Anno 11 - N. 31/ 2012


VIAREGGIO – Per una città

Shelley e Paolina Bonaparte, il mare, il Carnevale, il Premio Viareggio: dai miti dell’origine, alla marineria, alla cultura e all’arte

La principessa Paolina Borghese era già stata a Viareggio nel periodo in cui la sorella Elisa Baciocchi… aveva tenuto anche a Lucca una corte illuminata e frequentata da intellettuali ed artisti [...]

di M. Giuseppina Malfatti Angelantoni



Burlamacco

Maschera ufficiale e logo del Carnevale di Viareggio, creata da Umberto Bonetti nel 1930.


Con decreto ducale del 7 giugno 1820, Viareggio diventava città; l’aveva voluto Maria Luisa di Borbone che dal dicembre 1817 governava il Ducato di Lucca. L’antico insediamento dal nome regale, situato fra la palude, da poco bonificata, e il mare, protetto contro i Barbareschi dalla massiccia mole della cinquecentesca Torre Matilde, era popolato da poveri pescatori e da “terrazzani”, i contadini che coltivavano la terra delle chiuse strappate alla palude. Questo luogo era stato anche ultimo rifugio per i condannati alle galere e ai lavori forzati della Repubblica di Lucca, colpevoli di sommossa e ribellione, reati imperdonabili ai quali li portava l’ingiustizia e la miseria della loro condizione; qui spesso fuggivano alla loro sorte nascondendosi nelle pinete, aiutati dalla generosa gente del posto.
Intanto, dai primi dell’800, Viareggio si andava velocemente trasformando, stava diventando un luogo frequentato da forestieri, nobili e borghesi che, in estate, accorrevano sulla sua spiaggia per la “talassoterapia”, la cura dei bagni di mare, dei quali da poco in Inghilterra erano stati scoperti i benefici.
Era necessaria una trasformazione e un potenziamento della nuova città sotto ogni punto di vista, dalla costruzione di edifici, alla sicurezza, all’amministrazione, all’incremento delle attività.
La Duchessa Maria Luisa volle subito svilupparne il nucleo portuale nel quale già aveva fatto scavare la darsena “Lucca”, qui fece costruire la sua tartana, il “bargio reale”, simile ad un bucintoro veneziano, col quale faceva brevi uscite in mare davanti a Viareggio. La Duchessa amò molto questa città e dette prova della sua predilezione anche quando fece svolgere qui, nel bel Palazzo Cittadella, le nozze del figlio ed erede Carlo Ludovico con Maria Teresa di Savoia, e quando fece costruire una grande villa nella pineta di Levante, la “Villa Borbone”, detta “La Lecciona”, destinata nei suoi intenti a divenire una piccola Versailles. Ma è particolarmente emozionante pensare che Viareggio, alla sua nascita, fu coinvolta nel mito di due figure romantiche e straordinarie: il poeta inglese Percy Bysshe Shelley e la principessa Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone. Gli eventi legati a questi due personaggi illustri, la loro bellezza e giovinezza, insieme alle loro storie d’amore, suscitarono negli abitanti della piccola città emozioni forti e contrastanti rimanendo a lungo nella loro memoria e nei loro cuori: Viareggio e Paolina Bonaparte, Viareggio e Shelley, diventarono binomi inscindibili, come se si fosse trattato di persone di famiglia.
La principessa Paolina Borghese era già stata a Viareggio nel periodo in cui la sorella Elisa Baciocchi, sovrana del Principato di Lucca e Piombino e Granduchessa di Toscana, aveva tenuto anche a Lucca una corte illuminata e frequentata da intellettuali ed artisti. Tale ambiente colto fu privilegiato anche da Maria Luisa di Borbone e qui Paolina aveva introdotto il giovane musicista catanese Giovanni Pacini, suo ultimo malinconico amore, forse da lei già conosciuto a Roma. Fu lui, nel maggio del 1822, a chiedere alla Duchessa Maria Luisa di Borbone, a nome della Principessa, un appezzamento di terreno vicino al mare per costruirvi una villa dove Paolina avrebbe potuto abitare durante le cure con i bagni. La duchessa Maria Luisa, come faceva con tutti i richiedenti che avessero dimostrato di costruire nella nuova città in conformità al piano regolatore, le donò un vasto terreno dalla pineta di Ponente fin quasi al canale Burlamacca, per costruirvi un palazzo e i giardini.
