Anno 2 - N. 5 / 2003


LINGUAGGIO “ASSOLUTO”

LA MUSICA COME IMMAGINE DEL MONDO

La musica ci consente il prodigio di vivere come pura emozione lirica il faticoso cammino del pensiero, di cui consta la storia della nostra cultura linguaggio “assoluto”

di Paolo Fenoglio



Concerto al balcone (1662, particolare) Honthorst van Gerrit Parigi, Museo del Louvre


Fin dai tempi della Grecia classica il significato della musica fu un problema che trovò particolare spazio nell’ambito del pensiero filosofico. Pitagora attribuì un ruolo importante alla musica nel contesto della sua cosmologia, secondo la quale le orbite erranti dei pianeti erano correlate fra loro da rapporti matematici di consonanza che producevano l’armonia delle sfere, da noi percepita come silenzio. Fu tuttavia Platone a intuire per primo la peculiarità dello statuto linguistico della musica, cogliendone la asemanticità come intrinseco privilegio. Mentre le altre arti - sosteneva Platone - raffigurano la realtà (e sono dunque “copia di una copia” , essendo la realtà, a sua volta, copia delle idee), la musica si rapporta direttamente alle idee, dunque al pensiero. Asemanticità nei confronti del mondo esterno e concreto, pertanto, ma non per questo linguaggio privo di significato concettuale.
Nel pensiero medioevale e cristiano le istanze pitagoriche e platoniche relative alla musica vennero sostanzialmente assimilate da Severino Boezio e da Agostino d’Ippona: in particolare, l’autore delle “Confessioni” intuì che la asemanticità della musica era una condizione che rendeva possibile, all’arte dei suoni, esprimere l’indicibile verità del sentimento religioso.
Con l’avvento dell’era moderna, il neoplatonismo dominante nel Rinascimento (e in particolare nel cenacolo fiorentino della Camerata dei Bardi) sottomise il fascino estetico della musica alla dignità semantica e concettuale della parola: fatto curioso, questo, che dimostra come il neoplatonismo si fosse “dimenticato” l’originaria intuizione di Platone, secondo cui il privilegio della musica consiste proprio nel suo essere slegata dai vincoli di referenza con il mondo, dunque nel suo essere un linguaggio assoluto. E per quanto nel Sei e Settecento si sia verificata la straordinaria fioritura della musica strumentale (la musica assoluta per eccellenza, ulteriormente sciolta da ogni relazione con la parola), il pensiero filosofico dell’epoca continuò in sostanza a ritenere la musica un linguaggio di pura suggestione emotiva e pertanto inferiore alla concettualità della parola.
Fu solo con l’irrazionalismo romantico, sensibile al fascino allusivo dell’indeterminato e dell’ineffabile, che la musica venne intesa come linguaggio altamente metaforico capace di esprimere l’indicibile (analogamente a quanto aveva sostenuto il misticismo agostiniano) e questo si verificò soprattutto per merito di Wackenroder e di Schopenhauer, il quale però cadde anche nella ingenua tentazione di attribuire uno specifico significato ai singoli suoni (i gravi avrebbero dovuto esprimere stati d’animo pensierosi e malinconici, gli acuti il contrario ecc.).
La reazione formalistica al pensiero romantico (secondo cui - Nietzsche in primis - la musica era una categoria dello spirito più che un’arte) non si fece attendere con la figura di Hanslick, per cui la musica si risolve in se stessa, nella propria autonomia strutturale ed espressiva (e l’impostazione formalistica - alcuni postulati della quale sono incontestabili – resterà l’indirizzo e il presupposto prevalente nel nostro secolo).
Acquisito dunque il principio della non semanticità della musica, le prospettive teoriche del Novecento si sono risolte per lo più (Adorno escluso, s’intende) verso un’estetica della percezione, cioè verso un tentativo di dare una fondazione filosofica agli aspetti percettivi della musica (suono, intervallo, consonanza, dissonanza, ritmo, temporalità ecc.) cercando di stabilire quale significato questi possono assumere nella coscienza dell’ascoltatore.Tutto ciò ha però relegato il significato della musica nel suo insieme (l’unico che veramente conti) in una sorta di limbo astorico, in quanto il messaggio poetico dei musicisti non è stato preso in considerazione (se non da Adorno, ma in chiave prevalentemente sociologica) come visione del mondo in divenire nel corso della storia. E ciò in omaggio al principio secondo cui la musica non “dice” il mondo, bensì solo se stessa nella sua autosufficienza strutturale.
