Anno 2 - N. 4 / 2003


INTERVISTA AL POETA GIAMPIERO NERI

LA SFIDA E LA MEMORIA

di Francesco Piscitello




Ci conosciamo da tempo, con Giampiero Neri, uno dei più rappresentativi poeti italiani contemporanei. Ma è la prima volta - e l’occasione è stata questa breve intervista - che c’incontriamo da soli, con l’unica compagnia di un’orata al cartoccio, in un ristorante di via Cadore. Mi ha portato, in regalo, un saggio della Marcheschi (1) sulla sua poesia: La Natura e la Storia.
Parla lentamente, Giampiero, a volte con lunghe pause prima di pronunciare una parola e quasi cercandola nell’aria con lo sguardo. Sembra che per lui la scelta di un sostantivo, un aggettivo, un verbo non sia l’operazione veloce ed in gran parte inconsapevole del nostro parlare quotidiano, ma piuttosto il risultato di una ricerca cosciente ed attenta, che richiede tempo prima di un sofferto nulla osta, di un imprimatur laborioso. Mi pare che senta, Neri, una grande responsabilità verso la parola, come il giudice quando emette una sentenza. È questo, mi sembra, a conferire al suo eloquio la gravitas che lo contraddistingue.
Mi domando allora quanto questo rigore, questa severità rendano faticoso il lavoro di scrivere, dove la responsabilità è certamente maggiore: scripta manent !
L’incipit di quest’intervista, è dunque obbligato.
Ma tu perché scrivi, Giampiero?
La domanda pare sorprenderlo, come se non se l’aspettasse. Eppure è una domanda scontata, banale. Inevitabile, direi. Armeggia con le posate intorno al pesce, concentrato, attento. Io credo che il gesto sia un tentativo, forse inconscio, di indirizzare la mia attenzione verso qualcosa di neutro, di innocente, distogliendola dal vero affanno del suo pensiero, la ricerca della parola plausibile, esauriente.
E finalmente viene, la parola. Semplice. Tanto semplice da parermi un castigo, come se volesse punirmi per essermi atteso chissà quale elaborata risposta - si tratta di un poeta, dopo tutto! - ad una domanda che di risposte, forse, non ne ha. Scrivo per dare un senso alla mia vita, al tempo che mi sembra passare inutilmente. D’altra parte ho sempre avuto interesse per la scrittura. Da ragazzo pensavo di scrivere, come molti, del resto. Scrivere mi sembrava una sfida.
Solo il proseguire del dialogo, come vedremo, dirà che questa è una risposta vera. Altro che punizione, altro che castigo: questa risposta è una chiave.
La sfida, dunque. Il tempo. La sfida al tempo: che non passi inutilmente. Poesia come memoria, allora? Sta forse nella memoria la cifra della poesia di Neri?
Sto per domandarglielo: ma mi si affacciano alla mente, d’improvviso, alcuni versi che gli ho sentito leggere qualche sera fa nella libreria Falcone.

Del declinante mondo di Maria Signaroli
abitava da noi in campagna
non si poteva domandare.
Oscillava tra le finestre della stanza,
qualche volta in giardino,
finchè cadde sul pavimento.
Era una mattina se ricordo bene,
l’anno il 32 o il 33.(2)

Versi fatti di parole semplici, circostanziate, che dicono di accadimenti, di eventi, in una poesia che pare prosa, intrisi di quella gravitas di cui ho detto e che mi ha sempre colpito. Versi in cui il dato, l’informazione, si fa corpo, materia.
È infatti poesia che informa, quella di Neri. Come lui stesso scrive, l’informazione è, della poesia, “...certamente il momento di più antica e sicura vocazione, se non il più importante. Basti pensare agli studi recenti sui poemi omerici, considerati come una sorta di enciclopedia su cui si sarebbe formata l’unità culturale dei Greci...”. (3)
Ma la memoria? C’entra, la memoria?
Ha un ruolo, ha un senso, Giampiero, la memoria? Nel tuo progetto poetico, voglio dire. La memoria che riporta nel presente i contenuti del passato. E riportandoli, ce li consegna: notizia, informazione altrimenti perduta?
Mi guarda sorridendo: e col sorriso annuisce. Invece di rispondere mi porge un foglio, il foglio spiegazzato delle poesie dell’altra sera, quelle della lettura in libreria. Me ne indica una.