Aggiunse poi, dietro richiesta diretta di Paolina, un’estesa fascia litoranea di spiaggia perché ella avesse “sempre libera la visuale” verso il mare. La dimora doveva sorgere quasi sull’acqua, secondo la poetica neoclassica che proponeva il modello delle antiche ville romane, in particolare della suggestiva villa di Plinio il Vecchio, chiamata “Laurentinum”, da poco riscoperta sul litorale campano. Il progetto, nel quale emergevano forti influenze del neoclassicismo francese, fu realizzato dall’architetto lucchese Giovanni Lazzarini, colto studioso dell’antichità, formatosi nell’Accademia romana di San Luca: prevedeva una costruzione sobria, ad un solo piano, intorno ad un cortile, con la facciata occidentale, quella verso il mare, resa imponente da un balcone sorretto da colonne doriche di marmo che, da lontano, dovevano farla apparire simile ad un tempio greco. La villa, raffinata e semplice, aveva all’interno decorazioni ad affresco che vennero realizzate in tempi diversi, erano dipinti che si ispiravano alla pittura antica romana, a trompe-l’oeil, con immagini allegoriche: figure danzanti, amorini, strumenti musicali. Nel salone principale un grande fregio correva in alto lungo le pareti, vi erano illustrate le avventure di Marco Polo, in ossequio alla moda dell’esotismo e delle cineserie. Questo elegantissimo fregio però non era solamente decorativo, era possibile leggervi, nel riferimento ad avventure nei Paesi d’Oriente, l’eco delle conquiste di Napoleone in terre lontane. In questa villa Paolina soggiornò solo per alcuni periodi fra il 1823 e il 1825, anno in cui, molto malata, si ritirò nel palazzo dello sposo, il principe Camillo Borghese, a Firenze, per morirvi poco dopo. C’è una leggenda tenace che ce la ricorda morente, abbigliata con l’abito di corte, con i suoi magnifici gioielli, dignitosa e regale, come si conveniva ad un personaggio della sua grande famiglia. Molto generosa, come era sempre stata nella sua vita, ingiustamente accusata di nefandezze più di quanto non meritasse, non dimenticò nel suo testamento di fare donazioni anche alle ragazze povere di Viareggio. La sua villa al mare fu ereditata dalla sorella Carolina Murat, che era stata regina di Napoli, città dalla quale l’ex Regina portò a Viareggio il gusto degli arredi neoclassici, inseriti però in un ambiente domestico semplice e permeato di affettuosi sentimenti familiari. Ce lo testimonia un famoso acquerello eseguito dal suo secondo marito, Francis Mc Donald, nel quale possiamo ammirare un piacevole interno della villa, molto borghese, già romantico.
La dimora venne in seguito venduta ad estranei e negli anni cambiò la funzione e l’aspetto divenendo anche Collegio ed edificio scolastico; la costruzione fu per questo ingrandita con l’aggiunta di un corpo laterale che le fece perdere tutta la grazia della villa antica. In anni recenti il Comune di Viareggio, dopo averla riscattata dal Demanio, ha proceduto ad un restauro filologico e colto che ne ha fatto uno degli edifici più piacevoli della città, sede museale e luogo deputato di incontri culturali e matrimoni. L’aspetto neoclassico, misurato e gentile, adottato dall’architetto Lazzarini per la villa di Paolina, potrebbe essere citazione di un possibile progetto del Piermarini, il grande architetto umbro che aveva lavorato per la famiglia Borghese alcuni anni prima.