Dal quale principio consegue altresì che l’evolversi tecnico-stilistico della musica nel corso dei secoli sarebbe frutto di un fenomeno di altissimo artigianato, indifferente al mondo né in grado di esprimerlo (splendido alibi – questo - per continuare a parlare di musica eludendo le problematiche emerse dalla storia della cultura). Dunque la non semanticità della musica renderebbe possibile solo un’estetica della percezione ma non un’estetica poetica, cioè un discorso filosofico sulla visione del mondo insita nel pensiero dei musicisti. Ora se è ben vero che la musica è un linguaggio asemantico, è ancor più vero che nulla vive al di fuori della storia (cioè del mondo) e che il significato di una realtà (in questo caso la musica) può essere colto solo attraverso il suo essere nel mondo. In caso contrario, isolando la musica dal mondo in omaggio alla sua asemanticità, la si descrive ma non se ne coglie il significato ovvero il messaggio poetico (e pertanto il ruolo storico). Vero è che la “descrizione fenomenologica “ pretende di essere uno strumento di conoscenza filosofica e probabilmente lo è, seppure in un contesto diverso, ma non credo possa dirsi tale per quanto concerne la musica. Non lo è perché “descrive” gli eventi di cui consta la musica (suono, intervallo, ritmo, temporalità ecc.) ma non si rivolge alla loro sintesi, la quale soltanto configura l’assunto espressivo (ovvero il messaggio poetico) che viene proposto alla sensibilità dell’ascoltatore.
Da molti secoli si verifica un forte coinvolgimento emotivo della coscienza umana con la musica, perché evidentemente la musica “dice “ qualcosa da cui l’uomo si sente coinvolto. Qualcosa che fa parte del mondo interiore e del vissuto dell’uomo, ché – altrimenti – l’uomo ne sarebbe incuriosito o trastullato, ma non coinvolto. Dunque se la musica riesce a “dire” qualcosa che fa parte del vissuto dell’uomo, ciò vuol dire che la musica ha un rapporto di significazione con il mondo, poiché il vissuto dell’uomo è immerso nella storia. Ma come ciò può accadere, se la musica è asemantica (e su questo non v’è dubbio), se ciòé non dice – in teoria – altro che se stessa? Oppure tale asemanticità è solo apparente e viene – per così dire- “aggirata” dal fatto che se le singole note non sono segni semantici, il loro strutturarsi in forma acquista un valore simbolico altamente metaforico e allusivo? Forse solo alla luce della relazione soggetto-oggetto è possibile rispondere a tali quesiti, ponendo il linguaggio musicale a riscontro con le modalità dialettiche di rapporto fra coscienza e mondo. Poiché la relazione coscienza-mondo (questo metronomo impietoso che scandisce la sofferenza dell’uomo) è la chiave di lettura attraverso la quale si coglie il significato ultimo del comportamento umano e della sua produzione intellettuale.
Lo statuto asemantico del linguaggio musicale, infatti, rende l’arte dei suoni particolarmente interessante dal punto di vista psicologico, specie se viene considerata alla luce della “Metapsicologia” di Freud, dove si postula il rapporto fra “principio del piacere” e “ principio di realtà”, relazione che in sostanza equivale a quella fra soggetto e oggetto ovvero fra coscienza e mondo.
Ma chiariamo prima in cosa consiste l’asemanticità del linguaggio musicale. Secondo il pensiero di De Saussure, il linguaggio verbale si tripartisce nelle tre polarità di Significante (la parola), Significato (il concetto, l’immagine interiore della cosa) e Referente (la cosa nella sua oggettualità). Per quanto concerne la musica e adottando la terminologia di de Saussure, possiamo dire che i singoli suoni rivestono il ruolo di significanti, il messaggio poetico (ottenuto tramite l’organizzazione sintattico-stilistica dei suoni significanti) è il significato, mentre il referente manca o quantomeno non esiste in termini oggettuali espliciti e definiti. Un linguaggio senza referente è senza dubbio asemantico (in termini linguistici), ma d’altro canto non si può certo sostenere che la musica non significhi nulla. A questo proposito ci soccorre il pensiero di Wittgenstein, il quale nel “Tractatus” rivolge la sua attenzione ai linguaggi non dotati di referente, definiti “tautologici” in quanto privi di rapporto con la realtà ad essi esterna e dunque “assoluti”, poiché “ab-soluti” cioè sciolti da ogni vincolo di relazione con il mondo.
