Anno 2 - N. 6 / 2003
FILOSOFIE PER UN TERREMOTO
Il disastro di Lisbona dell’11 novembre 1755
Ottimismo e ragione a confronto
di Giuliano Tessera
Il tremendo terremoto che colpì la città di Lisbona il giorno di Ognissanti del 1755 non fu né il primo né l’ultimo, ma in base a quanto è riportato dalle cronache dell’epoca, tra i più catastrofici mai verificati.
Il numero delle vittime superò la cifra di 30000 ( sino a 70000 secondo alcuni); 17000 abitazioni andarono distrutte e lo sconvolgimento tellurico interessò oltre 1 milione e mezzo di miglia quadrate di territorio.
Sarà però sul terreno filosofico che le conseguenze di tale evento superarono quelle provocate da ogni altro sisma precedente. E forse futuro.
Nel 1756 infatti Francois-Marie Arouet , cioè Voltaire (anagramma di Arouet le Jeune), esce allo scoperto con una composizione in versi forse di non eccelso livello letterario ma di efficacia polemica straordinaria: il “Poema sul disastro di Lisbona” (“Poème sur le désastre de Lisbonne, ou examen de cet axiome: Tout est bien”).
“O infelici mortali! o terra degna di pietà!
o cumulo spaventoso di tutti i flagelli!
successione eterna di inutili dolori!
Filosofi illusi, che gridate “Tutto è bene”,
accorrete, contemplate queste orrende rovine,
queste macerie, questi detriti, queste ceneri miserande,
queste donne, questi bambini, ammucchiati l’uno sull’altro,
queste membra disperse sotto i marmi infranti;
centomila sventurati divorati dalla terra,
che terminano i loro giorni miserevoli sanguinanti, straziati e ancora palpitanti,
sepolti sotto le loro case, senza soccorso, fra orribili tormenti!
Udendo le grida semisoffocate delle loro voci spiranti,
scorgendo lo spettacolo spaventoso delle loro ceneri fumanti,
direte voi: “E’ questo l’effetto di leggi eterne,
che presuppongono la scelta di un Dio libero e buono?”.
La bagarre è cominciata. Tutti gli strali polemici di cui Voltaire dispone sono scagliati contro un obiettivo che se sinteticamente può venir definito “l’ottimismo” è in realtà la filosofia soprattutto quella del ‘600, con i suoi sistemi meccanicistici, onnicomprensivi, deduttivi, metafisici e, in particolare quella di Leibniz e della sua famosa tesi che dice che il nostro è il migliore dei mondi possibili, sostenuta con una argomentazione “a priori” secondo cui la perfezione di Dio comporta necessariamente la scelta migliore nell’atto della creazione.
“Parafrasando Platone- dirà Voltaire in riferimento a Leibniz autore della “Teodicea” (1710)- costruì il suo edificio del migliore dei mondi possibili e immaginò che tutto vada per il meglio. Egli rese dunque al genere umano il servigio di mostrargli che dobbiamo essere tutti molto soddisfatti e che Dio non poteva fare per noi di più, poiché scelse necessariamente, tra tutti i mondi possibili, quello incontestabilmente migliore”.
Di fronte a tale disastro, incalza però ora Voltaire, nessuna giustificazione è possibile anche quella che circolava in certo ambito cattolico dell’epoca per cui il terremoto sarebbe stato determinato da una specie di intervento punitivo di Dio causato dai peccati degli uomini.
“Direte, vedendo questo ammasso di vittime:
Dio si è vendicato, la loro morte è il prezzo dei loro delitti?
Quale delitto, quale errore hanno commesso questi fanciulli
schiacciati, sanguinanti, sul seno materno?
Lisbona, che è inabissata, ebbe forse vizi maggiori di Londra e Parigi,
immerse nei loro piaceri?
Lisbona è distrutta, e a Parigi si danza.”
Queste affermazioni e soprattutto la vis polemica che le animava, tutte volte a mettere in discussione l’esistenza di un ordine provvidenziale del mondo non potevano non far reagire sdegnosamente il polemico dirimpettaio ginevrino di Voltaire, Jean Jacques Rousseau che risponde infatti al “maestro”(come testualmente lo chiama) con la “Lettera sulla provvidenza”, il 18 Agosto del 1756.
“Voi non volete, Signore, che si consideri la vostra opera come poema contro la Provvidenza…..Non vedo come si possa ricercare l’origine del male morale se non nell’uomo libero, progredito e di conseguenza corrotto; e quanto ai mali fisici…essi sono inevitabili in ogni sistema di cui l’uomo faccia parte…”. Quanto a Lisbona “...dovete, ad esempio, convenire che non era stata la natura a raccogliere là ventimila case dai sei ai sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti in modo più uniforme e in abitazioni più piccole, il disastro sarebbe stato molto minore, e forse non vi sarebbe stato”. La responsabilità
della catastrofe va ricercata dunque negli uomini con la loro mania di costruire case là dove non dovrebbero venir costruite e di ammassarsi dove bisognerebbe rarefare la presenza: La natura è originariamente buona; l’insufficienza umana genera il male.
