Anno 10 - N. 30/ 2011
“Il Comandante sta riposando. Benedica da qui ...”
L’ULTIMO CONSIGLIERE SPIRITUALE DI GABRIELE D’ANNUNZIO
Lettere inedite di Padre Giuseppe Riboldi
Frate Riboldi venne ordinato sacerdote nel 1908 dal Beato Card. Andrea Ferrari. Conosciuto da D’Annunzio durante l’impresa fiumana e Cappellano militare sull’incrociatore “San Marco”…
di Padre Anacleto Mosconi
Vittoriale degli italiani
Prioria, stanza del Lebbroso
Nell’attuale risvegliato interesse per Gabriele D’Annunzio si nota un’attenzione particolare alla religiosità e alla fede del Poeta, suscitata specialmente dalla lettura del suo sterminato carteggio epistolare, che comprende un milione di lettere che spesso riservano delle sorprese.
È leggendo quelle carte che, lontano dalle sue pose letterarie e dagli scritti di frettolosi biografi, si riesce a scoprire un po’ di verità sul quel mistero che sta sempre come nascosto nella coscienza di ogni uomo: il suo rapporto con Dio.
Veniamo così a conoscere una corrispondenza e talvolta anche un’amicizia, con preti, frati, vescovi, cardinali e perfino col nuovo santo taumaturgo Padre Pio da Pietrelcina. A lui indirizzò la seguente lettera purtroppo mai recapitata al destinatario(1).
“Mio fratello,
so da quante favole mondane, o stupide o perfide, sia offuscato l’ardore verace del mio spirito. È per ciò che è testimonianza della tua purità e del tuo acume di Veggente l’aver tu consentito a visitarmi nel mio Eremo, l’aver tu consentito a un colloquio fraterno con colui che non cessa di cercare coraggiosamente sé medesimo. Caterina la Senese mi ha insegnato a «gustare» le anime. Già conosco il pregio della tua anima, Padre Pio. E son certo che Francesco ci sorriderà come quando all’inconsueto innesto prevedeva il fiore e il frutto inconsueti, Ave. Pax et Bonum. Malum et Pax".
Il Vittoriale, 28 novembre 1924, Gabriele D’Annunzio.
Dunque, come è stato bene osservato, se il Poeta fosse stato contrario alla fede, o anche solo indifferente, non avrebbe tenuto tanti rispettosi rapporti con i suoi ministri.
Furono invece limiti e ostacoli alla problematica e alla pratica di una vita cristiana l’orgoglio e la lussuria, il peccato dello spirito e il peccato della carne. Ciò che egli ha sinceramente ammesso e ha ben sintetizzato nel motto fatto da lui scolpire sull’architrave della Stanza chiamata della Leda al Vittoriale: “Genio et voluptati”.
Il suo smisurato orgoglio gli fa scrivere pagine con affermazioni magniloquenti, discorsi di esaltazione delle sue imprese belliche, presentazione di una vita “inimitabile” fino ad affermare: “Vige in me qualcosa di divino e di inconoscibile”(2).
In una lettera del 15 dicembre 1929 indirizzata a Don Pasquale Brandazzo, abate di San Cetteo in Pescara, rivolgendogli l’invito a venire al Vittoriale per trattare della cappella che voleva per sua madre, scrive: “Voi v’incontrerete col più animoso e col più generoso degli uomini, che tutti gli umili e i semplici di cuore amano”(3).
Della sua sensualità se ne confessa schiavo egli stesso in una pagina del “Notturno”, composto nel 1916.
“Il male che ha devastato tanta parte della mia esistenza, che ha guastato tanta mia ricchezza, che ha avvilito tanta mia passione, che ha affievolito tanto mio impeto, difformato tanta mia opera, distrutto tanti germi, contaminato tanto desiderio, umiliato tanto dolore, il male originario, il mio male ereditario”(4).
