Anno 2 - N. 5 / 2003


LA RUOTA IDRAULICA ARCHITETTURA IN MOVIMENTO

di intervento e sfruttamento delle risorse fisiche naturali”

di Daniele Garnerone




Lo sfruttamento dell’energia idraulica risale alle prime manifestazioni di civiltà, anche se le testimonianze certe di una cosciente applicazione del fluire dell’acqua al movimento di un meccanismo complesso come la ruota idraulica sono piuttosto recenti. Il primo mulino ad acqua era orizzontale, simile ad una semplice turbina. Comparve nel V secolo a.C. in Grecia, proveniente forse dal Medio Oriente; un impianto a ruota distribuito su un asse verticale, tutto in legno. Rimase tale sino al basso Medioevo.
Per questa sua origine si definiva un tempo “mulino greco”, ma assunse anche l’appellativo di “mulino scandinavo”, dal territorio in cui maggiormente fu diffuso e lungamente utilizzato. Il mulino giunse in Europa centrale dal nord, praticamente invariato nello sfruttamento delle correnti. La ruota idraulica fu immersa in orizzontale nell’acqua di molti Paesi europei almeno sino a tutto il XVIII secolo e, su larga scala, anche sino al Novecento. Funzionò sino al 1920 in Germania, vicino a Berchtesgaden, Baviera.
Con la civiltà romana la ruota a pale era costituita da pale a vanga, sostegni e tiranti che organizzavano anche sistemi a cassette.
Una rivoluzione si ebbe con il drizzare della ruota in verticale, come del resto facevano già i Romani che, se non utilizzarono su larga scala la spinta idraulica limitando gli impianti di molitura solamente alla macina del grano, pure perfezionarono il sistema idraulico adattandolo a maggiori dimensioni e dotandolo delle prime trasmissioni meccaniche per muovere anche due coppie di macine. Bellissimo e machiavellico il meccanismo di trasmissione della forza idraulica alla ruota, sino alla rotazione finale della macina, che gira mediamente cinque volte di più della ruota motrice. La complessità e l’articolazione sono stati tali da raggiungere connotati d’eccezione e monumentalità nel sistema di Barbegal, nei pressi di Arles (Languedoc), dove vi sono impianti di origine romana; un acquedotto lungo oltre dieci chilometri che, con una condotta forzata, adduce acqua ad uno spettacolare impianto per la macina composto da diciotto ruote, montate in serie lungo un dislivello. Nel III secolo d.C. le ruote di Barbegal, alla foce del Rodano, macinavano grano per 80.000 persone.
Attorno all’anno Mille è testimoniata la presenza di “acquimoli” a Venezia, mulini che sfruttavano il movimento avanzante e rientrante delle maree della laguna. Un viaggiatore francese giunto in laguna si entusiasmò all’osservazione della sola ruota idraulica dell’isola di Murano, attivato “dall’acqua del mare in una via quando il mare cresce o decresce” (1).
Il medesimo principio fu applicato nei secoli successivi nei paesi arabi come nell’Occidente, in Francia – dove è oggi alla base del funzionamento della centrale “maremotrice” della Rance (240.000 kw) – ed in Olanda, qui perfezionato con sistemi automatici in connessione con la forza del vento.
