Anno 2 - N. 6 / 2003
LA MUSICA ALLA CORTE DEGLI SFORZA AL TEMPO DI LEONARDO
“CANTARON SÌ CHE NOL DIRÌA SERMONE”
DANTE (PURG., XII, 111)
“ di virtuosi ha sua corte piena”
di Giulio Cesare Maggi
Angeli musicanti (part. Pannello di sin. 1480)
HANS MEMLIING (c. 140-1490) - Museum Koninklijk, Anversa
Verso la fine del 1482 Leonardo da Vinci, provenendo da Firenze, giungeva nel Ducato di Milano in compagnia del musico e cantante Atalante Migliorotti e del meccanico e mago Tommaso Masini, il quale ultimo si faceva chiamare Zoroastro da Peretola.
A Firenze Leonardo aveva ideato e costruito con l’aiuto di Atalante un liuto in argento, a foggia di teschio equino, con guarnizioni di fantasia “grottesca”, particolarmente felice nei toni acuti.
Il liuto era stato acquistato da Lorenzo il Magnifico ed inviato come dono personale all’amico Lodovico Sforza, tramite lo stesso Leonardo. Del liuto non resta traccia: che però Leonardo avesse passione per siffatto tipo di strumenti musicali, è documentato da vari disegni, uno dei quali, qui riprodotto, è significativo del gusto espresso dal da Vinci.
Sapeva bene Lorenzo che l’amico Duca Lodovico era cultore di musica, ma soprattutto sapeva che questi era alla ricerca di uno scultore-fonditore per realizzare la grande statua equestre del padre Francesco. Aveva anche con sé, a questo scopo, Leonardo una lettera di pugno del padre, il notaio fiorentino Ser Piero, al fine di proporsi al Duca quale scultore e pittore, architetto, costruttore di ponti e di sistemi bellici di offesa e di difesa, nonché scenografo di feste, tornei e trionfi.
Il dono di Lorenzo gli serviva più che altro come captatio benevolentiae da parte del Duca, dato che in realtà l’attitudine di Leonardo verso la musica in sé era discretamente critica, tutta a favore della pittura che egli, sempre, considerò la forma d’arte perfetta, quasi assoluta.
“La musica non è da essere chiamata altro che sorella della pittura” e sicuramente egli intendeva una sorella minore. “In ogni caso essa è subbietto dell’udito, secondo senso all’occhio”, quindi organo, l’udito, meno essenziale rispetto alla vista; e per di più era la musica “costretta a nascere e morire tra uno o più tempi armonici”.
La pittura signoreggia la musica poiché essa “non more immediatamente dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica”. D’altra parte – è ancora Leonardo che scrive – “se tu dicessi: la musica s’eterna con lo scriverla, il medesimo facciamo noi con le lettere”.
L’uomo, nota ancora Leonardo, non ha mai collocato la pittura fra le arti liberali: allora delle due o ve la include o ne toglie anche la musica. Una posizione estrema, come si vede, ma Leonardo era così!
A parte l’opinione di Leonardo sulla musica in quanto forma d’arte – egli mai la negò – resta il fatto che fu buon suonatore di liuto e conoscitore della notazione musicale in uso al suo tempo, come risulta da Paolo Giovio e dall’anonimo magliabechiano “… unico era in suonare questo strumento” e il dato è confermato dal Vasari nelle “Vite” (1550).
Leonardo ebbe fin da giovanissimo una educazione musicale completa, forse con lo Squarcialudi, a Firenze ed in più una buona voce tenorile, ma sopratutto una gran passione per disegnare e realizzare strumenti musicali specie con componenti meccaniche. Recenti attribuizioni sulla base di disegni (Cod. Atl. f. 218, r) lo fanno considerare creatore o perfezionatore del violino, per tacere del liuto da orbo, la vièle dei francesi. Forse compositore “a mente” non lasciò musica scritta, ma, secondo l’opinione di Magni - Duffelocq può e deve essere considerato “musicista compiuto”
La conoscenza della musica gli era del resto necessaria all’allestimento degli spettacoli che all’apparato scenico univano sempre quello musicale.