Non erano ancora iniziati i lavori per la costruzione della villa di Paolina Bonaparte, che sulla spiaggia di Viareggio, non lontano da qui, il 18 luglio 1822 le onde gettarono il corpo straziato e irriconoscibile del poeta inglese Percy Bysshe Shelley, morto dieci giorni prima nell’affondamento del suo schooner l’”Ariel”, mentre da Livorno stava facendo vela verso la sua casa a Lerici.
La tragica fine in mare del giovane, il Cuor dei Cuori, che era morto come un eroe romantico sfidando le forze della natura, colpì moltissimo la gente del posto che lo vide come alto esempio di Uomo Nuovo, forte e coraggioso. Ma egli fu visto anche, in senso completamente opposto, esempio di Uomo posseduto dalle forze del Male che si manifestarono agli occhi dei viareggini anche negli atti compiuti dagli amici che approntarono, per i suoi resti, una pira pagana sulla spiaggia. La sepoltura e il rogo di Shelley, avvenuti fra la pineta e il mare di Viareggio, contribuirono a portare la fama della città a livello internazionale, particolarmente presso gli Inglesi che, già presenti con una colonia numerosa a Firenze, presero a frequentare la cittadina come stazione balneare.
Il mito di Shelley fu molto forte a Viareggio e divise a lungo la popolazione che continuò a pensarlo, anche a distanza di tempo, come il cantore della liberazione dell’Uomo, identificandolo col suo eroe Prometeo, o come un dandy viziato, privo di sentimenti e di timor di Dio. Egli fu certamente molto amato negli ambienti cittadini del nascente socialismo e dell’anarchia alla fine dell’800: gli fu innalzato un monumento nella piazza davanti al palazzo di Paolina Bonaparte, che da lui prese nome, gli furono intitolati circoli culturali e politici e vi furono viareggini che col suo nome e cognome chiamarono i loro figli.
Viareggio continuò a svilupparsi come luogo di villeggiatura privilegiata, frequentato da una clientela internazionale di aristocratici, di ricchi esponenti della borghesia imprenditoriale e di intellettuali, basti ricordare Rainer Maria Rilke che vi soggiornò nel 1906. Per questi villeggianti d’élite furono costruiti stabilimenti balneari - quelli che si protendevano sul mare su palafitte -, grandi alberghi di lusso, casinò, sale da ballo, ristoranti e caffè lungo i magnifici viali del Lungomare dove ormai si era trasferita la vita elegante della città.
Nel 1902 venne realizzata la famosa Passeggiata ed è interessante e significativo che questa fosse nata, dal punto di vista urbanistico e decorativo, nell’anno dell’Esposizione di Torino che vide l’affermazione del Liberty in Italia, e che fosse stata arricchita poi, nel 1907, con una costruzione proveniente anch’essa da un’Esposizione, quella Universale di Milano del 1906.
Questa struttura lignea era la Stazione d’Arrivo della ferrovia sopraelevata che aveva messo in comunicazione le due sezioni dell’Esposizione Universale di Milano, estesa su una grande area dietro il Castello Sforzesco. La Stazione dell’Esposizione milanese, opera degli architetti e ingegneri Bianchi, Magnani e Rondoni, venne acquistata dal proprietario del Bagno Nettuno che la trasformò nell’ingresso monumentale al suo Bagno, uno dei primi stabilimenti di Viareggio, risalente al 1865. All’interno della struttura, caratterizzata da quattro piccole torri dall’aria orientaleggiante, la grande copertura a volta fu trasformata in galleria, nella quale trovarono sede prestigiosa una ventina di negozi di lusso e un ristorante.
La Passeggiata di Viareggio, che era diventata in quegli anni il luogo in cui si celebravano i riti della vita mondana viareggina, era costituita da un lungo viale parallelo al mare che restava nascosto alla vista dalla quinta elegante dei negozi raffinati, dei caffè, dei ristoranti e degli ingressi monumentali agli stabilimenti balneari, tutti costruiti in legno, in stile Liberty, lo stile che connotò Viareggio, che venne chiamata “Citta del Liberty”. La fama della città, aperta ad un pubblico internazionale come Deauville, Nizza e Sanremo, continuò a crescere e con i villeggianti accorsero anche molti artisti e gente di teatro mentre sui villeggianti si andava sempre più appoggiando l’economia della città.