Il mulino ad acqua per la tritatura e macina dei cereali sostituì la forza muscolare animale ed umana applicata alle macine della civiltà egizia ed orientale e, dal Medioevo in poi, attraverso una continua evoluzione, costituì per le modalità di organizzazione del lavoro e la strutturazione del territorio, il preludio al processo di industrializzazione. Uno spettro di applicazione quanto più vasto possibile: dalle ruote mosse dall’acqua per trasmettere forza ai piloni che frantumano la roccia per la lavorazione dei minerali, ai martinetti che battono il ferro per forgiare utensili, agli enormi battitori delle folle dei panni, ai mantici delle fucine. Ancora, pompe e mole per affilare lame, follatori per la preparazione della carta. Una immensa fabbrica funzionante a pelo d’acqua, con usi diversificati congiuntamente alla espansione del mulino a partire dal XIII secolo – grazie anche alla grandiosa opera di colonizzazione e bonifica dei Cistercensi – in particolare in Francia, Inghilterra e Danimarca. In questo senso fu essenziale il contributo dei monasteri, per il cui insediamento la regola cistercense riconosceva all’acqua un ruolo fondamentale. La stretta vicinanza di un fiume, fin’anco l’introduzione entro le mura di un corso d’acqua, con le dovute canalizzazioni e derivazioni all’impianto abbaziale, garantiva una continua riserva di energia per le attività della comunità monastica. La descrizione che il sociologo newyorkese Lewis Munford fa dell’Abbazia di Clairvaux, nella regione della Champagne-Ardenne (Aube), in una delle sue maggiori opere è, in questo senso, molto significativa: “Il fiume entra nell’abbazia per quanto lo permette il condotto in cui è incanalato. Zampilla dapprima nel mulino dove viene sfruttato per macinare il grano sotto il peso delle ruote e per smuovere il sottile setaccio che separa la farina dalla crusca. Poi defluisce nell’edificio accanto e riempie la caldaia in cui viene riscaldato per la preparazione della birra dei monaci, nell’eventualità che la fertilità dei vigneti non venga a premiare le fatiche dei vignaioli. Ma il fiume non ha ancora finito la sua opera: eccolo che passa alle macchine follatrici che sono subito dopo il mulino. Al mulino ha preparato il cibo dei frati e adesso è suo dovere contribuire alla preparazione dei loro abiti… così di volta in volta alza ed abbassa i pesanti martelli e i magli… delle follatrici… Adesso entra nella conceria dove dedica molta fatica e molta cura a preparare i materiali necessari per i sandali dei monaci; poi si divide in tanti piccoli ruscelli e, nel suo corso affaccendato, passa attraverso i vari reparti cercando ovunque quanti chiedono i suoi servizi per qualsiasi scopo, cucinare, rotare, schiacciare, innaffiare, lavare o macinare… infine per meritarsi i ringraziamenti più pieni e perché non resti nulla di incompiuto, porta via i rifiuti e lascia tutto pulito” (2). Una organizzazione dello spazio e del lavoro che non esula dalla organizzazione del tempo: fondamentale nella vita della comunità monastica il momento dedicato alla preghiera ed alla meditazione.
Queste complesse applicazioni meccaniche, così diffuse nei centri monastici, erano inconsuete in città, dove furono introdotte – anche in forme parziali – dopo molto tempo ed a prezzo di ingenti capitali. Le seghe meccaniche compaiono già a partire dal 1200, come dimostra uno schizzo del 1235 di Villard de Honnecourt, ma divengono di comune impiego solo molto più tardi. Nel 1603 Barthélémy Joly, attraverso il Giura e nella Vallée de Neyrolles, osservò, di presso allo sbocco del lago di Silans (Rhône-Alpes, Ain), una serie di mulini che lavoravano “il legno di pino e di abete gettato dall’alto ai piedi delle montagne scoscese; artificio ingegnoso, dal quale, con una sola ruota fatta girare dall’acqua, procedono diversi movimenti dal basso in alto e al contrario [sono quelli che fa la sega], mentre il legno avanza sotto quella, via via che lavora […], e un altro albero succede al posto [del precedente] con tanto ordine quanto avrebbe se ciò fosse fatto da mani umane” (3).
Con l’ulteriore espansione e perfezionamento dei sistemi, la trasmissione di forza idraulica fu impiegata anche in miniera, applicata ad argani per il sollevamento di benne e di carichi, per il pompaggio dell’acqua e l’aerazione forzata. Fino al Settecento, ed anche oltre, i complessi sistemi restarono pressoché inalterati; più tardi prese avvio una progressiva concentrazione in nuclei più ampi ed articolati. I progressi tecnici e scientifici e l’applicazione delle discipline matematiche e fisiche contribuirono in maniera determinante all’evoluzione del tipo della ruota idraulica, giungendo alle prime soluzioni progettuali delle turbine, estremo perfezionamento dello sfruttamento dell’energia derivata dall’acqua.
Il mulino riconduce ad un tipo architettonico particolare, derivato da una complessità di relazioni storiche con le risorse naturali. Due gli elementi imprescindibili in esame: l‘acqua, che diviene forza motrice, e la ruota, di legno o di ferro, più o meno grande, indipendentemente dalla sua collocazione, di sopra o di sotto, orizzontale o verticale, in ogni caso colei che imbriglia, trattiene per un poco e sfrutta il movimento dell’acqua.