A questo punto converrà spendere qualche riga sugli antecedenti storici relativi all’arte musicale nel nostro Paese prima del suo sviluppo nel periodo rinascimentale.
Dopo l’età di Giotto e di Dante la seconda metà del XIII secolo fu per l’Italia un periodo di transizione non solo politica ma anche e soprattutto culturale, sia nel campo letterario sia in quello musicale. Siamo ormai verso l’età dell’Orcagna e di Petrarca e perciò in un periodo nel quale l’Italia acquista, anche se lentamente, una sua identità autonoma di alto profilo nel contesto di una cultura europea di influenza incontestabilmente francese.
Se questo fu vero nel campo letterario, e valga per tutti il nome di Francesco Petrarca, il vero antesignano dell’Umanesimo, l’autonomia e l’originalità nel campo musicale si affermarono più lentamente. Nel 1340 fece la sua comparsa il Trattato di Philippe de Vitry relativo alla notazione musicale, che conosciuto anche in Italia, rinforzò l’influsso francese, sicché ancora nel 1420 il nostro Paese veniva considerato una “provincia musicale della Borgogna”.
Inoltre la musica, pur essendo incontestabilmente un’arte liberale, non trovava in quel periodo insegnamento nelle pur fiorenti Università italiane, come osserverà giustamente Carpentier (1958) e le poche opere dedicate all’argomento erano originate in ambienti extra-accademici.
Il patronage della musica veniva piuttosto dalla Chiesa e dalle istituzioni del potere politico, costituito ormai dalle nascenti Signorie. Erano perciò le compagnie religiose dei “laudesi” che cantavano le lodi a Cristo, alla Beata Vergine ed ai Santi, simili in ciò alle società corali religiose attuali (Larner, 1971). A Firenze, ad esempio, in Or san Michele, vi erano un organista e quattro cantori nell’organico della Chiesa. Il canto poteva essere “figurato” e con accompagnamento di organo, in particolare nelle Cattedrali e nelle Chiese rette da Frati.
In questo senso, cioè dell’esistenza di musica corale ufficialmente strutturata, può essere interessante sapere che certo Frà Martino de’ Stremati dell’Ordine degli Umiliati, ricevette 600 fiorini milanesi per la costruzione di un organo destinato al Duomo di Milano, come risulta dagli archivi della Veneranda Fabbrica. Il salario annuale del Maestro del coro, certo Monti da Prato, era di 50 fiorini nel 1396. Nel 1411 troviamo quale Maestro del coro in Duomo, con obbligo d’insegnamento esclusivo, Ambrosio da Pesaro, la cui soavità di voce è registrata persino negli annali: ciò ad indicare l’importanza che veniva attribuita al canto del solo oltre che a quello corale.
Nella prima metà del XIV secolo le fonti più importanti di musica, soprattutto profana, furono sicuramente le Corti, in particolare quelle di Rimini, Verona, Napoli e Milano: tra i nomi più celebrati di compositori di quel periodo di tempo quelli di Francesco Landini, Giovanni da Cascia, Jacopo da Bologna, Antonio da Tempo…
Né i liberi Comuni furono da meno se, ad esempio, Firenze nel 1396 disponeva di 10-12 cantori e cinque trombetti. Nel 1333 il Comune di Milano aveva decretato che in ogni nobile città della Lombardia e delle possessioni in Toscana “messeri le Podestà provvedessero di robbe” (cioè di costumi idonei) tutti i pubblici cantori che si esibivano per il diletto della cittadinanza. Qualcuno di questi cantori divenne noto anche quale compositore, ma i più erano modesti praticanti, sicché quella lingua biforcuta del Sacchetti, verso la metà del Trecento, poteva scrivere: “pieno è il mondo di chi vuol far rime… così del canto avvien: senza alcun’arte”. E in un madrigale Francesco Landini così canta: “Ciascun vuol narrar musical note, compor madrigali, cacce, ballate tenend’ognun le sue autentica”.
All’inizio del XIV secolo in Lombardia ed a Firenze nascono scuole dell’ars nova: nel 1318 Marchetto da Padova compone il Pomerium, opera nella quale si riscontra un iniziale stile italiano, con notazione originale. Che nondimeno l’influsso francese fosse ancora predominante è documentato dal fatto che le fonti dirette di tale presenza provengono proprio da manoscritti italiani, che ne attestano la popolarità nel nostro Paese.