Secondo Rousseau bisogna poi distinguere il male particolare, la cui esistenza è impossibile negare, da quello generale, che l’ottimista nega.
“ Non si tratta di sapere se qualcuno di noi soffre oppure no, ma se era bene che l’universo esistesse…”; perciò, prosegue, è più esatto dire “Il tutto è bene”, piuttosto che “Tutto è bene”, dove l’articolo “il” è posto per sottolineare la bontà dell’universo tutto e non delle sue singole parti. Allora è evidente che nessuno potrebbe portare prove a favore o contro perché la perfetta conoscenza della costituzione del mondo spetta solo al suo Autore.
E ciò è superiore a ogni intelligenza umana.
Questi argomenti, non molto originali in verità, verranno ripresi e resi decisamente più espliciti successivamente nella famosa “Professione di fede del vicario savoiardo”, contenuta nell’ “Emilio”(1762) dove l’universo viene presentato come una totalità governata da un ordine provvidenziale, desunto da una osservazione della natura stessa, non già “a-priori” come proponeva il modello deista.
Proprio le battute iniziali dell’ “Emilio” fanno capire infatti l’intento filosofico-politico di Rousseau il cui ottimismo è condizione indispensabile per criticare la condizione umana così come si presenta e per prospettare, partendo proprio da questa premessa, una società sostanzialmente nuova. “Tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo”.
Voltaire, che ha lasciato “Les Delices” di Ginevra per trasferirsi, nel 1758, nel (non molto lontano in verità) castello di Ferney per fondare il suo “quartier generale” e vivere circondato da una piccola corte personale riverito dai potenti d’Europa, prepara il suo contrattacco ponendosi veramente come il capo spirituale indiscusso dei “philosophes” della filosofia dei Lumi.
Contemporaneamente, nella periferia settentrionale d’Europa, arrivano gli echi di questa polemica e a Koenisberg Immanuel Kant, che ha poco più che trent’anni, vuole cimentarsi con questo drammatico tema.
Vedono così la luce ben tre saggi, che si propongono quale sintesi acuta ed estremamente originale del dibattito filosofico-scientifico del ‘700 di fronte ai problemi posti dalla tremenda catastrofe tellurica del 1755:
1) “Delle cause delle scosse sismiche in occasione della calamità che ha colpito le regioni occidentali d’Europa verso la fine dello scorso anno”;
2) “Storia e descrizione naturale dei più singolari eventi del terremoto che alla fine del 1755 ha scosso una grande parte della terra”;
3) “Il seguito della considerazione del Magister Immanuel Kant sulle scosse sismiche avvertite da qualche tempo”.
“Avvenimenti eccezionali, che toccano il destino di tutti gli uomini - scrive Kant aprendo il primo trattato - , suscitano a ragione quella lodevole curiosità che si desta per tutto ciò che è straordinario curandosi di indagarne le cause. In tal caso è un dovere vincolante nei confronti del pubblico che l’indagatore della natura offra un resoconto delle opinioni cui l’osservazione e l’indagine possono farlo pervenire”.
Come ogni evento che si manifesta sulla Terra, argomenta Kant, nel pieno di quella sua riflessione filosofica denominata “precritica”, anche i terremoti sono fenomeni naturali prodotti dalle medesime leggi di natura.
“..non intendo fare il resoconto delle calamità che hanno sofferto gli uomini ..( a causa del terremoto)..una tale narrazione sarebbe commovente….Io ora descrivo solo l’azione della natura, le sorprendenti circostanze naturali che hanno accompagnato lo spaventoso avvenimento, le sue cause”.
Tuttavia il pensiero kantiano è caratterizzato da una visione del mondo ottimistica di derivazione cartesiana, leibniziana, newtoniana che gli fanno considerare l’universo ordinato secondo leggi eterne imposte da Dio, ottimo pertanto, non perché debba realizzare dei fini. Trovano infatti qui conciliazione aspetti tipici della scienza moderna che prescinde da ogni causa finale e l’ottimismo metafisico di Leibniz appunto.
Gli uomini, in questo contesto, devono abbandonare ogni velleitario antropocentrismo e, sulla base dei risultati della scienza moderna e del rapporto tra Dio e il mondo, riconoscere l’indipendenza delle leggi naturali da ogni fine umano.