Macchina semplice ed efficiente, “architettura in perenne movimento” (4), il mulino è esempio insuperabile di un modo sapiente e non conflittuale di intervento e sfruttamento delle risorse fisiche naturali. Architettura senza tempo perché espressione del contatto con la terra, dispensatrice – lei sola – delle risorse necessarie alla vita.
Il tessuto economico e produttivo del milanese è stato storicamente in grado di assorbire parte della propria produzione agricola, trasformando in loco la materia attraverso un processo lavorativo che, pur essendo riconducibile alle attività primarie, ha assunto connotati e contenuti di tipo industriale; sul territorio è possibile leggere, a nord come a sud, la complessa vicenda storica di questi “monumenti”, volta a volta ascrivibili al modello insediativo del singolo edificio – isolato o annesso ad una cascina – o al modello aggregato a sistema. Una capillare diffusione che ha strutturato distintamente l’area milanese: nella Bassa irrigua, in un paesaggio modellato sul radicamento – avviato nella seconda metà del Settecento e consolidato soprattutto nell’Ottocento – di grandi aziende agricole a conduzione capitalistica; nell’altopiano asciutto, dove il diverso rapporto tra insediamento e territorio origina da una diversa struttura, con l’agricoltura mai radicata per la diversa giacitura del suolo – permeabile ed arido – e diversi rapporti con i mezzi di produzione, complementari all’attività agraria e molto rilevanti sul piano economico e sociale come, del resto, rilevanti in ordine alla forma del paesaggio umano. La moltitudine di mulini ad acqua, singoli od accoppiati, isolati od articolati a sistema, autonomi o parte integrante di corti agricole, costituiscono testimonianze pre-industriali di attività artigianali che, a parte talune notevoli eccezioni (Mulini Certosa, Mulino Stucky) (5), hanno mantenuto nel tempo e nei luoghi la propria matrice rurale. In questo senso – in quanto testimonianza dello sfruttamento dell’acqua per garantire il funzionamento delle macchine, ed in quanto episodio “maturo” dal punto di vista industriale che ha origine da precedenti e consolidati modelli rurali – il complesso dei Molini della Certosa, ad otto chilometri da Pavia, costituiscono un simbolo della transizione tra le attività di produzione agricola ed industriali, tra l’architettura rurale e quella industriale (6). Si tratta di un vasto complesso costituito da tre corpi principali – il maggiore dei quali elevato su sei piani – realizzato su progetto dell’ingegnere Cesare Luzzato, per ordine della Ditta Bertuch e C., a ridosso del Naviglio Pavese, sul luogo dove erano due piccoli mulini artigianali. Dalle pagine della rivista illustrata “L’industria” si legge: “Le tradizioni che volevano il mulino piccolo sono state rotte dai facilitati trasporti di terra e di mare […] e infine dall’influenza di un ambiente industriale in cui la meccanica signoreggia […]. Laddove sorge il grande mulino, che coi suoi migliorati prodotti inonda i vicini centri di consumo, il piccolo e vecchio mulino scompare” (7). Le notevoli dimensioni e l’elevata dotazione di tecnologie – davvero avanzate all’epoca di costruzione, 1886 – fecero classificare i Molini della Certosa fra i principali impianti industriali in Italia (8), assecondando un ideale di organizzazione del lavoro che la classe imprenditoriale lombarda auspicava – secondo Cesare Saldini – concretizzarsi in “stabilimenti inondati di aria e di luce, alti cinque o sei piani e con forze motrici da cento a mille cavalli” (9). L’architettura attinge ai moduli stilistici della tradizione costruttiva anglosassone e nord europea: grandi volumi in mattoni a vista, con solai e travature in legno e colonne in ghisa, aperti da teorie di finestre identiche e caratterizzati da citazioni medioevali – le merlature sopra i silos – seconda la cultura ottocentesca che del recupero degli stili passati aveva impregnato manifestamente l’architettura industriale. L’orologio incassato nella facciata principale è un elemento che, ancorché sconosciuto nel campionario dei mulini, ben rappresenta la vocazione industriale ed i ritmi del lavoro del grande complesso sul bordo del Naviglio Pavese.