Come si vede un panorama musicale variegato, alla faticosa ricerca di una sua originale identità. È a questo punto che i musici fiamminghi si inseriscono d’autorità soprattutto nelle Corti rinascimentali italiane: nota Tintori che essi avevano accolto e sviluppato concetti musicali francesi ed italiani, con elevati spunti di originalità elaborativa. Spicca tra essi il nome di Johanne Ciconia di Liegi, il quale, oltre la metà del Trecento, venne in Italia al seguito del Card. Albornoz e poi, all’inizio del Quattrocento fu a Padova: autore di un Trattato sulla Nova Musica scrisse mottetti e madrigali su testo italiano.
Si sviluppano in questo periodo anche le ballate, nonché il cànone, canto di soli con coro.
Il predominio musicale dei franco-fiamminghi in Italia è definitivamente consolidato da Guillaume Duphay, attivo nel nostro Paese tra 1420 e 1450. La scuola fiamminga aveva sviluppato al massimo grado la polifonia che era giunta nelle Fiandre dall’Inghilterra. I tempi erano quindi maturi per un cambiamento anche nel campo della musica quale disciplina non più e non solo a carattere ludico. Nel suo Trattato sull’educazione della gioventù Vergerio ricordava come gli antichi Greci considerassero “non educato” il giovane che non sapesse cantare o suonare uno strumento, attitudine che favoriva l’armonia dell’animo: ed a questo fine egli riteneva necessario che il giovane conoscesse, della musica, sia teoria sia pratica applicazione.
Dalla contrappuntistica e dalla problematica mensuale del Trecento, il mondo musicale si apriva quindi completamente nel Quattrocento all’esperienza straordinaria dei Fiamminghi che raggiunse il suo massimo splendore nella seconda metà del secolo, con una singolare presenza alla Corte sforzesca.
Uno sviluppo “fino all’iperbole, per consegnare nel Cinquecento, al genio di Pierluigi da Palestrina un’esperienza da vivificare con il soffio dell’arte” come scrive Tentori.
Dalla monodia gregoriana alla polifonia si assiste così al passaggio dalla scansione puramente metrica a più complete cadenze: fino dalla seconda metà del Trecento infatti alle note “nere” tipiche della musica gregoriana si passò al sistema preconizzato da Francone da Colonia, con l’introduzione della “semibrevis” (bianco rombo) e dei segni di pausa, nonché, ad opera del de Vitry, alla notazione bianca (r bianca) accanto a quella nera (nera), già in uso.
Nel riquadro a in basso è rappresentata la notazione musicale correntemente utilizzata al tempo di Leonardo.
Nel volume “La vita privata e l’arte a Milano nella prima metà del Quattrocento” (Milano, Hoepli, 1929) F. Malaguzzi Valeri ricorda come la musica occupasse, tra gli spassi di Corte, il posto preminente, tanto che il poeta di Corte Bellincioni riferisce che il Duca “di virtuosi ha sua corte piena”, e non solo cantanti ma anche suonatori di viola e di liuto, sia italiani sia stranieri, tedeschi e fiamminghi in particolare.
Il posto d’onore nelle Corti italiane spetta al liuto: e a Milano è celebre suonatore di questo strumento Francesco de Magistri. L’interesse verso questi strumenti in tale periodo è documentato da disegni di Leonardo, oltre a quelli di altri coevi di Scuola lombarda, ora a Londra nella collezione Farfaix Murray.
Come si è già detto lo sviluppo più interessante in quel periodo si ebbe con i franco-fiamminghi, in realtà una vera Scuola, attivi nelle Corti rinascimentali, apprezzati ed onorati compositori di musica sacra e profana, con il favore dei Signori di quei potentati. Grandissimo fra questi Josquin des Prèso o Prèz, lat. Josquinus Pratensis (c.ca 1440-1521); e poi Jean Cordier di Bruges, Heinrich Isaac, Jacop Obrecht, praticamente coevi di Josquin.