“L’uomo, dice Kant, è così compreso di se stesso da considerarsi come l’unico e solo scopo delle disposizioni di Dio… . Sappiamo che l’insieme tutto della natura è un ben più degno oggetto della saggezza divina e delle sue disposizioni”.
E ancora nei “Saggi su talune considerazioni sull’ottimismo”(1759) ribadisce in apertura che:
“Da quando ci si è fatto un concetto adeguato di Dio, forse nessuna idea è stata più naturale di quella che, quando Egli fa una scelta, sceglie sempre la cosa migliore. Se si è potuto dire di Alessandro che egli credeva di non aver fatto nulla fin tanto che gli restava da fare anche una sola cosa, con tanta infinita maggior giustezza ciò si dovrà dire del più buono e potente fra tutti gli esseri”.
Sono qui, come si vede, del tutto assenti le preoccupazioni socio-politiche così care a Rousseau alle cui critiche, per altro Voltaire rispose seccamente paragonando i suoi argomenti a dei “divertissement”.
Nel 1759, dopo due anni di lavoro, vede la luce (anonimo, per non incorrere negli strali del governo di Ginevra che, comunque ne ordinò la distruzione) “Candido -ovvero l’ottimismo”, il romanzo più famoso di Voltaire.
Viene qui inaugurato e portato ad alta dignità letteraria il “conte philosophique”, il racconto filosofico, un nuovo genere filosofico che consente a Voltaire di tracciare una spietata satira dell’ottimismo da un lato e di delineare le caratteristiche fondamentali del suo scetticismo o pessimismo “pratico” come è stato denominato.
E’ convinto assertore del deismo ed è fiducioso pertanto dell’esistenza, nella natura, di un ordine intrinseco. Le vicende umane, invece, vanno osservate con occhio disincantato, pratico appunto, teso a svelare la loro “follia” e irrazionalità.
Candido è un ottimista, ingenuo pertanto ed è accompagnato nelle sue avventure (narrate con tecnica “cinematografica” accelerata ineguagliabile) dal suo maestro, il leibniziano Pangloss. La fitte rete di avventure, colpi di scena a ripetizione che caratterizzano l’opera, mettono in rilievo con corrosiva ironia la “ragion sufficiente” di tutti i dolori, le vicissitudini, le ingiustizie, i tragici eventi che caratterizzano la quotidianità umana costretta a vivere su questo “atomo di fango” che è la Terra.
Candide e Pangloss sbarcano a Lisbona proprio il fatidico giorno di Ognissanti del 1755: appena mettono i piedi a terra questa comincia a tremare…
“Dopo il terremoto che aveva distrutto tre quarti di Lisbona -leggiamo nel VI capitolo- , i savi del luogo non avevan trovato di meglio, per scongiurare una totale rovina, che offrire al popolo un bell’autodafè; l’Università di Coimbra aveva proclamato che lo spettacolo di alcune persone bruciate a fuoco lento, in pompa magna, è infallibile segreto per impedire alla terra di tremare”. Dopo di che Pangloss verrà impiccato e Candido “…spaventato, interdetto, smarrito, tutto sporco di sangue, tutto palpitante, verrà udito proferire le seguenti parole rivolgendosi a se stesso: “Se questo è il migliore dei mondi possibili, cosa saranno mai gli altri?”.
Una volta distrutto il mito del migliore dei mondi possibili cosa rimane all’uomo?
“Il faut cultiver notre jardin”, risponde Candide-Voltaire, bisogna dedicarsi al proprio lavoro, senza alcuna garanzia che un qualunque sistema filosofico dia certezza alle nostre azioni e giustifichi il bene e il male che accadono. Respinto il deleterio ottimismo metafisico se ne apre un altro quello retto dalla ragione, una “raison” pratica, operativa, conscia dei sui limiti tesa a migliorare il mondo per quanto possibile. Almeno così si spera.
“ Di contro ai metafisici, ai preti e agli scienziati, che in ultima analisi escludono la libertà umana, lasciando l’uomo di fatto nella disperazione, solo una sospensione del giudizio sulla perfezione dell’universo può lasciare spazio a una sua perfettibilità” (Papi).
“Questo mondo, questo teatro d’orgoglio e d’errore, è pieno di sfortunati che parlano di felicità… (tuttavia)...un giorno tutto sarà bene, ecco la nostra speranza”.
“Un califfo una volta,
nella sua ultima ora
al Dio che adorava disse questo come sua preghiera:
“O unico re! o unico essere privo di limiti!
io ti reco tutto ciò che tu non possiedi nella tua immensità,
i difetti, i rimpianti, i mali e l’ignoranza”.
Ma avrebbe potuto aggiungere “la speranza“.