In un’intervista del 1934 dichiara: “Mi si gabella per un ateo, irreligioso e immorale. Ho sempre creduto in Dio: ho rispettato anche nei libri la religione. Quanto alla morale che ho praticato secondo il mio talento, riconosco oggi di essere terribilmente castigato”(5).
Dunque egli non nega né il suo orgoglio, né la sua sensualità ma non accetta che lo si ritenga un uomo irreligioso e ateo.
Ma passano gli anni, arrivano gli acciacchi, incombe la solitudine della vita eremitica del Vittoriale, e si può notare un progressivo e significativo avvicinamento alla religione e a Dio.
In una lettera del 17 giugno 1935 indirizzata a Don Giovanni Fava, Parroco di Gardone, col quale aveva rapporti d’amicizia, gli rivolge un singolare invito, chiedendogli di venire a benedire la nuova ala del Vittoriale, chiamata Schifamondo. E di fatto vi andò il sabato santo del 1937, alle ore 15. Scrive Don Fappani: Lo ricevettero la Baccara e tutta la piccola “Corte”. La pianista lo condusse a benedire le stanze. Giunta però davanti a quella del Poeta, soggiunse sottovoce: “Il Comandante sta riposando. Benedica da qui”. Forse egli se ne dolse di non essere stato svegliato. Comunque ritenne la benedizione come una grazia e, presa la penna, con il suo solito stile magniloquente stilò una breve lettera di ringraziamento:
“Don Giovanni Fava, mio dilettissimo fratello, sento già l’aura dell’Angelo che dalla tua Bontà fu mandato alla mia casa tanto triste.
Ti offro per i tuoi poveri queste mille lire, dolendomi d’essere anch’io tanto povero e di non poter offrire di più.
Fratello mio, ti abbraccio con alti voti Pasqua 1937
Gabriele D’Annunzio”(6).
Non molti mesi dopo, in un pomeriggio del 3 agosto 1937, ecco l’inattesa visita del Poeta ai Padri Cappuccini del convento di Barbarano di Salò, distante circa un chilometro dal Vittoriale. La notizia ci è stata tramandata in maniera commossa e dettagliata dal cronologo conventuale che racconta “… arrivò una telefonata per il padre Guardiano. Questi accorse e udì la voce della signora Luisa Baccara, che a nome del Comandante, lo pregava di dare ospitalità per quella notte a Padre Riboldi dei Domenicani di Milano, amico personale di D’Annunzio, che in quel momento si trovava al Vittoriale.
Verso sera arrivò l’elegantissima macchina dalla quale discese D’Annunzio in persona, che fra lo stupore e l’imbarazzo dei frati accorsi, si profuse in saluti e inchini, e tutti abbracciò e baciò. S’intrattenne poi a lungo parlando familiarmente di francescanesimo. Poi ripartì, e la macchina ritornò col Padre Riboldi e, insieme, un quadro di S. Francesco e doni per la mensa: una torta, un salame, una coscia di maiale così enorme che fu servita in più giorni.
Il mattino seguente il Domenicano celebrò la S. Messa, ricordò il Comandante, esortò a pregare per lui. Disse, e la voce gli tremò un poco nel proferire queste accorate parole: è un’anima in pena”(7).
Ma chi era questo frate Riboldi?
Nato a Milano il 10 dicembre 1885, nipote del grande Cardinale G.A. Riboldi, che fu vescovo di Pavia, venne ordinato sacerdote nel 1908 dal Beato Card. Andrea Ferrari.
Conosciuto da D’Annunzio durante l’impresa fiumana e Cappellano militare sull’incrociatore “San Marco” , fu Consulente culturale dell’Ambasciata italiana a Washington nel primo dopoguerra 1915-18.
Più tardi, a 44 anni, entrò nell’Ordine dei Domenicani, fu destinato in varie sedi conventuali ricoprendo sempre incarichi importanti. Vicedirettore del Collegio Lombardo a Roma, fu poi Rettore del Collegio Borromeo di Pavia.