All’improvviso, però, si verificò un evento spaventoso che stravolse i ritmi e le spensierate consuetudini della passeggiata di Viareggio e della stessa città. Nella notte fra il 17 e il 18 ottobre 1917 in una stalla, a ridosso del viale a mare, scoppiò un furioso incendio che, alimentato da un fortissimo vento, in breve distrusse tutti gli edifici in legno della Passeggiata, compresa la galleria del Bagno Nettuno; fu risparmiato dalle fiamme solo lo chalet di un famoso negozio d’abbigliamento, dalle esotiche linee alla giapponese, tuttora esistente. Qualcuno parlò di un atto criminoso da parte di profughi filo-austriaci, presenti nella zona, che avrebbero appiccato il fuoco per odio verso gli italiani, ma fu un’accusa assolutamente infondata. Questo incendio, nel momento più terribile della Prima Guerra Mondiale - pochi giorni dopo sarebbe avvenuta la rotta di Caporetto - fu come un segnale, sembrò indicare la fine di un’epoca spensierata e mondana, la “Belle époque”, conclusasi a Viareggio in una sorta di violenta catarsi.
Finita la guerra, pur in mezzo ai grossi problemi che si presentarono, a Viareggio come altrove in Italia, la vita riprese le sue consuetudini da luogo di villeggiatura e negli anni ’20 la Passeggiata fu ricostruita, non più in legno, ma con aggraziati edifici in muratura, continuando ad essere quinta di separazione dal mare. Anche lo stile, seppur attardato e con qualche concessione all’Art Décò, continuò ad essere il Liberty, leggero, elegante, raffinato, con decorazioni cromatiche brillanti, Viareggio non aveva dimenticato, né voluto abbandonare, il suo stile. Protagonisti della ricostruzione della Passeggiata, come di molti altri significativi edifici in Viareggio, soprattutto alberghi e villini, furono l’architetto Alfredo Belluomini, viareggino e il pittore Galileo Chini, fiorentino. L’artista, reduce dalla sua esaltante esperienza a Bangkok e in Egitto, lasciò qui, come in altre città di vacanza e termali, la testimonianza della sua arte nella quale forma, colore e luce, fortemente permeati di orientalismo, trasmettevano tutta la poetica del Liberty.
In parallelo con l’elegante Passeggiata correva un altro famoso viale, delineato da dimore e grandi alberghi di più antica data. I due viali erano separati, come ora, da giardini con aiole bordate di fiori, palme ed alberi esotici, atti a ricreare nella cittadina balneare atmosfere lontane e sognate, proprie del tempo della villeggiatura. Su questi viali, a partire dal 1905, cominciarono a svolgersi i cortei carnevaleschi in cui tutto lo spirito satirico, l’estro e la fantasia dei viareggini, ebbero modo di manifestarsi.
Dal 1921 i carri allegorici furono costruiti in cartapesta su complesse strutture mobili, realizzate grazie all’aiuto di quelle abilissime maestranze che erano i calafati dei cantieri navali locali.
I corsi del Carnevale di Viareggio diventarono molto famosi, non solo in Italia, e cominciarono ad attirare folle di visitatori ammirati e sorpresi per la grandiosità e bellezza di queste magnifiche macchine, e per la scatenata carica satirica delle mascherate che, in alcuni anni sotto il Fascismo, fu causa di sospensione dei corsi stessi.
Negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso Viareggio visse una nuova stagione dorata caratterizzata, non solo dalla spensieratezza da luogo di villeggiatura, ma anche dall’impegno culturale ed artistico. Grande fu l’impronta che dettero alla vita cittadina personalità quali Guglielmo Marconi, assiduo villeggiante dal 1911 fino all’anno della morte nel 1937, e Giacomo Puccini, il raffinato musicista lucchese del quale resta viva memoria nell’annuale Festival estivo, presso le suggestive sponde del lago di Massaciuccoli.
Il lungo nastro della Passeggiata di Viareggio, che dall’antico Canale si volge a nord fino alla Fossa dell’Abate, per la sua aria magica, ineffabile, che nasce dall’innazzurramento del cielo e dall’oro dei tramonti in mare, esaltato dall’esotismo e dalla grazia degli edifici, attirò sempre pittori, poeti e letterati che qui si univano in cenacoli prestigiosi con gli artisti del luogo fra i quali spiccavano Lorenzo Viani, Moses Levy, Enrico Pea e Mario Tobino. A Viareggio c’erano molti pittori e scultori aggiornati sulle correnti del momento e anche scrittori originali, spesso erano naviganti o autodidatti, e di umile estrazione, animati sempre da una grande passione per l’arte e dal desiderio di comunicare i loro sentimenti e le loro emozioni. Non fu un caso se a Viareggio nacque, nel 1929, il Premio Viareggio per la letteratura, creato da Leonida Repaci, vinto nella prima edizione da Lorenzo Viani, presenti Luigi Pirandello e Massimo Bontempelli. Il Premio Viareggio nasceva con un’aura di fronda nei confronti del Regime ma, in fondo, serviva in modo indiretto a soddisfare le esigenze culturali degli intellettuali fascisti.
Questo Premio prestigioso è rimasto uno dei più importanti premi letterari italiani, di cui i viareggini vanno giustamente molto orgogliosi.
Accanto alla città balneare, così gaia e apparentemente benestante, c’era un’altra Viareggio, la città degli uomini di mare, naviganti, pescatori, calafati, dalla vita dura, dai codici severi, dai valori forti, discendenti dei primi abitanti della città, gente coraggiosa che aveva imparato a conquistarsi la vita sfidando la morte ogni giorno sulle onde o nella dura pratica del cantiere. I viareggini erano marinai esperti, famosi per la loro perizia nella navigazione a vela per la quale venivano apprezzati e ricercati dalle marinerie di altre città di mare.
Si narra di navigazioni affrontate con estremo coraggio e spirito di solidarietà “a malafora”, cioè nei mari più lontani e perigliosi dal Nord Europa, alle Americhe, all’Australia, a bordo di grandi velieri forestieri o di piccole navi uscite dai cantieri viareggini. Spesso il “padrone”, come veniva chiamato il comandante, portava con sé in navigazione la moglie e i figli ancora in tenera età, si conoscono molte storie avventurose, anche tragiche, di queste famiglie ardimentose e si sa di bambini nati a bordo dei bastimenti paterni.
La marineria a vela di Viareggio raggiunse l’apogeo fra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, iniziando a declinare con l’avvento della motorizzazione delle navi verso gli anni ’30. Lo scrittore di Viareggio Mario Tobino, che fu anche un grande psichiatra, è stato il cantore appassionato e partecipe dell’epopea della marineria viareggina, nata dal bisogno, dall’orgoglio, dal desiderio di libertà e fondata sulla conoscenza del mare e delle stelle che questi uomini possedevano. I coraggiosi marinai viareggini contribuirono anch’essi a scrivere la storia del Risorgimento nazionale, fu con la piccola tartana “Madonna del Soccorso” che Silvestro Palmerini e Raffaello Motto portarono da Genova in Sicilia Rosolino Pilo e Giovanni Corrao, esuli siciliani, per preparare lo sbarco dei Mille, e ripeterono molte volte questa rotta per trasportare armi e patrioti.
