Anno 2 - N. 5 / 2003


OTIUM ET NEGOTIUM

FILOSOFI A TAVOLA

I banchetti di Talete, Pitagora, il picnic di Rousseau, per Kant un solo pasto al giorno per esaltare la convivialità.

di Giuliano Tessera




Nella tarda primavera del 585 avanti Cristo a Mileto, fiorente città mercantile fondata da coloni greci nella Ionia, in Asia Minore, sta per avere luogo una eclissi solare, prevista da Talete, "il più venerando per sapienza tra tutti gli astronomi", secondo il quale, come ci attesta tra le numerose testimonianze Diogene Laerzio, sarebbe stata l'acqua il principio dell'universo e il mondo sarebbe animato e pieno di demoni.
Ma , anche per un precedente straordinario e personale successo, è anche il giorno in cui Talete, "fra i Sette Sapienti, portento nell'astronomia", ha deciso di offrire un banchetto a quanti più amici possibile.
È questa anche l'occasione per dimostrare la possibile "utilità" della filosofia contro tutti quei denigratori (ed erano in molti) che gli attribuivano l'abitudine di avere sempre gli occhi al cielo, la testa fra le nuvole e di non preoccuparsi neppure di ciò che aveva innanzi, tra i piedi e che, spesso, ricordavano la sua incredibile distrazione che (come ci tramanda Platone), lo avrebbe fatto cadere un giorno in un pozzo, provocando anche il riso irrefrenabile e lo scherno di una servetta tracia.
L'occasione, in questo caso, come attesta Aristotele, che ce lo dipinge come sapiente si, ma anche astuto mercante, è determinata dalle sue capacità di previsione.
Sempre in base a computi astronomici, infatti, aveva intuito che ci sarebbe stata, al tempo opportuno, una abbondante anzi straordinaria raccolta di olive. Per cui, ancora nel cuore dell'inverno, semplicemente disponendo di una piccola somma di denaro, aveva deciso di accaparrarsi tutti i frantoi di Mileto e di Chio sborsando a chi li possedeva, una cifra irrisoria perché non ce n'era allora richiesta.
Quando giunse il tempo della raccolta, poiché molti cercavano i frantoi, tutti insieme e con urgenza, Talete li dette a nolo al prezzo che volle e così, raccolte molte ricchezze, dimostrando in tal modo che per i filosofi è davvero facile arricchirsi, se lo vogliono, anche se non è di questo che si preoccupano. Così ci tramanda Aristotele nella "Politica".
Lo spirito pratico di Talete, studioso di geometria, astronomia e meteorologia ha determinato questo suo successo. Ora, raggiante, attende gli ospiti nella sua dimora.
Il banchetto è allestito opportunamente e armoniosamente imbandito sulla lunga tavolata che, in bella mostra, né poteva essere altrimenti, presenta vivande naturali, semplici e genuine: focacce, verdure di stagione, frutta di ogni tipo, carne arrostita, vino e acqua fresca. In quantità straordinaria poi, crude, cotte al forno, condite e profumate con ogni varietà di aromi spontanei dal profumo penetrante, olive, fragranti e appena raccolte. Il tutto è imbandito in un ambiente sobrio ed elegante, corrispondente in realtà al carattere e allo stile di un uomo tendenzialmente pratico ma di gusti raffinati. In questa scenografia è messo in evidenza il prezioso tripode "tratto su dall'acqua" dai pescatori di Mileto e giunto nella sua casa per volontà dell'oracolo di Delfi che aveva sentenziato di donarlo a chi, tra tutti, avesse primeggiato per sapienza. Ulteriore dimostrazione delle sue doti non comuni.
Mentre tutti si cibano in perfetta letizia e serenità allietati dal sommesso suono di una cetra rallegrandosi per tale squisita ospitalità, il sole, progressivamente e inesorabilmente, comincia a oscurarsi. Come previsto. Era il 28 Maggio del 585 a.C., data di nascita, per molti, della filosofia occidentale.