Nel “Tractatus” Wittgenstein pensa soprattutto alla matematica, ma noi crediamo che il suo pensiero sia applicabile anche alla musica, in quanto linguaggio privo di referente e dunque anch’esso “tautologico” ovvero “assoluto”. Tuttavia il dato più interessante è questo: secondo Wittgenstein i linguaggi “assoluti” non esprimono certo nulla di semanticamente determinato (poiché privi di referente), ma “mostrano” il loro significato attraverso la loro configurazione e organizzazione sintattica, cioè in termini altamente metaforici e traslati.
Ne consegue che la musica - pur essendo asemantica, come si diceva - comunica il suo significato per via metaforica, attraverso la propria configurazione sintattica e cioè stilistica; ma non solo: trattandosi di un linguaggio “assoluto”, poiché sciolto da ogni vincolo di referenza con il mondo (in quanto i singoli suoni non significano nulla), la musica vive anche in una condizione privilegiata di linguaggio portatore di incantesimo psichico per la coscienza dell’uomo. La quale da sempre vede la problematica relazione fra sé e il mondo come la causa di tutte le proprie sofferenze e pertanto ricerca inconsciamente una condizione emotiva tale da eludere il trauma del rapporto fra “principio del piacere” e “principio di realtà”: condizione che viene evocata all’uomo dallo statuto asemantico e metaforico del linguaggio musicale, come vedremo ora ritornando a Freud. La contrapposizione freudiana fra “principio del piacere” e “principio di realtà” equivale in sostanza (come si accennava poco sopra) alla contrapposizione fra soggetto e oggetto ovvero fra coscienza e mondo: tuttavia anche all’interno dell’economia strutturale del linguaggio si può trovare in qualche modo riproposta tale contrapposizione, in quanto il “significante” e il “significato” appartengono alla sfera del soggetto, mentre il “referente” a quella dell’oggetto.
Ora se nella struttura del linguaggio verbale ben si configura la contrapposizione fra soggetto e oggetto (e parallelamente quella fra coscienza e mondo), ciò non accade all’interno del linguaggio musicale, essendo questo privo di “referente” oggettuale e quindi asemantico. Ne consegue che lo statuto linguistico della musica, in termini traslati, evoca alla coscienza umana una condizione emotiva ancestrale da sempre rimpianta (forse dal ventre materno): quella di poter vivere psichicamente affrancati dal problematico rapporto con il mondo.
Ma essendo priva di “referente” oggettuale, la musica comunica contenuti esclusivamente soggettivi, slegati da ogni rapporto con una concettualità esterna ad essa e del tutto autonomi nella propria economia formale? In altre parole: essendo la musica asemantica, il contenuto del linguaggio musicale consiste solo nella struttura formale? Anche se buona parte della musicologia è di questo avviso, noi pensiamo il contrario, in quanto la struttura formale della musica altro non è che la metafora del suo contenuto concettuale. Tornando infatti alla riflessione di Wittgenstein sui linguaggi “assoluti” (qual’è anche la musica), possiamo dire che nel linguaggio musicale l’organizzazione dei significanti (i singoli suoni) “mostra” allusivamente il significato (il messaggio poetico del musicista che emerge dal suo stile), il quale significato è a sua volta la metafora di un referente inteso in senso lato, certamente reale anche se non concretamente tangibile né circoscritto in modo preciso. E da cosa è costituito questo autentico referente, oggettivamente reale, ma in un certo senso inafferrabile? Dal clima culturale e dai modelli concettuali di realtà insiti nell’epoca storica in cui opera il musicista, il quale li vive (quasi sempre inconsciamente) e li traspone nei moduli sintattici del suo stile, che costituisce il suo messaggio ovvero il significato del suo linguaggio e della sua opera.
Qualche esempio concreto? La stringente relazione che esiste fra il pensiero di Leibniz e la poetica del Bach più astratto (basti pensare al Clavicembalo Ben Temperato, alle Variazioni Goldberg e all’Arte della Fuga); le probanti analogie esistenti fra la dialettica hegeliana e la struttura della forma sonata in Beethoven; la palese affinità che avvicina il linguaggio di Debussy al mondo dell’impressionismo pittorico e al pensiero di Bergson; gli evidenti legami che accomunano in un medesimo orizzonte spirituale la dodecafonia di Schoenberg e la fenomenologia di Husserl (e si tratta solo di qualche esempio fra i tanti adducibili).