A Viareggio, oltre ai pescatori del luogo che uscivano a pesca con le piccole stardelle o con le paranze, c’erano pescatori “forestieri”, erano arrivati agli inizi del ’900 da San Benedetto del Tronto, che era allora una piccola città sull’ Adriatico priva di porto, su un mare diventato sempre più avaro di pesce. Fu così che alcuni avventurosi capifamiglia, caricate le loro barche smontate su carri ferroviari, si portarono sul Tirreno. Queste barche, chiamate “trabaccoli”, avevano la chiglia piatta adatta all’Adriatico ed avevano grandissime vele colorate sulle quali erano dipinti simboli e immagini, come motivi araldici o segni apotropaici. Quando al tramonto rientravano nel canale, procedendo lente come in processione, le vele ancora spiegate e i colori esaltati dalla luce intensa del sole calante, apparivano come una visione di rara, suggestiva bellezza, ancora presente e fonte di emozione nei dipinti di Lorenzo Viani e di tanti altri pittori viareggini. I loro proprietari e tutto il gruppo dei forestieri venivano chiamati “trabaccolari” con un punta di leggero disprezzo che col tempo scomparve, abitavano nella Darsena, la zona oltre il Canale, e le loro donne, abili nel commercio del pesce, erano riccamente adorne di collane di corallo che le distinguevano dalle viareggine. La forma della chiglia e la grandezza delle vele che favorivano la velocità e l’autonomia di queste barche da pesca, non le rendevano purtroppo adatte al mare e al cielo mutevole del Tirreno e furono spesso causa fatale di naufragi con dolorose perdite di vite umane.
Legati anche loro al mare i calafati e i maestri d’ascia avevano a Viareggio una tradizione di secoli che derivava dai loro antenati costruttori di barche e barchini nei porti della costa toscana e nelle darsene lungo i corsi d’acqua interni alle spalle di Viareggio, o sull’Arno. La loro lunga esperienza li aveva trasformati in artigiani ad alta specializzazione, quasi artisti, da loro dipendevano le misure e le proporzioni degli scafi e delle alberature che permettevano di dare sicurezza e velocità ai navicelli, alle tartane, ai cutter, ai brigantini, alle golette. La loro attività ebbe inizio nella Darsena vecchia, voluta da Maria Luisa di Borbone, e si sviluppò nella Darsena nuova e anche lungo le banchine del Canale. Nasceva con loro un’industria cantieristica che rese Viareggio famosa in Italia e nel mondo per i suoi bastimenti, in particolare per i brigantini-goletta chiamati “barcobestia”, termine che traduceva, deformandolo, l’elogio che gli Inglesi fecero dell’imbarcazione viareggina: “the best boat”. E, sulla scia della tradizione che dagli antichi maestri d’ascia e dai calafati è passata alle maestranze ricche di cultura tecnologica, ancor oggi Viareggio è sede di famosi cantieri dove si costruiscono le più belle e lussuose navi da diporto.
I maestri d’ascia e i calafati lavoravano in stretto rapporto con altri artigiani e operai qualificati, anch’essi dalla lunga tradizione familiare: alberai, fabbri, falegnami, bozzellai, velai e funai.
Costoro lavoravano e vivevano in zone separate della città a loro assegnate per avere gli spazi adatti alla loro attività, ma erano molto legati fra loro, come se fossero stati appartenenti a corporazioni medioevali.
In seno a questi lavoratori nacque a Viareggio il movimento operaio, connotato da un forte spirito di solidarietà e di rivendicazione dei diritti: fu la prima “Fratellanza”, nata nel 1895 e ancor oggi esistente, chiamata “Lega di Mutuo Soccorso e Miglioramento fra Maestri d’Ascia e Calafati”.
Viareggio “città del Liberty”, del Carnevale, della cultura e della marineria”: dietro a questa città vivace e coraggiosa, si muoveva però un’umanità dolente, di diseredati, di poveri, di sconfitti dalla vita, i Vàgeri.
La loro miseria e le loro tristi vicende vennero narrate con asciutto verismo, non privo di profonda umanità, da Lorenzo Viani che li rappresentò anche in magnifiche e allucinate xilografie, fortemente influenzate dall’Espressionismo tedesco.