L’insediamento dei mulini alla località Torre del Mangano origina dalla necessità di disporre dell’abbondante acqua del naviglio, introdotta nel fabbricato e convogliata su tre turbine predisposte al movimento di macchinari per la macina e la pulitura del grano e per la produzione di elettricità per l’illuminazione interna, ma anche per il collegamento con il capoluogo milanese, sia attraverso il corso d’acqua, via navigabile, sia lungo la strada per Milano, percorsa anche dalla tramvia a vapore della linea Milano-Binasco-Pavia. Davvero d’eccezione l’organizzazione interna del lavoro, strutturata su un sistema integrato di collegamenti orizzontali e verticali, di elevatori che trasferivano il grano al piano più alto per farlo ricadere ai livelli inferiori, sistematicamente raccolto e condotto attraverso nastri ai diversi reparti. Le fasi di lavorazione, dalla pulitura dei grani all’insaccamento e stivaggio delle farine, costituivano, nella graduale ed automatica realizzazione con minimo spreco di spazio e di tempo, l’applicazione rigorosa dei principi del “molino moderno” secondo i quali la partecipazione attiva dell’uomo passava in secondo piano, dato che, come osserva Saldini “[…] agli operai non restava altro che la pura sorveglianza dei meccanismi al fine di assicurare la continuità del funzionamento, tanto più necessario in quanto ogni macchina è legata alle seguenti e tutte lo sono tra loro” (10). I Mulini Certosa, che oggi ospitano nelle ottocentesca struttura moderni impianti (dell’originaria dotazione impiantistica è rimasta una turbina Riva, attiva tra il 1939 ed il 1966 (11)), costituiscono ancora oggi uno dei casi significativi del modo di costruire per tipi architettonici verticali (la fabbrica alta) che segnarono il passaggio da una struttura sociale agricola a quella industriale. Nato dall’esigenza di provocare la caduta gravitazionale dei cereali, il verticalismo dei Mulini Certosa – e generalmente di tutti gli opifici ottocenteschi – instaurò un nuovo rapporto gerarchico e dialettico col paesaggio agrario della pianura, piatta e solcata da una fitta rete di corsi d’acqua.
L’abbondante distribuzione dell’acqua ha favorito nei secoli la diffusione del mulino, conosciuta sin da Vitruvio. Tra il ‘400 e la prima metà del ‘500 fu determinante l’intervento e l’opera delle Signorie dei Visconti e degli Sforza per imprimere al territorio lombardo quelle forme e strutture agrarie rimaste pressoché immutate sino all’Unità d’Italia, quando la rete irrigua fu ulteriormente e sistematicamente ampliata. I nomi dei corsi d’acqua di derivazione irrigua ricordano frequentemente la presenza di torchi, folle, mulini, gualchiere e pile; sui disegni e sulle mappe più antiche compaiono Roggia Molina, Cavo della Pila, Roggia della Masnadora (da masn’à, macinare), Cavo Masnengo, Fosso del Torchio, a testimoniare la capillarità della diffusione sul territorio delle attività di macina e molitura, insediate non solo in manufatti edilizi ma sovente anche sulla medesima acqua, su chiatte e barconi, come testimoniato da antichi documenti: “In questa figura quintadecima si mostra un Molino, che si adopera giornalmente sul Fiume Po. Nel nostro Paese di Lombardia abbiamo molte Seriole, che servono à Molini, mà ne abbiamo ancora molti nel Fiume Po, li quali sono Machine bellissime da osservare, come si vede nel dissegno la sua forma. E per dare qualche poco di lume, come sono fatti, dirò prima, che vi sono Barche A.B. dette da noi Soldini, quadri nel fondo, come due Cassoni, lunghi brac. 25. larga la prima A. brac. 5. alta di sponde brac. 3 e mezo, e l’altra Barca B. larga solo brac. 3 e mezo, alta di sponde brac. 3. la punta C. alta brac. 7 e mezo dal fondo della Barca fino alla cima C. queste due barche son fatte d’assoni di Rovere, grossi due onc. Vi sono poi li travi, che traversando le due Barche, le tengono insieme, e frà questi v’è la Ruota da acqua, fatta attorno l’albore, lungo brac. 17. in circa, la quale è lunga brac. 10 e larga di diametro brac. 6. con pale di asse di Pioppo n. 16. larghe onc. 7. la qual Ruota è fatta intellerata con certe catene di legno leggiero, e poi detto arbore ha inficcato dentro la Ruota dentata, larga di diametro bra. 5 e mezo, con denti 108, la qual volta il carrello sotto le Mole, c’ha Fusi 9. le Mole sono larghe di diametro brac. 2 e mezo, grosse onc. 6 e 7. in circa. Questa grande Machina di Molino hà molte cose, che lo spiegarle sarebbe troppo lungo, dirò solo che questo Molino macina un Sacco di Formento ogni ora, è che volendo fabbricare tal Machina è necessario pigliar Maestri, che siano pratichi e perfetti in tal’arte”(12).