Accanto a questa presenza fiamminga, non limitata alla Corte sforzesca, una gloria lombarda si evidenzia con Franchino Gaffurio di Lodi (1451-1522), cantore del Duomo di quella città sotto la guida del Bonadies: musico di formazione culturale fiamminga, Gaffurio entra alla Corte dei Gonzaga nel 1474, indi a Napoli con Johannes Tinctoris, musico del Brabante, artista di alto livello tecnico.
Dopo un periodo trascorso a Bergamo quale Maestro di Cappella a S.Maria Maggiore, nel 1484 fu nominato tale nella Cappella del Duomo milanese, che quest’anno compie il suo sesto secolo di attività: qui lavorò fino alla morte. Uomo di eccezionale cultura tradusse Quintiliano, Porfirio, Tolomeo, ritenendo indispensabile la conoscenza dei classici.
Siamo del resto in pieno Umanesimo e l’interesse è rivolto anche verso la musica greca: solo un uomo della cultura di Gaffurio poteva affrontare con successo tale studio. Gaffurio, pur nutrito di classici e di fiamminghi, fu anche attento alla musica popolare italiana, mentre i suoi allievi, quali Guidati e van Werbecke, entrarono nella Cappella musicale di Galeazzo Maria Sforza.
Le due Scuole milanesi di musica, quella di Gaffurio ad indirizzo italiano e quella ducale ad indirizzo fiammingo, più che opporsi completano il paesaggio musicale lombardo, mentre Leonardo quale “apparatore” presta la sua arte alla scenografia di spettacoli musicali che preludono al melodramma italiano del Cinquecento.
E, come scrive Giampiero Tintori, “Milano in questo ultimo scorcio del Quattrocento con musiche e spettacoli, diventa un vivido crogiolo di esperienze straniere e nazionali, dotte e popolaresche”. Senza dimenticare che sulla spinta dei balli alle feste di Lodovico il Moro, Milano diventerà anche il centro europeo dell’Arte della Danza.
E non possiamo certo ignorare di Gaffurio i Trattati, che ebbero vastissima risonanza, tra cui il Theoricum opus musicae disciplinae (1480) poi ristampato nel 1492 con il titolo Theoria musicae, la Practica musicae del 1496 ed il De armonia musicorum instrumentorum opus del 1518: vere pietre miliari della teoria e della prassi musicale dell’epoca, opere note ed apprezzate in tutta l’Europa.
E vogliamo che Leonardo, sempre più innamorato della pittura, in questo contesto non abbia pensato di immortalare uno di questi maestri o esecutori, magari con un filo di benevola ironia verso questa musica che “nasce e muore tra uno o più tempi armonici”?
Facciamo qui riferimento al “Ritratto di un Musico” che figura nella Pinacoteca dell’Ambrosiana di Milano, sul quale come è noto, sono corsi fiumi di inchiostro. A lungo infatti è durata ed ancora non del tutto è risolta la vexata quaestio dell’identità sia dell’autore del quadro sia del personaggio raffigurato nel celebre dipinto, che da solo, come è stato detto, giustificherebbe la notorietà della Pinacoteca che lo ospita. La critica odierna, in modo pressoché univoco, riconosce il dipinto come autografo di Leonardo e come tale esso figura nel Catalogo: ma a questa attribuzione si è giunti attraverso non poco travaglio. L’opera non compare nell’atto di donazione all’Accademia di Milano, poi dal 1618 Pinacoteca Ambrosiana, essendo acquisizione posteriore. Nel catalogo di Padre Bosca del 1672 il quadro è dato come “Ritratto maschile”, mentre in quello del 1686 è classificato come “Mezzo ritratto di un Duca di Milano, con berrettino rosso, di mano del Luini”. L’inventario del 1685 teneva presente l’attribuzione che nel 1671 il Santagostino ne “L’immortalità e gloria del pennello” aveva dato a Leonardo, anche se per tutto il Settecento trovò credito l’attribuzione al Luini: forse questo contribuì ad evitare che la tavola venisse portata al Louvre, come molti tesori delle collezioni milanesi, quale preda bellica di Napoleone I.