Infine assegnato al celebre convento di S. Maria delle Grazie a Milano ne curò i primi restauri e, dopo le disastrose incursioni dell’ultima guerra, si impegnò animosamente a curarne la ricostruzione.
Qui venne a morte il 4 agosto 1966.
Recentemente di questo religioso di notevole levatura spirituale e culturale siamo riusciti a rintracciare cinque lettere di grande importanza per la conoscenza della religiosità di D’Annunzio.
Sono scritti che aprono uno spiraglio nuovo e sorprendente sull’anima del Poeta. La schietta e profonda amicizia tra i due è tale che permette al P. Riboldi forti e chiari rimproveri e richiami ad una vita più seria e coerente, con significativi riferimenti dottrinali e morali, allusioni e sottolineature “ad personam”.
Nella prima lunga lettera, datata da Casatenovo 6 settembre 1937, chiama il Poeta confidenzialmente “Ariel” dandogli del tu.
Quindi gli trascrive dal “Proemium decem definitionum” del Vescovo Diadoco del secolo V, nel testo in lingua latina, la definizione delle tre virtù teologali concludendo: “Dunque la dannazione consiste in tal frenetico orgoglio, onde non si avverte più l’eccesso d’amore di cui siamo oggetto”.
In fine scrive: “A Luisa [Baccara] ho lasciato per Te il saluto del mio amore per te. Verrò presto, usando del Tuo permesso come d’una imprescrittibile chiamata.
Mi fai piacere ricordandomi a Luisa; mi onori, quando accetti il mio omaggio; mi regali del Tuo dono ottimo, accogliendo in umiltà l’offerta delle mie sacerdotali preghiere”.
Otto giorni dopo, una seconda lettera spedita da Monza dove dice di aver visitato il Duomo, accenna alla Corona Ferrea, all’Acqua Battesimale, al Roveto Ardente, e conclude: “Quando [Dio] getterà sulla tua creta il respiro dello Spirito?”.
La terza del 9 ottobre da Milano termina: “Invoco su Te le parole di Cristo. Slegatelo mani e piedi”.
La quarta del 23 ottobre gli ricorda le parole del Vangelo di Giovanni: “Voi siete dèi”, richiama il figliol prodigo, e chiude: “Tu mi dimentichi ostinatamente; non io, che ti metto alla prova, sollecitando la tua speranza”.
L’ultima scritta a Capodanno del 1938, è piuttosto fredda fin dall’intestazione: “Caro Gabriele”, contiene chiari rimproveri e dopo gli immancabili “Omaggi a Luisa”, termina con un “Post scriptum” significativo e quasi profetico: “Chinarsi, dunque, al Dio delle altezze. E col Velocissimo bisogna esser veloci”.
In data 21 febbraio 1938, quindi a pochi giorni dalla sua morte si legge nel Diario della sua cameriera Emilia Aelis Mazoyer questa annotazione: “Anniversario del volo di Pola. Il Comandante mi parla a tavola, dicendomi che nessuno se ne ricordava… Trovandomi sola un momento dopo, la Baccara essendo andata da basso a prendergli qualche cosa, mi disse: “Aelis fammi il segno della Croce sulla fronte”. Io lo guardai un momento e feci come egli mi aveva chiesto. Il Comandante non disse altre parole. Giornata molto depressa. Giuro che questa è la verità”(8).
Davvero il tempo del Poeta è passato ormai veloce e quel segno di croce di Aelis è stato forse il sigillo della sua fede. Il giorno 1° di marzo D’Annunzio muore.
Il Parroco Don Fava fu subito chiamato al Vittoriale e come ne fa testimonianza la nota del Necrologio Parrocchiale “Gli fu data l’assoluzione in articulo mortis e l’Estrema Unzione sub conditione”(9).
Nonostante le opere condannate all’Indice e la fama di poeta immorale, l’Autorità ecclesiastica permise che gli fossero fatti solenni funerali in Chiesa.