La Carta dei dintorni di Milano, datata al XVII secolo, costituisce una base documentale che evidenzia come la diffusione dei mulini, dei torchi e delle folle nel territorio milanese fosse già ben consolidata agli inizi del Seicento (13).
Molino, Mollinazzo, Mulinetto, Mulinaccio, Foletta, Folazza, la Fola sono toponimi riconducibili all’intenso sfruttamento delle acque di derivazione dai fiumi principali, il Ticino e l’Adda, ma anche il Lambro.
Diverse condizioni morfologiche hanno visto prevalere il modello insediativo aggregato a sistema, lungo i fiumi dell’altopiano, rispetto alla capillare distribuzione “a pioggia”, per singoli episodi, che caratterizza la Bassa irrigua. La vicinanza alla capitale del Ducato e alle maggiori vie di comunicazione ha svolto una notevole influenza, interagendo in particolare con un altro forte elemento di strutturazione del territorio milanese, quel sistema dei navigli che nel corso del XVII secolo era ancora ben lontano dall’esser compiuto. In relazione stretta con gli assetti fondiari, la diffusione di ruote idrauliche fu incentivata dalla proprietà nobiliare che godeva dei diritti di controllo e gestione delle acque, di dazio e di monopolio per privilegio feudale o per acquisto e che, per questo, esercitava funzioni di governo più attento e diretto sulla terra e sulla sua conduzione; alle nobili casate del Ducato si fanno risalire i nomi di taluni corsi d’acqua di derivazione irrigua: la Roggia Serbellona, il Cavo Borromeo, la Roggia Trivulzia e la Roggia Viscontea, il Naviglio Sforzesco.
Se i mulini della Bassa presentano caratteri architettonici simili, pure si distinguono due tipi particolari nella forma isolata sul fondo agricolo, al bordo di una roggia, ed in quella aggregata alla cascina, frequentemente ad un vertice di essa e talvolta inserita e compresa nel vasto organismo rurale. Mentre è comune il laterizio come esclusivo materiale costruttivo, a vista od intonacato, pianta ed alzato recano in sé differenze tali da caratterizzare i mulini per proprie specifiche funzioni. Il mulino tipico ha pianta pressoché quadrata, dimensione più o meno massiccia che reca in sé ogni spazio necessario alla autonomia di gestione della comunità rurale: dalla ruota idraulica alla macina, sino all’abitazione del mugnaio, attraverso i piccoli spazi per i suoi aiutanti, il portico, la stalla, la dispensa, i rustici; caratteristica frequente per i mulini della Bassa l’accesso agli ambienti interni collocato indistintamente su tutti i lati del nucleo rurale.