Così si conclude il poema di Voltaire sul tragico terremoto di Lisbona del 1755.
Più tardi Voltaire aggiungerà un punto di domanda dopo “speranza”.
FINESTRA 1
Voltaire "Quesiti sull'Enciclopedia",
"Mondo, il migliore dei mondi possibili"
“Mentre correvo in tutte le direzioni per istruirmi, incontrai alcuni discepoli di Platone. “Venite con noi, - mi disse uno di loro - siete nel migliore dei mondi; abbiamo superato di molto il nostro maestro. C’erano al suo tempo solo cinque mondi possibili, perché ci sono solo cinque corpi regolari; ma oggi, visto che c’è un’infinità di universi possibili, Dio ha scelto il migliore; venite, e ne sarete soddisfatto”.
Gli risposi umilmente: “I mondi che Dio poteva creare erano migliori o perfettamente uguali o peggiori: egli non poteva scegliere il peggiore; quelli che erano uguali, supponendo che ce ne fossero, non consentivano la preferenza: erano assolutamente gli stessi; non era possibile fare una scelta tra essi: scegliere l’uno equivaleva a scegliere l’altro.
È dunque impossibile che non abbia scelto il migliore. Ma come mai gli altri erano possibili, quando era impossibile che esistessero?”. Egli mi fece alcune bellissime distinzioni sostenendo sempre, senza dare alcuna spiegazione, che questo è il migliore di tutti i mondi realmente impossibili. Ma, sentendomi allora tormentato dal mal della pietra e soffrendo dolori insopportabili, i cittadini del migliore dei mondi possibili mi condussero al vicino ospedale.
Cammin facendo, due di quegli abitanti felici furono portati via da alcune creature simili a loro: li si mise ai ferri, il primo per qualche debito, il secondo per un semplice sospetto.
Non so se fui condotto nel migliore degli ospedali possibili; ma venni stipato assieme a due o tremila miserabili che soffrivano come me. C’erano lì numerosi difensori della patria, che m’informavano che erano stati trapanati e sezionati da vivi, che erano state tagliate loro braccia e gambe e che parecchie migliaia di loro generosi compatrioti erano stati massacrati in una delle trenta battaglie avvenute durante l’ultima guerra, che è pressappoco la centomillesima guerra, da quando conosciamo tali eventi.
Si vedevano anche, in quell’edificio, circa mille persone dei due sessi, che somigliavano a orribili spettri, che venivano toccate con un certo metallo perché avevano seguito la legge della natura e la natura, non so come, aveva preso la precauzione di avvelenare in loro la sorgente della vita.
Ringraziai le mie due guide. Quando mi venne conficcato un ferro tagliente nella vescica e vennero tolte alcune pietre di quella cava e quando poi fui guarito e mi rimasero solo alcuni lievi dolori, che non sarebbero mai più scomparsi, feci le mie rimostranze alle guide: presi la libertà di dire loro che c’era del bene in questo mondo, perché mi erano stati tolti quattro ciottoli dall’interno delle mie viscere straziate, ma che avrei desiderato assai di più che le viscere fossero lanterne invece che cave. Il più intraprendente di loro, che era un Tedesco (Lebniz,n.d.a.), mio compatriota, mi comunicò che tutto questo è una cosa da niente.
“Fu, - disse - un gran favore del cielo al genere umano che Tarquinio violentasse Lucrezia e che Lucrezia si pugnalasse: perché vennero cacciati i tiranni, e lo stupro, il suicidio e la guerra edificarono una repubblica che fece la felicità dei popoli conquistati”.
Faticai a convenire su tale felicità. Non compresi innanzitutto quale potesse essere stata la felicità dei Galli e degli Spagnoli, tre milioni dei quali, si dice, furono fatti morire da Cesare. Le devastazioni e le rapine mi parvero inoltre qualcosa di spiacevole; ma il difensore dell’ottimismo non se ne diede per vinto; mi disse, come il carceriere di don Carlos: “Pace, pace, è per il vostro bene”.
Infine trovandosi in difficoltà, mi disse che non bisognava prestare attenzione a questo piccolo globo terrestre, dove tutto va di traverso, ma che nella stella Sirio, in Orione, nell’occhio del Toro e altrove, tutto è perfetto. “Andiamo, allora, gli dissi. Un piccolo teologo mi tirò allora per il braccio; mi confidò che quelle persone erano dei sognatori, che non era assolutamente necessario che ci fosse del male sulla terra, che questa era stata formata apposta perché ci fosse sempre del bene.
“E per dimostrarvelo, sappiate - mi disse - che un tempo le cose andarono così per dieci o dodici giorni”. “Ahimè! - gli risposi - è un vero peccato, mio reverendo padre, che ciò non sia continuato”.
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