L’ “atmosfera leonardesca” del dipinto non fu mai posta in discussione dai critici del XIX secolo, oscillando tra Luini o Scuola e i De Predis, ma talora anche a Leonardo stesso. Un restauro dell’inizio del Novecento (1904) ad opera del Cavenaghi evidenziò l’esistenza della mano destra (in verità secondo Venturi assai poco leonardesca) che regge un cartiglio con note musicali e la scritta cant…ang…: ciò consentiva innanzitutto di escludere potersi trattare di un ritratto di un Duca di Milano. Sulla base di questo ritrovamento Luca Beltrami (1906) pensò che il ritratto potesse identificarsi con quello del famoso musico lodigiano Franchino Gaffurio autore dell’Angelicum ac divinum opus (cant… ang…). Beltrami indicò come provenienza della tavola, in realtà rimasta sempre non chiara, la raccolta di Giuseppe Mola, incisore alla Zecca di Roma, che nel testamento la indicava come opera del Luini. Sulla base della expertise di Luca Beltrami tutta o quasi tutta la critica si orientò sull’identità del soggetto dipinto, un musico, assai verosimilmente il Gaffurio. Altri non escludeva potersi trattare di Jean Cordier, alla Corte sforzesca fino al 1496, altri ancora pensava ad Angelo Testagrossa (cant… ang…) o ad Atalante Migliorotti, il musico amico di Leonardo con il quale era giunto alla Corte di Milano nel 1482. Si tratta di un’attribuizione sulla quale torneremo più avanti.
Nella Guida dell’Ambrosiana di Mons. Achille Ratti (poi Papa Pio XI), (1907), il quadro figura come un legato del Guggenheim di Venezia.
A favore dell’opinione di Luca Beltrami, probabilmente ripresa dal Santagostino, trattarsi cioè di un’opera autografa di Leonardo si sono espressi chiaramente Schiapparelli, Berenson (1936), Clarck (1959), Pedretti; altri quali il Venturi (1915) e Sirén (1911) sono orientati sul Boltraffio. In ogni caso nel volume “L’Ambrosiana” (Milano, Cassa di Risparmio, 1967) e nella “Storia dell’Ambrosiana: il Seicento” (Milano, Cariplo, 1992) Gianalberto Dall’Acqua dà il quadro come autografo di Leonardo sotto il titolo di “Ritratto di un Musico”. Anche Mons. Ravasi nel commento al Musaeum (Federico Borromeo, Musaeum, Milano, C.Galvone Ed., 1997) richiama l’attenzione sull’”unico dipinto su tavola di Leonardo che sia presente a Milano, ritratto forse di Franchino Gaffurio”, opera che considera dotata di una rivelazione luminosa quasi nello stile di Antonello da Messina “capace di un rigore e di un’incisività irraggiungibile nella definizione delle forme”.
Il quadro, restato peraltro incompleto, sarebbe stato dipinto tra il 1485 ed il 1487. In quegl’anni Gaffurio, nato nel 1451 era intorno ai quarantanni, e tale età male si concilia con la evidente giovinezza del soggetto ritratto. Siffatta attribuzione a Franchino Gaffurio nel 1972 fu contestata dalla musicologa Suzanne Clercx Lejeune la quale propose invece il nome di Josquin des Prèz (o Près), fiammingo attivo alla Corte degli Sforza, come si è detto, a partire dal 1475. La studiosa svizzera ha potuto interpretare il cartiglio della mano destra, individuando trattarsi del ritornello di un mottetto realmente musicato da Josquin “Illibata Dei Virgo Nutrix”.
Osserva però Elisabetta Strocchi che Josquin des Près era nato tra il 1440 ed il 1443 e che se anche il ritratto fosse stato dipinto appena Leonardo giunse a Milano, il musicista avrebbe avuto oltre quarant’anni e perciò anche in questo caso vale quanto detto per Gaffurio. Il quadro è stato oggetto di non piccoli rimaneggiamenti e ridipinture, come appare dallo studio riflettografico I.R. eseguito da Cogliati Arano nel 1982 in occasione delle celebrazioni leonardesche, studio che era stato preceduto da quello radiografico ad opera di Ludovico Mucchi nel 1972.
Altre improbabili attribuzioni a musici attivi alla Corte sforzesca sono pure congetture.
Una attribuzione già ventilata in passato, è ora stata autorevolmente presentata dal noto storico e critico dell’arte il leonardista Pietro Marani.