Tra i maggiori segreti custoditi dai pitagorici si tramanda questa distinzione: gli esseri viventi dotati di ragione si distinguono in dei, uomini, ed esseri come Pitagora, fondatore della filosofia italica, figlio di Mnesarco, incisore di pietre preziose per anelli.
Era probabilmente originario di Samo, isola della Ionia prospiciente Efeso e Mileto dove nacque, se si vuole una data, verso il 575 a.C.
"Giovine e avido di scienza, abbandonò la sua patria (forse perché avversato dal tiranno Policrate) e fu iniziato a tutti i riti misterici, sia greci sia barbari". E fu poi in Egitto, quindi presso i Caldei e i Magi, e successivamente a Creta, poi ancora a Samo per approdare infine a Crotone d'Italia dove si stabilì ed ebbe origine, diffusione e fama la sua scuola, favorita probabilmente anche dal governo aristocratico della città. Così apprendiamo da Diogene Laerzio nelle sue "Vite dei filosofi".
La sua figura, ben presto, divenne leggendaria: "ebbe un portamento così grave e dignitoso che i suoi discepoli credettero che fosse Apollo venerato dagli Iperborei".
E non era affatto facile diventare discepolo di Pitagora.
L'apprendistato, o meglio l'iniziazione, era durissimo, denso di severissime regole e imposizioni: dopo aver abbandonato ogni proprietà (i discepoli) osservavano per un quinquennio il silenzio, "erano soltanto uditori e non vedevano mai Pitagora fino a quando non ne fossero stati giudicati degni". Solo allora erano ammessi alla sua casa e al suo cospetto e soprattutto potevano cominciare a prendere dimestichezza coi suoi simboli, con le sue regole, coi suoi divieti, con le sue concessioni.
"Non attizzare il fuoco con un coltello, non far tracollare la bilancia, non sedere sulla chenice (misura di grano), non mangiare il cuore, aiuta a deporre il carico e non aggravarlo, abbi le coperte sempre legate insieme, non portare in giro un'immagine di divinità incisa nell'anello, non lasciare nella cenere la traccia della pentola, non far pulizia nella seggetta con una fiaccola, non mingere rivolto al sole, non camminare fuori della via, non stringere la mano con facilità, non avere rondini sotto il tuo stesso tetto, non allevare animali dagli artigli adunchi, non mingere né fermare il passo su unghie o capelli tagliati, allontana da te il coltello affilato, quando abbandoni la tua patria non ti volgere indietro ai confini….". Dove ad esempio col simbolo citato "non far tracollare la bilancia", voleva intendere "non violare l'equità e la giustizia", e così via per ogni simbolo e precetto.
Ma "soprattutto attese allo studio della forma aritmetica della geometria e scoprì il canone monocordo…". Apollodoro, il teorico del calcolo, afferma che egli sacrificò un'ecatombe, per avere scoperto che il quadrato dell'ipotenusa in un triangolo rettangolo è uguale ai quadrati dei suoi lati.
E vi è un epigramma che dice: "Quando Pitagora scoprì la famosissima figura, allora per essa compì un famoso sacrificio di buoi".
Finchè, inaspettatamente arrivò il giorno in cui una relativamente ristretta cerchia di discepoli venne convocata da Pitagora in persona per condividere la tavola e essere messa al corrente di importanti comunicazioni.
E così fu.
Con aria titubante e reverente i discepoli giunsero all'ora convenuta, provenendo da ogni parte della città e della Magna Grecia. Molti di loro mai avevano avuto il privilegio di poter vedere e udire direttamente il divino Pitagora. Questi, in fondo all'ampio porticato circondato da alte colonne, si ergeva maestoso avvolto in un ampia veste di lana candida e leggera lasciando intravvedere la sua coscia d'oro. Accanto aveva la moglie Teano e la figlia Damo, alla quale, ed era una donna appunto, affiderà le sue memorie.