Come l’acqua del fiume si muove
contro corrente vicino alla riva
si disperde dentro fili d’erba
lontana dal suo centro
la memoria fa un cammino a ritroso
dove una materia incerta
torna con molti frammenti.(4)

Torna, la memoria di Neri, salvando il passato come un documento, come il bassorilievo di tufo di un edificio antico altrimenti destinato all’erosione che lo sfigura, lo cancella. Mi sembra che l’intervista dovrebbe finire qui, che non ci sia più nulla da chiedere, più nulla da dire. E adesso sono io che armeggio con l’orata, mentre frugo nella mia mente alla ricerca di domande che non vengono. Quasi solo per riempire il silenzio, gli chiedo qualcosa della sua vita.
Giampiero Neri è pseudonimo di Giampietro Pontiggia. La sua opera poetica è raccolta in gran parte nel volume Teatro Naturale, edito da Mondadori nel 1998, nel quale sono confluite precedenti edizioni. Ha pubblicato poi Erbario con figure (Lietocollelibri, Como, 2000) e Finale (Dialogolibri, Olgiate Comasco, 2002). Vive a Milano, in piazzale Libia. È sposato con Annamaria Bianchi. Ha due figli, Elena e Ugo.
Devono essere fatti di lettere, i suoi geni. Di lettere e di arte. Un prozio, Riccardo Brambilla, fu insegnante a Brera e noto pittore. Il cugino Ezio Frigerio fu scenografo della Scala e dell’Opera di Parigi: ebbe fama internazionale. La madre, Angela Frigerio, calcò la scena al Sociale di Como e rivestì ruoli importanti nella compagnia filodrammatica di quel teatro. Il fratello, Giuseppe Pontiggia, è narratore e saggista. Ugo è uno studioso di lettere classiche. Elena, critico d’arte.
Comincia tardi a scrivere, Neri. Anche se, con questo DNA, ci si attenderebbe una leopardiana precocità. Tanto più che il padre, appassionato lettore, ha una ricchissima biblioteca alla quale il giovane Giampiero si abbevera.
Il riferimento a Leopardi lo fa sorridere.
Ma se c’è persino il conte Monaldo, nella tua vita!
Il conte Monaldo... Si, mio padre era un avidissimo lettore ed aveva messo insieme una biblioteca piuttosto ricca. Ma non furono le lettere, o non furono soltanto le lettere, allora, ad attrarmi. Furono le scienze. Soprattutto le scienze naturali.
Le scienze naturali?
Sì, le scienze naturali. I Ricordi Entomologici di Jean-Henry Fabre furono la lettura più entusiasmante della mia giovinezza. È un po’ colpa sua se alla poesia sono arrivato tardi.
Alla poesia, infatti, Neri giunge solo verso i trent’anni. Nato ad Erba nel 1927, a sedici anni perde il padre, una delle prime vittime del conflitto civile, dopo l’8 settembre 1943. Conseguita la maturità scientifica si iscrive alla facoltà di Scienze Naturali all’Università di Milano (la colpa di Fabre!). Ma deve abbandonare gli studi: la vedovanza della madre, la povertà di un’Italia stremata dalla guerra, un’inflazione altissima sono causa di forti ristrettezze economiche. Nel 1947 viene assunto nella banca dove suo padre era stato impiegato per molti anni.
Giampiero bancario? Non ti vedo proprio!
Hai ragione. Ci ho messo un bel po’ a capire - ride - come mai gli assegni circolari si chiamino così, quando sono rettangolari... Ma col tempo ho imparato. Tutto si può imparare. E poi ho avuto la fortuna di lavorare nel settore dei contatti con la clientela: un settore dove l’attitudine alle pubbliche relazioni è importante quanto le conoscenze tecniche. E in questo me la sono sempre cavata discretamente.
Ma torniamo alle lettere. E prima di parlare del tuo scrivere, parliamo del tuo leggere.
Dante. È scontato? Va bene, è scontato. Dante, comunque. E Omero, scontato anche lui. Ma tu vorrai sentirmi citare anche i moderni, vero? Ecco, allora: Rimbaud, Ungaretti - te li dico un po’ alla rinfusa - Thoreau, Melville, Campana... E poi Fenoglio. Prima non mi piaceva, provavo quasi avversione. Solo più tardi ha cominciato ad appassionarmi. Uno stile epico ma secco, asciutto, che non indulge alla pur minima retorica con la quale, spesso, si narra della guerra civile, della sua violenza, dei suoi orrori. Ho conosciuto la mamma, di Fenoglio.