Nel suo recente volume dedicato alla carriera di Leonardo (vedi P. C. Marani, Leonardo. Una carriera di pittore, Milano, Motta Editore, 1999, pp. 160-166), lo studioso ripropone l’identificazione del personaggio raffigurato da Leonardo con Atalante Migliorotti, l’amico e compagno di Leonardo che aveva accompagnato quest’ultimo nel suo viaggio da Firenze a Milano alla fine del 1482 e al quale Leonardo aveva insegnato a suonare (è l’Anonimo Gaddiano, verso il 1520, a darcene notizia). Verso il 1485-87 (epoca in cui fu eseguito il ritratto leonardesco), Atalente aveva circa vent’anni, ed il dipinto dell’Ambrosiana è pertanto più facilmente riferibile a lui che non a Franchino Gaffurio. Inoltre, abbiamo la certezza del fatto che Leonardo avesse già schizzato, verso il 1482, un ritratto di Atalante, dato che in un pro-memoria contenuto nel Codice Atlantico (fol. 888 recto, ex 324 recto), Leonardo elenca “una testa ritratta d’Atalante che alzava il volto”. Era forse questo un primo schizzo, o abbozzo, del quadro ora all’Ambrosiana, dato che il personaggio, in questo dipinto, sembra proprio aver appena alzato il volto dal foglio di musica. Prova ulteriore delle relazioni tra Leonardo e Atalante Migliorotti è il fatto che, nel 1490, quest’ultimo fosse richiesto di impersonare Orfeo nell’omonima opera del Poliziano, allestita in quell’anno a Marmirolo, vicino a Mantova: opera che lo stesso Leonardo avrebbe rappresentato ancora a Milano durante l’epoca della successiva dominazione francese e per la quale egli avrebbe progettato anche la scenografia. L’ipotesi del Marani sembra dunque da sottoscrivere, anche tenendo conto del fatto che Atalante e Leonardo si sarebbero trovati poi a Roma, nel 1513-1515, quando l’amico di Leonardo avrebbe ricoperto la carica di sovrintendente alla Fabbrica di San Pietro. La presenza dei due artisti amici a Roma in quel torno di tempo, spiegherebbe poi, secondo il Marani (vedi la scheda di P. C. Marani nel Catalogo generale della Pinacoteca Ambrosiana, in corso di stampa), l’ipotesi, formulata dal Beltrami, di una provenienza del dipinto da Roma.
Tra i visitatori illustri della Pinacoteca, attratti da questo o quel quadro o cartone – da Montesquieu a Stendhal, da Lord Byron a Flaubert – chi resterà incantato dal Ritratto di un Musico fu in particolare Heine.
L’eccezionale fascino di questo quadro, come si è detto, da solo è sufficiente a rendere celebre nel mondo la Pinacoteca Ambrosiana.
Come per molte opere di Leonardo il Ritratto di un Musico resterà un enigma. E ciò non tanto per le vicende delle attribuzioni riservategli, quanto per il fatto che il dipinto pur toscano e scultoreo, come scrive Pedretti, di un modello nordico non è immemore degli incanti della pittura di Antonello e della ritrattistica fiamminga, come fu osservato già da Castelfranco: così “Il Musico non ci ha ancora rivelato a fondo il suo mistero”... “con il gioco delle pupille e con la sua ombrosa e pietrificata bellezza”.
* L’Autore è debitore all’amico Prof. Pietro Cesare Marani per il suo invalutabile contributo relativo all’attribuzione al Migliorotti del personaggio ritratto.
A: NOTE MUSICALI RINASCIMENTALI
Alla metà del XIV secolo entrò in uso ad opera di Philippe de Vitry la cosiddetta “notazione bianca”, impiegata dai Fiamminghi e dai musici coevi di Leonardo da Vinci, la quale in luogo delle sole note nere (n) presentava anche le note bianche (b): ciò consentiva di aumentare il significato dei simboli. Tale notazione restò in uso fino al Seicento.
Da “La musica al tempo di Leonardo” di Giampiero Tintori si riportano qui di seguito i segni usati al tempo di Leonardo.