Ma Pitagora, si sa, teneva in alta considerazione le donne.
A questo punto, direttamente da Pitagora i suoi discepoli poterono constatare la veridicità di quanto si andava dicendo circa le regole alimentari. Sulla tavola infatti, sia pur in bella mostra, comparivano soltanto ciotole con miele, pane, verdure cotte e crude, poca carne arrostita, ma non di bue aratore, pochi pesci ma non il pesce fragolino e il melanuro e neppure il cuore degli animali né montone né, soprattutto, fave.
Eppure, a proposito della carne, come afferma Favorino nelle sue "Memorie", Pitagora aveva introdotto proprio una dieta a base di carne per gli atleti, che precedentemente erano nutriti a base di fichi secchi, formaggi molli e alimenti a base di frumento. Per quanto riguarda poi il divieto assoluto di cibarsi di fave è da considerare una testimonianza di Aristotele che ritroviamo nello scritto "Sui Pitagorici", dove si dice che queste sono simili sia al sesso sia alle porte dell'Ade, sia perché corrompono, sia perché sono simili alla natura dell'universo sia perché appartengono all'oligarchia (perché con esse si fa il sorteggio). Comunque sia , prima di rendere note le tanto attese comunicazioni e per chiarire il motivo della convocazione straordinaria, un'ultima non nuova raccomandazione viene rivolta ai discepoli: "Non gustate ciò che cade nel giro della mensa", probabilmente per abituarli a non mangiare smoderatamente sia perché, come ci dirà Aristofane, "le briciole appartengono agli eroi".
La verità indicibile, il segreto dei segreti che stava per essere rivelato concerne la scoperta drammaticamente traumatica di grandezze incommensurabili, come la diagonale e il lato del quadrato. Non a caso, come è stato detto, a proposito di queste grandezze si ricorrerà ai concetti di incommensurabile e anche irrazionale, che sfuggivano al criterio pitagorico di razionalità. Tale sciagurata scoperta minava alle radici tutta l'impalcatura teorica della scuola costruita attorno al numero concepito come principio di ogni cosa, esprimibile sempre con numeri interi.
Conscio di ciò, temendo ciò che sarebbe potuto accadere e che accadrà quando Ippaso di Metaponto divulgherà la scoperta e perciò sarà scacciato dalla comunità pitagorica o forse addirittura ucciso, Pitagora lascia che i discepoli, benché sbigottiti, si cibino, se ne sono ancora in grado, di quanto approntato.

Il 15 dicembre 1757 Jean-Jacques Rousseau "sloggia sdegnosamente" dall'Ermitage dove aveva goduto dell'ospitalità di M.me d' Epinay che gli aveva consentito uno dei periodi di maggiore fecondità del suo pensiero, per trasferirsi, con Teresa Le Vasseur (una giovinetta semi analfabeta dalla quale ebbe cinque figli, tutti abbandonati all'ospizio dei Trovatelli, che costituirà il suo tormento per tutto il resto della vita), nella casetta messa a disposizione dal maresciallo di Luxembourg e sua moglie a Montmorency, presso Parigi.
Qui, in un ambiente tranquillo e protetto, senza essere disturbato, porterà a compimento la "Nuova Eloisa", scriverà il "Contratto Sociale", comincerà a meditare le "Confessioni" e vedrà la luce "Emilio", romanzo dell'educazione ideale indirizzata all'umanità intera. Circondato dalla natura e da persone non invadenti ha modo di stemperare, almeno un pò, impegnandosi a fondo nel lavoro, il suo spirito polemico e spesso ossessivo contro la filosofia, la società, la civiltà corruttrice, con i costanti e testardi richiami ai "bei tempi, i tempi della virtù di ogni popolo, ...quelli della sua ignoranza". Ha pensato di organizzare (si fa per dire) un momento conviviale con amici e amiche sopportabili, possibilmente all'aria aperta.