Una delle più antiche testimonianze riferibili ad un mulino ancor oggi esistente è documentata in una consegna del Molino della Rocca Brivio, localizzato presso l’omonimo palazzo seicentesco, nel territorio di San Giuliano Milanese. La carta, che risale al 1507, descrive un “molendino uno posito in loco de la Rocha plebis Sancti Juliani ducatus Mediolani […] cum rodiginis Quatuor in quo molendino sunt cassys duo domus in terra cum suis solarys stalla cum furno murata et cupata orto curte et alys suis pertinentys et juribus” (14). Ben lungi dal rappresentare un unicum architettonico, la descrizione testimonia della tipica organizzazione spaziale di un mulino lombardo del XVIII secolo. In concreto, si descrive un edificio su due livelli, non molto elevato dato che il piano superiore è costituito da un solaio in legno; accanto all’abitazione, la stalla ed il forno. A volte i mulini maggiormente articolati presentano un torchio e la pila per brillare il riso, gli spazi per il deposito delle granaglie ed i rustici per gli animali di corte. Fuori, più frequentemente davanti alla macina e alla cucina, è il portico, comune a tutti gli insediamenti rurali della pianura irrigua e della cui utilità non v’è alcun dubbio, da molti trattati di architettura sottolineato nel corso dei secoli (15). Marco Rosci così descrive i disegni di Sebastiano Serlio: “Se […] consideriamo gli alzati con i portici correnti lungo l’intera fronte della fattoria e dei rustici, retti da tronchi e da pilastri in laterizio, il tutto sottoposto ai grandi tetti a falde, noi abbiamo un tipo edilizio, ch’è ancor oggi, quello delle grandi cascine dell’Italia Settentrionale” (16).
Nei mulini il portico circonda più spesso l’edificio su tutti i lati, destinato a deposito degli attrezzi come a luogo di vita e lavoro, tanto che in taluni casi, come nel Mulino di Cervignano d’Adda, si spinge a coprire anche la strada di accesso al nucleo rurale.
Isolamento e compattezza edilizia caratterizzano questo particolare tipo di abitazione rurale e lo contraddistinguono dalla più complessa ed articolata corte agricola della pianura, cui fa comunque riferimento non solo in termini architettonici e spaziali ma anche in relazione ai rapporti di produzione ed allo spirito sociale delle masse rurali. Il mugnaio, figura pressoché scomparsa nel composito paesaggio delle attività legate alla terra, ebbe certo una posizione di tutto rilievo in passato, ed il suo lavoro costituì un valido sistema di controllo dell’economia agraria; per questi presupposti nel luglio del 1868 fu introdotta la tassa sul macinato, iniqua imposizione ampiamente avversata dal popolo, anche con iniziative dirompenti e di contrasto nei confronti del Governo, sino alla interruzione della attività molitoria. Il molinaro, con al massimo due famiglie di braccianti alle dipendenze, svolgeva il proprio lavoro in due ambienti: il mulino vero e proprio e la casa da grano, ossia il deposito delle granaglie, sino al Settecento situato accanto al molino, poi, a partire dall’Ottocento, al di sopra di esso, in uno spazio murato e pavimentato a pianelle. Qui una botola consente la caduta delle granaglie direttamente nella macina sottostante.
Il corso d’acqua lambisce un lato del mulino ed aziona le ruote, prima in legno poi in ferro, alcune enormi. Il locale della macina è l’ambiente più importante, attrezzato con macchinari complessi, dotato di finestre e pavimentato prima di altri ambienti, mentre ancora di terra battuta era il pavimento di tutte le abitazioni. I complessi molitori più grandi avevano anche altri ambienti di lavoro, strettamente connessi agli ordinamenti colturali delle diverse zone, come il Sito della Pista da Riso o il luogo del Torchio d’Olio oppure la Burattera, quel laboratorio predisposto alle operazioni di separazione della farina dalla crusca. Di maggiori dimensioni erano le Folle, edifici nei quali si svolgevano le diverse fasi di lavorazione dei panni e dei feltri o della carta direttamente dagli stracci, con operazioni di triturazione e pressatura particolarmente complesse.
Del nucleo del mulino facevano parte integrante anche gli spazi destinati all’allevamento del bestiame, in particolare dei cavalli necessari al trasporto delle derrate alimentari od impiegati nei lavori sui piccoli fondi agricoli dei mugnai, progressivamente separati dal corpo di fabbrica principale a far tempo dal XVII secolo.