B: RADIOGRAFIA
Nel novembre/dicembre 1972 fu allestita al Castello Sforzesco di Milano, a cura delle Civiche Raccolte d’Arte dirette allora dalla Prof.ssa Mercedes Precerutti Garberi, una mostra dedicata a “I leonardeschi ai raggi X”.
I dipinti presentati erano stati radiografati da Ludovico Mucchi, noto radiologo e appassionato d’arte milanese, le cui ricerche portarono in alcuni casi a letture originali dei dipinti e ne precisarono particolari fino ad allora non conosciuti.
Dal Catalogo riportiamo la radiografia del “Ritratto di un Musico” alla Pinacoteca Ambrosiana, ritenuto autografo di Leonardo.
Si è parlato di una “bellezza” quasi metafisica di questo capolavoro oramai saldamente ritenuto di mano di Leonardo malgrado voci, anche autorevoli, che lo attribuirono ad Ambrogio De Predis o persino al Boltraffio.
IMMAGINE RADIOGRAFICA
L’indagine radiografica di Mucchi pone la seguente “diagnosi”:
“Tavola 40 x 30. Supporto in legno a fibra sottile compatta e uniforme, in buone condizioni, anche se la preparazione del fondo non è uniforme. La radiografia evidenzia la grande accuratezza e precisione di mano, nel tratteggio degli occhi, del naso, nel profilo della gota e della mano. Da notare la perfetta definizione delle palpebre, con una pennellata di bianco abbastanza denso, assai sottile per il margine palpebrale inferiore. Tale esecuzione si accosta molto da vicino a quanto si osserva nella “Madonna con Bambino” della collezione Gallarati Scotti, attribuita a Luini e nel “Ritratto di gentiluomo” di Brera, attribuito a De Predis” e potrebbe trattarsi di una caratteristica tecnica di Scuola.
FINESTRA 1 NOTE MUSICALI RINASCIMENTALI
Alla metà del XIV secolo entrò in uso ad opera di Philippe de Vitry la cosiddetta "notazione bianca", impiegata dai Fiamminghi e dai musici coevi di Leonardo da Vinci, la quale in luogo delle sole note nere (n nero) presentava anche le note bianche (r bianco): ciò consentiva di aumentare il significato dei simboli. Tale notazione restò in uso fino al Seicento.
Da "La musica al tempo di Leonardo" di Giampiero Tintori si riportano qui di seguito i segni usati al tempo di Leonardo.
FINESTRA 2 LEONARDO AI RAGGI X
Nel novembre/dicembre 1972 fu allestita al Castello Sforzesco di Milano, a cura delle Civiche Raccolte d'Arte dirette allora dalla Prof.ssa Mercedes Precerutti Garberi, una mostra dedicata a "I leonardeschi ai raggi X".
I dipinti presentati erano stati radiografati da Ludovico Mucchi, noto radiologo e appassionato d'arte milanese, le cui ricerche portarono in alcuni casi a letture originali dei dipinti e ne precisarono particolari fino ad allora non conosciuti.
Dal Catalogo riportiamo la radiografia del "Ritratto di un Musico" alla Pinacoteca Ambrosiana, ritenuto autografo di Leonardo.
Si è parlato di una "bellezza" quasi metafisica di questo capolavoro oramai saldamente ritenuto di mano di Leonardo, malgrado voci, anche autorevoli, che lo attribuirono ad Ambrogio De Predis o persino al Boltraffio.
L’indagine radiografica di Mucchi pone la seguente “diagnosi”: «Tavola 40x30. Supporto in legno di fibra sottile compatta e uniforme, in buone condizioni, anche se la preparazione del fondo non è uniforme.
La radiografia evidenzia la grande accuratezza e precisione di mano, nel trattegio degli occhi, del naso, del profilo della gota e della mano. Da notare la perfetta definizione delle palpebre, con una pennellata di bianco abbastanza denso, assai sotile per il margine palpebrale inferiore.
Tale esecuzione si accosta molto da vicino a quanto si osserva nella “Madonna con bambino” della collezione Gallarati Scotti, attribuita a Luini e nel “Ritratto di gentiluomo” di Brera, attribuito a De Predis e potrebbe trattarsi di una caratteristica tecnica di Scuola».
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