesso “leggerissimo fremito, quasi di piacere”(18) da quasi 120 anni.
Uno dei luoghi più interessanti in questo senso, paesaggistico e monumentale tout-court è, in Europa, Mostar, dove si è storicamente determinato un indissolubile continuum architettonico tra il rilievo collinare, l’aggregato storico, il fiume che lo attraversa ed il ponte che scavalca quest’ultimo. Progettato dall’architetto Harjudin, allievo di Sinan, il ponte era un monumento privo di ogni ornamento, architettura pura.
Devo amaramente sottolineare che tale sistema è interrotto dal novembre del 1993, quando lo Stari Most è crollato sotto i colpi dell’artiglieria dei miliziani croati. Simbolo e luogo di massima identificazione di una intera comunità, il cinquecentesco ponte turco scavalcava con una solo arcata alta venti metri le acque della Neretva, la Narenta romana, quasi un naturale prolungamento delle possenti murature sulle due sponde. Con la distruzione del ponte, crollò nelle acque non solo l’unica via di accesso all’acqua potabile, nella parte croata della cittadina, ma precipitò lo spirito e l’identità di una comunità che nel ponte si identificava. Per questo è stato ferocemente abbattuto. Quel momento fu vissuto come un incubo dai 55.000 abitanti a maggioranza mussulmani, un delitto insopportabile perché il “Vecchio” , come era chiamato quasi con paterno affetto, era determinante come un organo vitale che esprimeva non solo il collegamento tra le due sponde oggi divenute nemiche, ma si faceva lui stesso parte integrante e coinvolgente di un sistema sociale e spaziale; dalle poderose bastionature alle rocce delle sponde, dalle attività perpetuate lungo l’agile “schiena d’asino” ai tuffi rituali nelle acque smeraldine della Neretva. Beffardo oltre ogni limite, il Presidente Tudjman si trastullò di fronte all’indignazione del mondo intero affermando: “Il ponte non è un problema, lo ricostruiremo più bello e più antico di prima”. La sua ricostruzione, iniziata nel 1997, è oggi quasi completata. Non una pietra del “Vecchio” si è potuta recuperare, non sarebbe mai bastata. Ora i Mostarini devono ricucire il rapporto con il loro ritrovato (nuovo) “Vecchio” (19).
Un altro ponte che raccoglie come un catalogo la memoria della città e della popolazione che lo ha voluto è il Ponte Carlo, il Karlüv Most di Praga, pietra narrante e quasi materia biologica, arto che struttura il corpo della città attraversata dalla Vltava-Moldava, linfa vitale.
Oggi è il più antico dei ponti che scavalcano il fiume. Fu preceduto da un ponte in legno documentato in fonte del X secolo e dal Ponte Giuditta del 1170, in pietra. Il ponte Carlo fu fatto erigere dal re Carlo IV a partire dal 1357, su disegno dell’architetto Peter Parler, non solo come collegamento della città vecchia con Malá Strana ma anche come strategico accesso al castello. Di origine italiana l’intenzione di ornarlo di statue e tutta praghese la magnificenza dell’apparato decorativo, con quel contrasto tra la dura severità gotica della pietra ed il linguaggio barocco dell’apparato scultoreo. Oggi lo possiamo percepire come frutto di un pensiero unico, di un progetto unitario ma è invece il risultato di un lungo processo di sedimentazione storica, una stratificazione senza soluzione di continuità, dalla prima statua, il Crocifisso seicentesco, all’ultima scultura, il gruppo Cirillo e Metodio realizzato nel 1938. Trenta sono i gruppi scultorei distribuiti lungo oltre 500 metri di sviluppo, una sorta di palcoscenico per la rappresentazione dell’immaginario religioso formatosi in tre secoli di storia. Dirigendosi verso Malá Strana il ponte sembra allungarsi, espandersi ben oltre le sponde ed appropriarsi anche del tessuto edificato antico, fondersi con esso ben oltre i limiti della Vltava-Moldava. Le due torri che inquadrano l’accesso a Malá Strana anziché chiudere e delimitare rafforzano in una ulteriore spinta il continuum architettonico, quasi senza sosta. Ed il gigante appare ancora più maestoso, possente e misterioso nella bruma autunnale mentre appena si scorge sull’altra sponda, la stessa, splendida città.
Suggestioni analoghe si colgono a Venezia, città nella quale l’acqua struttura un sistema ambientale assolutamente unitario, con quella isotropia conclusa solo di fronte alla laguna aperta. Con Rialto accantono parametri meramente estetici e sottolineo alcuni aspetti particolari del ponte nell’insula fittamente edificata, baricentro della città nell’ansa più ampia del Canal Grande. Posizione e funzione, un collegamento tra le sponde di San Marco e di Rialto, sin dal XIII secolo votate al commercio e luogo esso stesso di commercio, continuazione dei mercati; riservato ai mercanti stranieri in ordinanze che risalgono al 1200, mentre è del 1458 la proposta del Magistrato del sale di costruire botteghe ai lati del ponte. Tecnicamente ineccepibile, costruito “in pietre d’Istria stupendamente connesse” secondo il Selvatico (20), il ponte di Rialto fu duramente criticato dai contemporanei, in special modo per il montare dei due ordini di botteghe, per “le bugne mal ripartite ed i balaustri di bruttissima sagoma” (Selvatico). Infine, “la più tozza e pesante architettura che forse immaginar si potea” (21). Contribuirono del resto alla condanna dell’opera di Antonio Da Ponte anche i progetti di Michelangiolo (andato perduto) e di Palladio, quest’ultimo, su tre arcate affondate nel Canal Grande, scartato perché impediva la navigazione delle imbarcazioni alberate. D’altra parte, il nuovo ponte è fisso ed è sul luogo del precedente, in legno e levatoio. Dunque le grosse imbarcazioni alberate non transiteranno più per il Canale, attestandosi nel bacino di San Marco o traversando la città lungo la Giudecca. Nel 1592 l’opera fu portata a termine. Privo di sovrastrutture decorative, eppur massiccio, ha impianto del tutto inconsueto con quelle misure di larghezza e lunghezza identiche sull’acqua e 28 metri di lunghezza in corda, assolutamente notevole a quei tempi. Organicamente inserito nel tessuto edificato, è naturale proseguimento del tracciato viario che non si interrompe di fronte al Canal Grande ma si fonde con esso, in direzione di San Marco. Ancora una volta dunque il ponte è occasione non limitata alla ripresa di un percorso interrotto ma strumento per la ridefinizione dello spazio circostante, in un unico ed unitario progetto complessivo, distribuito nel corso dei secoli. Sino alla costruzione del ponte dell’Accademia, nel 1854, in pietra, rimase l’unico percorso pedonale a collegare le sponde del Canal Grande.