Le strutture che all’esterno caratterizzano il mulino, poste a diretto contatto con l’acqua in modo più o meno complesso, sono andate evolvendosi sino all’Ottocento, quando ha preso avvio il processo di industrializzazione del territorio. L’introduzione del ferro nei collegamenti meccanici e, soprattutto, nel corpo della ruota, ha notevolmente accresciuto la potenza del mulino seicentesco a tre ruote in legno, cui corrispose nell’800 una sola grande ruota metallica. E la ruota costituisce nella maggior parte dei casi la componente più significativa del complesso meccanismo, dando luogo ad un ricco campionario di tipi: ruote grandi scoperte, singole, accoppiate, all’aperto e al di sotto una tettoia, inserite fra due corpi di fabbrica, seminascoste ed incassate, ruote del tutto nascoste in un apposito locale sovrapposto ad un corso d’acqua. Due sottotipi sono definiti Undershot ed Overshot: nel tipo Undershot la ruota, immersa nella parte inferiore, è mossa da sotto per la pressione dell’acqua sulle pale; più efficiente e meno soggetto a rischi di esondazione è il tipo Overshot, nel quale l’acqua, condotta sulla ruota dall’alto, è raccolta non già dalle pale ma da una sorta di secchi; movimento non originato da pressione ma da forza di gravità. La ruota Poncelet aprì successivamente la strada alle moderne turbine: si tratta di una ruota metallica strutturata con un gran numero di pale ricurve sulle quali l’acqua è condotta di fianco, dopo aver preso velocità attraverso una deviazione. Ancor oggi è possibile osservare diversi tipi di ruota idraulica, dalla più semplice mossa da un modesto salto dell’acqua, come nel caso del Mulino di Carpianello (San Giuliano Milanese), al complesso impianto idraulico della Folla di Zivido, frazione dello stesso Comune. A volte il fosso scorre sotto l’edificio e la ruota vi è incassata all’interno. È il caso del mulino della Cascina Guastalla, un nucleo rurale nel territorio di Noviglio (MI) composto da più corpi di fabbrica organizzati attorno ad una corte quadrangolare, attraversata da nord a sud dalla Roggia Trivulzia; la roggia corre in parallelo ad un lungo edificio ed un tempo alimentava il movimento di una ruota nascosta in un locale, sottopassato dall’acqua. Analogo esempio è il Molino Segruna, isolato nella campagna lungo la strada che da Mairano conduce a Tavernasco, ancora nel Comune di Noviglio. Qui un casotto sovrasta il corso d’acqua, raccogliendola attraverso un arco e restituendola a valle, senza nulla lasciando trasparire all’esterno. Si tratta di una soluzione che, ancorché motivata da scelte formali e condizionata da una tecnologia che sfrutta al massimo la forza idrica del fossato, preserva la macchina dell’impianto dal degrado dovuto all’esposizione alle intemperie.
Nelle consegne d’affitto del XIX secolo sono descritte frequentemente e con abbondanza di particolari le diverse componenti dell’impianto di un mulino: il Nervile, la “ponticella del Nervile[…] coperta da tetto in due pioventi, sostenuto all’estremità da pilastri di cotto, e da due colonnette di granito nel mezzo […] otto sono le aperture di questo nervile […], alberi con ruote, palettoni e tavelli ciascuno con due vere e pollici di ferro” (17).
In una relazione datata 2 settembre 1852 sono così descritti i lavori di ricostruzione del Mulino detto Delle Torrette, presso la Cascina San Gregorio Vecchio (nel Comune di Milano), sulla Roggia Molina: “Questo Mulino è a due ruote animate dalla acque della Roggia Molina diramazione del fiume Lambro, al quale si restituiscono […]. L’edificio esterno impiantato in letto vasto è a quattro ruote con fuga, o spazzera come dicesi comunemente, nel mezzo […]. I vivi saranno tutti in granito bene lavorati e rifilati a perfetta unione assicurati con chiavelle di ferro. I muri saranno in calce dell’Adda e mattoni forti” (18).
Un mulino indipendente che ben rappresenta per stato di conservazione e continuità di funzioni – mantenute sino alla fine degli anni Ottanta – questo tipo di insediamento produttivo è a Cervignano d’Adda. Costruito a cavaliere della Roggia Codogna, è composto da due fabbricati appaiati, dei quali uno risulta essere pressoché intatto, integro anche nell’impianto meccanico e dotato di una tettoia a coprire un tratto della strada detta Via del Mulino, sì da garantire il necessario riparo alle intemperie durante le operazioni di carico e scarico. Le apparecchiature di macina sono in gran parte in legno, distribuite in tre vani, due al piano terreno ed uno al livello superiore; delle quattro ruote in ferro di cui era dotato il mulino ne è conservata solamente una.