Pertanto possiamo ben concludere che P. Riboldi fu l’ultimo consigliere spirituale di D’Annunzio e il secreto depositario di un vero travaglio religioso del Poeta. E questi, pur in mezzo alla frastornante vita di poeta, soldato, amante, davvero credette al mistero. E possiamo ammettere che fosse sincero allorché nella citata lettera al Beato Pio da Pietrelcina affermò di essere “Colui che non cessa di cercare coraggiosamente sé medesimo”.
E Curzia Ferrari lo definisce bene: “un credente infedele” nel quale “la volontà ebbe parvenza di ramoscello spezzato dalla tempesta”(10).
Diamo ora qui di seguito le lettere di Padre Riboldi (11).
1
Casatenovo 6.9.37
Ariel,
mentre lo vo leggendo, trascrivo a piacer Tuo dal Proemium decem definitionum di Diadoco l’epirota, De perfectione spirituali capita centum
Definitio Fidei: meditatio supersensibilis de Deo
Definitio Spei: peregrinatio sensus cum amore versus ea quae credimus
Tertia est definitio Perseverantiae: absque interruptio invisibilia aut visibilia cernere
…………………………………………….
Cognitionis definitio quinta est: quod est cognoscere seipsum in separatione a Deo. L’Episcopus Photicensis vuol certo suggerire che sorta di miseria consegue da tal separazione, e quale inizio di separazione di sapienza sia il riconoscerlo. Or ascolta la rivelante definizione dell’amore: augmentum charitatis versus superbos. Dunque la dannazione consiste in tal frenetico orgoglio, onde non si avverte più l’eccesso d’amore di cui siamo oggetto. Sicché la preghiera essenziale implori l’adorazione.
Infine, decima definitio perfectae transmutationis: in deliciis Dei horribilitatem mortis pro gaudio habere. Regola della metamorfosi deiforme. Mi viene in cuore la tua infantile cioè ineffabile tristezza. Ma perché la curiamo col piacere? Meglio la si preserva – Tu lo ài detto – nella contemplazione della morte, che sarebbe il paradiso recuperato deliciarum Dei. E preservarla bisogna quella tristezza cruciante, poiché non è dono da dilapidare. Teniamo, teniamo nella ferita umana il coltello vittimante, che di noi non esca il miglior sangue della Redenzione.
A Luisa ho lasciato per Te il saluto del mio amore per Te. Verrò presto, usando del Tuo permesso come d’una imprescrittibile chiamata. Mi fai piacere ricordandomi a Luisa; mi onori, quando accetti il mio omaggio; mi regali del Tuo dono ottimo, accogliendo in umiltà l’offerta delle mie sacerdotali preghiere.
Tuo fra Giuseppe
2
Monza 14-9-37 Exaltatio scae Crucis
Gabriel in Cruce et Luce, la Tua memoria più fedele di Te? Questa maschera del Tuo volto terreno, che la deliziosa malalingua tantalica attribuisce ad Angelo Conti, sollecita la mia certezza: dunque ài tenuta libera la fedeltà per una suprema dedicazione; vengo via da questo Duomo, dove nella Corona Ferrea come in vera di fonte ascoltai ripigliare la Tua Acqua Battesimale. Tu ferrato di limo? Sia pur quello della foce natale, scuotilo; e scàlzati che sei presso il Roveto Ardente. Quel ferro non ti difende più, come non più deve melanconia comprimente. Già non ti senti magnificamente intenerito? E Gli sei grato, poiché costruito di caducità (e fu miracolo Suo) ora non ti distrugge. Quando getterà sulla Tua creta il respiro dello Spirito?
Ti abbraccio silenziosamente
Dev.mo frate Giuseppe
3
Milano Dalle Grazie 9.10.37
Ariel,
vuoi proprio esser Tu l’Angelo apocrifo che toglieva fiato all’anelito di Eleonora? Ne curasti penna per penna l’ali, sì che nel cielo d’Italia l’acclamazione delle Laudi e in quello di Vienna il rombo eroico incessante; ma come ne lasceresti il passo legato nel tronco? Dove cadrebbe inesorabil la scura.