Dall’inizio del Novecento è l’arco in cemento armato che vede moltiplicare le applicazioni, grazie all’impulso di pionieri come Hènnebique e Freyssinet, in una serie di esempi attraverso i quali sono sfruttate al massimo le potenzialità del nuovo materiale. Penso ai ponti di Maillart e di Menn per sottolineare come l’impiego del cemento armato, considerato come duraturo per infinito tempo, in un progetto che consapevolmente si pone il problema dell’inserimento nel contesto (naturale) sia stato risolto correttamente, nel senso della reciproca esaltazione di architettura e paesaggio. Sino a divenire pretesto per un’opera che manifesta esplicitamente la vocazione scultorea, com’è nel ponte sul Basento, Sergio Musmeci, 1976, a Potenza. Quattro campate di 70 metri, irripetibili con la loro volta continua e sinuosa che “si muove” come una forma zoomorfa appoggiandosi in più punti all’impalcato stradale. Superando ogni convenzione tipologica, la platea portante diviene occasione per una percorso dentro il ponte.
Il ponte progettato da Calatrava a Barcellona e realizzato nel 1988 costituisce un polo di attrazione nel piano di ristrutturazione dell’area – attraversata dalla ferrovia – destinata a parco; Calatrava cita Gaudì nelle strutture d’appoggio (i percorsi porticati strutturati da colonne inclinate di Parc Güell, 1900-14) e l’immagine espressionista di Mendelsohn nel disegno ad incastro della complessa macchina governata da tiranti, archi e piattaforme in cemento armato. Un monumento tecnologico che contribuisce a definire il paesaggio urbano al limite del Plan Cerdà.
Dialogando con l’intorno Morand opera per dissonanze e contrasti, inserisce nel paesaggio elementi plastici che rivendicano la propria funzione a prescindere dalla forma architettonica e ribaltando il concetto statico di monumento – del paesaggio antico – sottolinea l’utilità come pre-requisito delle grandi infrastrutture viabilistiche (nel paesaggio urbano, il viadotto del Polcevera, 1966, a Genova; nel paesaggio naturale, il ponte sul lago di Maracaibo, Venezuela).
A volte la sperimentazione si è dimostrata incapace di prevedere le reazioni dei materiali e delle composizioni a fronte dell’azione delle forze naturali. Il Tacoma Bridge, cinquanta chilometri a sud di Seattle, chiamato Galloping Gertie per la sua notevole oscillazione, crollò sotto una tempesta di vento la mattina del 7 novembre 1940
Generali condizioni di difficoltà di applicazione dell’arco come elemento strutturale per superare grandi spazi ed in generale la necessità di ampliare la componente strutturale per conciliare l’andamento rettilineo dell’impalcato con la struttura curvilinea propria dell’arco hanno condizionato notevolmente le scelte progettuali, sino ad arrivare alla notevole regressione nell’uso generalizzato dell’arco, sostituito pressoché totalmente nelle realizzazioni della seconda metà del Novecento. Non una crisi di identità, essendo indubitabile la dignità e bellezza della tipologia ad arco, né è intervenuta una prematura obsolescenza dei ponti ad arco essendo ancora oggi utilizzati moltissimi ponti ottocenteschi ad arcata reticolare, ma piuttosto una naturale evoluzione di tecniche costruttive e di prestazioni di materiali a fronte di maggiori impegni strutturali.
La funzione del ponte come polo di strutturazione urbana vide moltiplicarsi il numero dei collegamenti stabili e degli attraversamenti, necessari al rapido incremento dei traffici e della velocità. Basti pensare all’assetto di New York, fortemente influenzato dall’ubicazione dei ponti sull’Hudson ed attorno a Manhattan, con i casi eccezionali di Brooklyn, ma anche al Giappone, ai collegamenti fra le isole ed ai grandi progetti realizzati. Il ponte di Akashi Kaikyo, in Giappone, 1999, ha una luce complessiva di 4000 metri e poco meno di tre chilometri di distanza tra le antenne, i giganteschi piloni che sorreggono i cavi dei ponti strallati e sospesi. Superfluo sottolineare il caso italiano del ponte sullo Stretto, di cui si possono enumerare esempi progettuali da oltre mezzo secolo. Se realizzato, le sue dimensioni - 5300 metri di luce e distanza tra le antenne di 3300 metri – sullo stretto avremmo il ponte sospeso più lungo al mondo.
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