In altri termini ciò che ha in mente è semplicemente un picnic, nulla a che vedere con tavole lussuosamente approntate e imbandite, con posateria e vasellame ricercati, con tovaglie finemente ricamate e ogni sorta di leccornie sapientemente illuminate da candelabri d'argento.
Desidererebbe che venisse condivisa da tutti invece la sua merenda "...accanto a una viva sorgente, sotto ciuffi di ontani e di noccioli..; (con) l'erba del prato come tavola e come sedia, le sponde della fonte servirebbero da credenza e la frutta penderebbe dagli alberi". Senza servitori e soprattutto senza limiti a chi volesse essere partecipe di questo bucolico "Eden comunitario".
Per quanto riguarda il menù è più chiaro ciò che non deve comparire che quanto non deve mancare. Il cibo infatti deve essere semplice e rustico, pane nero e pure vino nero grossolano, sano e dissetante.
Al bando ogni tipo di intingolo simbolo della gastronomia "scienza del superfluo, dell'inutile del lussuoso, argomento della decadenza e della perversione del gusto". Nulla di meglio invece che latticini, uova, erbe, formaggio, grissini e - come si è già ricordato - "qualche bicchiere di uno spesso vino del Monferrato che si può tagliare a fette...".
È così infatti che ci si deve nutrire, fin dalla più tenera età; anzi addirittura la scelta della nutrice è elemento determinante per una corretta crescita; deve essere intanto "tanto sana di cuore quanto di corpo" e, senz'altro contadina perché "le contadine mangiano meno carne e più legumi delle donne di città".
La carne, anzi "la sostanza animale, in putrefazione formicola di vermi (…). Il latte (invece), benchè elaborato nel corpo dell'animale, è una sostanza vegetale…".
Ed è così che ci si deve nutrire per crescere sani, respirando sempre l'aria pura della campagna piuttosto che quella viziata della città.
"Le città sono l'abisso della specie umana".
Seguendo passo passo l'educazione di Emilio, che va mantenuto più a lungo possibile nel suo gusto primitivo, ci immergiamo progressivamente in quella " via lattea" alimentare che è la guida conduttrice di tutta l'alimentazione del pensatore ginevrino. "Il nostro primo alimento è il latte…(inoltre) frutta, legumi, erbe e infine alcune carni arrostite (se proprio si vuole), senza condimento e senza sale, come i pasti dei primi uomini…".
L'obbiettivo polemico è tutto concentrato in particolare sulla carne il cui gusto "non è naturale nell'uomo". E questo gusto primitivo non va snaturato poiché l'esperienza insegna che "i grandi mangiatori di carne sono in genere crudeli e feroci più degli altri uomini".
Gli esempi si moltiplicano: "In Inghilterra stessa i macellai non sono ammessi a testimoniare come non lo sono i chirurghi. I grandi scellerati si abituano all'assassinio bevendo sangue.
Omero fa dei Ciclopi, mangiatori di carne, degli uomini spaventosi; e dei Lotofagi un popolo così amabile…".
"Uomo spregevole! tu cominci con l'uccidere l'animale, e poi lo mangi, come per farlo morire due volte" incalza Rousseau riprendendo lungamente Plutarco.
Sappiamo pertanto cosa ci riserverà il picnic, nei boschi di Montmorency: esattamente ciò che il cittadino di Ginevra amava trovare nel proprio piatto: prodotti lattieri del Jura, "semolini, ricotta, cialde e panpepato", qualche uovo. Il resto non c'è, è corruzione.
Tutto ciò mentre Voltaire invitava gli amici per gustare "un tacchino ai tartufi di Fernay tenero come un piccioncino e grosso come il vescovo di Ginevra", con pasticcio di pernice, trote al burro e vino sopraffino.