Invoco su Te le parole di Cristo: “Slegatelo mani e piedi”
Tuo padre Giuseppe
4
Amabile Gabriele,
vo predicando sulla necessaria conformità a Cristo, dunque del nostro prender forma della Parola Eterna; e nel trattarne, secundum Joannem, mi nascon fra le mani verità trepide e ferme come l’astro leggiadro. Noi le disconosciamo, infamemente. Eppure ci furono intimate, Spiritu et Sanguine.
Prendi e leggi: Joa. X: 34-39: “è detto: voi siete dèi. Se son chiamati così quelli ai quali la Parola, come accuserete di bestemmia la Parola che si afferma Figlio di Dio?”
Or ti domando: Perché discendere dalla Deità al Semidio? Errore del tuo e nostro tempo.
Ma ci resta la gioia del figliuol prodigo: tornare al Padre.
Tu mi dimentichi ostinatamente; non io, che ti metto alla prova, sollecitando la tua speranza.
Tuo aff.mo
P. Giuseppe Riboldi
5
Dalle Grazie, Primo d’Anno [1-1-38]
Caro Gabriele, Tu per Stoppani ripeti due volte il vocativo della amicizia; or io quante e quante, in spirito di preghiera? Ma Tu persisti in una dimenticanza cupa; perché? Ebbene, Qualcuno più forte della tua estrema debolezza ti richiamerà alla Luce, per ancora Tue serene parole: e queste a Dio, che a Te diano pace e gioia. Triste metodo il tuo dell’adoperare il Piacere per estinguere il Dolore, la Potenza per vilipendere la tua e la Sua bontà, il capriccio per servire la Bellezza.
Verrò a trovarti ben presto, forse prima dell’Epifania, o re mago, E darai a me la Tua Mirra, ond’io ne imbalsami per la Resurrezione il Cristo da Te Crocifisso.
Ti abbraccio. Omaggi a Luisa
Dev.mo p. Giuseppe Riboldi
P.S. Chinarsi, dunque, al Dio delle altezze. E col Velocissimo bisogna esser veloci.
La lettera fu profetica. D’Annunzio morì due mesi dopo, il 1 marzo 1938.
IMMAGINI
D’Annunzio con Mussolini
(Gardone, 1927)
Varo dell’incrociatore San Marco(1909)
Come si presentava il convento di S. Maria delle Grazie a Milano dopo i bombardamenti del 1943.
Ritratto di Luisa Baccara
Ritratto di Aélis Mazoyer
*** Note**
1) Padre Geraldo Di Flumeri, in: Voce di Padre Pio. Rivista dei Cappuccini di S. Giovanni Rotondo, maggio 1977, p.16.
2) ROMANO M. LEVANTE, D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale, Ed. Andromeda Colledara, 1988, p. 468.
3) FERNANDO DE ROSA, Pescara e i Luoghi Dannunziani, Ed. Tracce Pescara, 1996, p. 215.
4) Notturno, Ed. Treves, a. 1921, p. 156.
5) ROMANO M. LEVANTE, op.cit., p. 423.
6) A. FAPPANI, D’Annunzio “parrocchiano”, in: Memorie storiche della diocesi di Brescia, 31 (1964), p. 75.
7) A. FORTINI, D’Annunzio
e il Francescanesimo, Assisi 1963, pp. 221-227.
8) A. FAPPANI, articolo citato, p. 77.
9) Alla data nel Liber Mortuorum della Parrocchia di Gardone Riviera.
10) ROMANO M. LEVANTE, op.cit., p. 331.
11) Archivio del Vittoriale ad vocem.
Il letto, detto "delle due età"
perché "quasi culla e quasi bara" – allestito per esporvi la sua salma - è sovrastato dal dipinto raffigurante
San Francesco che abbraccia D’Annunzio lebbroso, basandosi sulla credenza medievale che il lebbroso è
signatus, toccato da Dio, e quindi sacro.
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