Dunque la musica ci offre, nella sua configurazione sintattica che muta attraverso il tempo, una trasposizione poetica dei modelli concettuali che si susseguono attraverso la storia e che costituiscono il nostro vissuto culturale. Ciò avviene attraverso uno statuto linguistico altamente formalizzato che sembra conciliare fra loro due opposte realtà: da un lato la musica è un linguaggio “assoluto”, sciolto in quanto asemantico da ogni vincolo di relazione con il mondo esterno e tale da evocare nell’uomo il ricordo di una condizione emotiva ancestrale; dall’altro la musica è anche un linguaggio capace di raffigurare, per via di una metafora formale, le essenze più profonde del mondo e cioè i modelli epocali della nostra cultura. Due prospettive altrimenti inconciliabili trovano qui un punto di incontro straordinario, che forse spiega la causa dell’adesione emotiva solitamente riservata alla musica dalla psiche umana: la relazione con il mondo viene elusa (ed è un sogno ricorrente della coscienza umana non dover più fare i conti con il “principio di realtà”!); tuttavia, allo stesso tempo, il mondo viene colto e raffigurato nelle sue essenze concettuali più profonde attraverso una metafora strutturale altamente formalizzata. Ma non è tutto.
È certamente vero infatti che tale “coincidentia oppositorum “ consente alla coscienza umana di cogliere le essenze concettuali del mondo per via di un linguaggio il cui statuto intrinseco, di carattere asemantico, evoca d’altra parte un profondo incantesimo psichico (eludere la problematica relazione con il mondo esterno e vivere in una sorta di beatitudine originaria, dove non vi sia alcuna “distanza” che separi il soggetto dall’oggetto).
Ma è altrettanto vero che le essenze concettuali del mondo (percepite dalla coscienza umana attraverso le metafore strutturali insite nel linguaggio musicale) sono quanto di più intellettualmente definito e complesso possa esistere, poiché si tratta dei modelli di realtà con cui è costruita e articolata la nostra cultura. Dunque non sono certo un “oggetto” che possa venir compreso e assimilato con istintiva immediatezza o familiare confidenza: sappiamo tutti quanto impegno e quanta lucidità razionale richieda l’apprendimento di concetti storici o filosofici. Eppure la musica - priva di ogni onere semantico, ma ricca di quel fascino seduttivo di carattere psichico cui ho più volte accennato - riesce a comunicarci codesti concetti come attraverso la leggerezza di un sogno, come se non ci fosse alcuna “distanza” mentale o emotiva che ci separa da loro, come se facessero parte del nostro inconscio, da sempre.
E come nei sogni non abbiamo la nozione precisa del nostro io e del suo rapporto con l’alterità (e ciò nonostante spesso emerge da essi una verità importante della nostra vita), così la musica nel suo statuto asemantico di linguaggio assoluto non possiede nozione alcuna del suo rapporto con l’esterno; ma, pur non dicendo sematicamente nulla di preciso, è però in grado di raffigurare - evocandoli- i significati più profondi della nostra storia.
La musica ci consente il prodigio di vivere come pura emozione lirica il faticoso cammino del pensiero, di cui consta la storia della nostra cultura. Si realizza qui la profezia di Nietzsche: Apollo parla il linguaggio di Dioniso, in quanto le essenze concettuali, di cui è composto l’ordine del pensiero, si manifestano nella loro purezza attraverso un linguaggio lieve e allusivo, sciolto – come il Dioniso fanciullo dei miti orfici - da ogni vincolo di referenza con il mondo, da ogni obbligo di consapevolezza razionale.
E così la nostra coscienza, attraverso la musica, compie un viaggio forse da sempre desiderato: il percorso che conduce là dove le idee possono mostrarsi - deposto il loro abito semantico – quali certezze che provengono sì dal mondo, ma che non hanno più bisogno di esso, il viaggio che porta là dove “vapora la vita quale essenza”.


Strumenti musicali con piccola statua classica (1645 c.)
Evaristo Baschenis
Bergamo, Accademia Carrara

Il concerto (1635 - 40)
Bijert van Jan
Collezione privata

Ritratto di Sigmund Freud nel 1909
(1856 - 1939)

Ritratto di Ludwig Wittgenstein
(1889 - 1951)