Mancano pochi minuti a mezzogiorno, si aspettano i consueti rintocchi del campanile, ma per mettere a posto gli orologi la gente aspetta il passaggio di Immanuel Kant, professore di logica e metafisica all'Università di Konigsberg nella Prussia Orientale. I suoi stili di vita sono noti come la sua puntualità appunto, più affidabile di quella del campanaro. A casa, in Magistrestrasse, in un giorno qualsiasi del 1788 (data di pubblicazione della "Critica della ragion pratica") lo aspetta il pranzo che il fedele Lampe ha approntato seguendo diligentemente le richieste correlate da tutte le precise indicazioni ricevute la sera precedente. È così, da sempre. Non è perciò una novità trovare in attesa, puntuali e in pacifica conversazione gli ospiti, personaggi importanti: un futuro ministro, un generale, e un direttore di banca. Ognuno conosce le abitudini del professore e sa, ad esempio, che a tavola non ci saranno mai più di nove invitati (come le Muse), che non bisognerà mai toccare nella conversazione argomenti legati al lavoro filosofico di Kant, che solo raramente ci saranno anche studenti tra loro e che, soprattutto, il pasto si sarebbe protratto sino alle quattro o alle cinque del pomeriggio.
Il pasto del mezzogiorno è l'unico della giornata per Kant che, come ogni giorno si è alzato alle cinque del mattino e ha fatto una leggera colazione con semplice tè leggero.
È chiaro che dopo le lezioni, che tiene sempre con impegno e serietà, l'ora del pranzo è in genere agognata e comunque poi vissuta con una certa intensità.
Kant sa che è impossibile scrivere una "Critica della ragione gastronomica" infatti il gusto e l'odorato sono sensi soggettivi e non necessari, inferiori, in certo senso al tatto alla vista e all'udito e il loro scopo è il piacere, non la conoscenza del mondo esterno, fenomenico entro il quale, infatti, è possibile fare scienza.
Col gusto e l'odorato non si arriva a una scienza universale e necessaria (fondata su giudizi sintetici a priori), ma si esalta la convivialità e si rende degno di essere vissuto anche il momento della tavola attorno alla quale, comunque, devono essere affrontati argomenti non banali. Tra questi, anche il cibo e la cucina sono degni argomenti di conversazione.
In casa di Kant, in genere, le portate sono costituite da tre piatti fondamentali: un inizio a base di pesce, una minestra di verdura, carne bollita o arrosto. Formaggio, burro e senape sono sempre presenti e se ne fa un abbondante uso così come per il pane e il burro. Il tutto è annaffiato da un vino rosso leggero.
Non mancano i dolci, a fine pasto, come si dice, seguiti da "un goccio" finale di vino più robusto e profumato e, a volte, riscaldato con zucchero e bucce d'arancia centellinato in bicchieri avvolti da fogli di carta (gli stessi usati per gli appunti) per mantenere il calore.
Gli ospiti alla fine lasciano il convivio profondendosi in ringraziamenti per il piacere e l'onore ricevuti e Kant rimane solo a meditare, soprattutto su se stesso, sulla sua ipocondria, sul suo pessimismo con tutto lo stoicismo che si impone costantemente come regola di vita.
I bruciori di stomaco che avverte da tempo (che non gli impediranno però di vivere tutto sommato bene sino a ottant'anni) ritornano e gli fanno ricordare le gocce amare prese ogni mattina poi sostituite da un più gradevole goccio di rhum dal quale, in questo momento, appunto stoicamente preferisce astenersi.
Tuttavia, anche se l'appetito è stato abbondantemente soddisfatto, sino all'indomani, ha già in mente un invito più nutrito, con più commensali per offrire e cibarsi in quantità di merluzzo, pietanza semplicemente adorata.
Poi, la riflessione e il pensiero più profondo riprendono il sopravvento e Kant, superate le "necessità" quotidiane, riprende immediata coscienza del "cielo stellato" e della "legge morale" che ha, evidenti, in sé.