In quella guerra civile, tuo padre ha perso la vita. C’entra, col partigiano Johnny?
Beh, credo proprio di sì. Ma torniamo a noi. Non c’è solo la poesia, la narrativa. L’uomo non ha scritto solo questo.
Mi sorprende il brusco ricondurre il discorso verso argomenti letterari. Forse, chissà, è un modo per abbandonare un tema doloroso. Magari mi sbaglio. Non insisto, comunque.
Certo, non c’è solo la poesia, solo la narrativa... ci sono le scienze naturali, c’è Fabre...
Vero: c’è Fabre! Ma c’è anche la storia. La storia dell’uomo, delle sue passioni, degli eventi che quelle passioni determinarono. La storia dei popoli, delle civiltà. La storia delle imprese umane. E c’è il racconto di quelle storie, di quelle imprese. C’è il racconto di Tucidide, di Erodoto; di Tito Livio, di Giuseppe Flavio. C’è Tocqueville, c’è Mommsen. C’è Toynbee.
Capisco, adesso, la Marcheschi: La Natura e la Storia, certo. Ma dimmi della natura.
Beh, gli animali sono presenti, ben presenti nel mio lavoro.
Lo so. Ma con quale ruolo? Di quale messaggio sono veicolo? C’è un Esopo, c’è un Fedro nascosto dentro Neri? C’è La Fontaine?
No, no! Nè Esopo, nè Fedro. E nemmeno La Fontaine. I miei animali non sono portatori delle virtù o dei vizi dell’uomo. Hanno un significato esemplificativo, non morale. A me interessa il mimetismo, quel camuffamento che confonde, che depista. Come quando noi, noi uomini, mostriamo un aspetto del nostro essere, dissimulando l’altro, l’opposto: che pure c’è. Poi lo riprendiamo, l’opposto, lo riassumiamo in altre circostanze, diverse. La civetta si nasconde, durante il giorno. E tollera di venir molestata, quasi sbeffeggiata da passeri ed altri piccoli uccelli. Ma al crepuscolo, riprende l’altro ruolo, quello per il quale è più nota. Si mette allora in caccia, si fa predatrice.
Ti affascina, vedo questa duplicità di comportamento! Ma cosa ci senti, cosa ti evoca?
Mi fa pensare alla compresenza del bene e del male. Non c’è solo bene, non c’è solo male. Entrambi sono nell’uomo, nello stesso uomo, nello stesso individuo. Ora si vede più chiaramente l’uno, ora è più nitido l’altro. Ma coesistono, sempre.
Lao Tzu, il Tao...
Tu sai bene quanto io ami Lao Tzu! Non è la prima volta che ne discutiamo insieme, no?
Ma torniamo agli animali, Giampiero.
Torniamoci. Certo, hanno un ruolo di metafora, gli animali. Metafora di altro, rispetto a Fedro, rispetto a La Fontaine. Ma metafora. Mi preme però sottolineare che il mio interesse per loro è prima di tutto istintivo. Anzi, forse quello è il versante, l’aspetto più propriamente poetico. Quello di metafora è solo una funzione.Tuttavia io scrivo, ci tengo a ricordarlo, per affermare quel principio di duplicità di cui dicevo e che rappresenta la parte più importante del mio lavoro, che riguarda la mia esperienza e tutto quello che ho pensato finora.
Dunque, la tua storia. O dovrei dire la nostra storia? La storia degli uomini?
N.: Sono storie parallele, la mia, la tua, la nostra. Storie di aggressione e di difesa. Storie di sopraffazione. Storie di resa. Storie di lotta, le nostre: ed anche le loro, degli animali, dei nostri compagni di viaggio. Ricordi Foscolo? “...Questa famiglia d’erbe e di animali...” . Famiglia. Anche le guerre si svolgono in famiglia. Nella famiglia umana, appunto. Sono “civili” le guerre. Tutte le guerre. “Civili”. E mi raccomando: “civili”, tra virgolette. Non te ne dimenticare.

L’orata al cartoccio è finita da un pezzo. Anche il dessert. Anche il caffè. È ora di andare. Levataccia, domani, per Giampiero: c’è una lettura pubblica a Venezia.
Il locale, ormai, è vuoto. Rimane soltanto, a un tavolo d’angolo, una giovane coppia. Del nostro lungo dialogare sulla parola - parola di natura e di storia, parola che evoca e che informa, parola di lotta e di dolore - importerebbe assai poco, ai due ragazzi. Comunicano benissimo, tra loro, facendone a meno.
Mi alzo. E mentre ci avviamo verso la porta, ripenso a quel suo “civili”. Devo ricordarmele, le virgolette.
Fuori, intanto ha cominciato a piovere.

Milano, 26 febbraio 2003