Il mulino doppio, molto diffuso nella Bassa e sopravvissuto in pochi esemplari, era per lo più costituito da due corpi di fabbrica con funzioni diverse, quasi sempre un mulino ed una folla, autonomamente organizzati. Alla confluenza tra la Vettabbia ed il Redefossi, nella vallata fluviale del Lambro, è insediato il Mulino della Valle, nel Comune di Melegnano (MI). La corte risulta organizzata attorno alla massa quadrilatera del corpo di fabbrica più antico, divenuto possessione del Casato Brivio sin dal 1662 (19). Fu il nobile casato dei Brivio che, già proprietario di vaste terre nella zona, dette opera tra il ‘400 ed il ‘500 al piano di irrigazione con la apertura della Roggia Nuova Brivio, strutturandovi poi il corso con una serie di mulini organizzati a sistema, esteso anche alla Roggia Spazzola che scende parallela alla Via Emilia. Il mulino è organizzato su tre ambienti di vita domestica e sugli spazi del lavoro, della macina, con il locale della pista del riso, la stalla dei cavalli. Più oltre la Vettabbia è un edificio che risale almeno al Settecento – appare nella Mappa Carlo VI (20) – e che potrebbe essere appartenuto a lungo ad altra proprietà, dato che non risulta mai citato nei documenti afferenti il Mulino della Valle.
Un interessante campo di studio è il territorio di Casterno, una delle quattro frazioni di Robecco sul Naviglio, nella Valle del Ticino, dove insiste un sistema integrato di mulini ad acqua (21). La vicenda storica dei mulini di Casterno prese avvio nell’alto Medioevo, al momento della fondazione del monastero di Sant’Ambrogio ad Nemus (800), e di cui restano tracce. L’insediamento fu determinato da ragioni di notevole importanza, trovandosi al centro di una fertile terra di produzione e trasformazione del frumento destinato a Milano. Furono probabilmente distrutti, assieme a Casterno, nel 1245 da Federico II, nipote del Barbarossa, come azione strategica per isolare la capitale del Ducato. Alla fine del Settecento è possibile che i cinque mulini fossero attivi e lavorassero per la popolazione della valle.
Lungo la Roggia Remarcia e non lontano dalla località Carpenzago, è insediato il Mulino Ceriani, del quale non si è in grado di risalire alla datazione. L’abbandono di cui soffre da tempo ha il riflesso nell’asportazione di talune componenti importanti, mentre la ruota metallica, in sito, risulta corrosa dagli agenti atmosferici. Il Mulino Pietrasanta – già Molinetto dei Frati alle dipendenze del Monastero di Casterno – conserva le due ruote in ghisa originarie e le due macine (misurano al dimetro 130 cm), una delle quali, a spicchi, proveniente dalla Francia e l’altra dalla bergamasca. Un affresco del 1404 sulla facciata principale è stato staccato negli anni Settanta e trasferito all’interno della Chiesa di Carpenzago. Verso sud, oltre il Mulino Grande, già in Comune di Magenta, si raggiunge il Mulino Marchesonia, sito nei pressi dell’omonima cascina, attiva dai primi dell’800. Della originaria struttura erano conservati gli ingranaggi in ghisa ed una ruota, mossa dalle acque regolate da un sistema di porte in ferro. Ad ovest di Robecco, in mezzo alla vallata e vicino alla Cascina Grande, è il Mulino Albani, alimentato dalla Roggia Vergo, la maggiore della valle. L’acqua non muove più la grande ruota metallica ma l’impianto visitato negli anni Ottanta era in condizioni tali da poter ancora funzionare. A monte si trova il Mulino Santa Marta, del 1870, che dell’originario impianto conserva ancora solamente la grande ruota interna (misura 470 cm di diametro e consta di 40 pale), chiusa in un locale, ed una ruota in pietra. Oltre agli ingranaggi in legno rimasti, il mulino era provvisto anche di pestelli per pestare il mais e di macchinari per la raffinazione del riso. Il sistema dei mulini di Casterno ebbe origine grazie alla abbondanza d’acqua della zona, di cui il Vergo costituisce il corso più importante, ingrossato solamente con l’acqua sorgiva dei fontanili Guadà, Lucertone e Laghetto. Il Fontanile Guadà ha la testa a Boffalora, scorre ad est della vallata