Anno 10 - N. 30/ 2011


Per un debitore, mantenere la credibilità (e dunque il credito) è di vitale importanza [...]

I CONTI SENZA L’OSTE

«When it rains and shines, it’s just a state of mind» (The Beatles)

di Paolo Brera




Sono molti i misteri di una crisi economica. Improvvisamente meccanismi collaudati e fino a quel momento impeccabili nel loro funzionamento cessano di operare: il tale Paese non riesce più a trovare acquirenti per i suoi buoni del Tesoro, il tale settore industriale vede illanguidirsi le ordinazioni per i suoi prodotti, i lavoratori che restano disoccupati non ce la fanno a trovare un altro lavoro. La natura delle crisi fa sì che fenomeni come questi si manifestino per lo più in modo improvviso, a volte preceduti da vaghe avvisaglie, spesso out of the blue.
Uno dei caratteri più salienti della crisi economica che stiamo attraversando ora è l’ingripparsi del mercato del credito. È difficile rendersi conto del perché fino a sei mesi fa tutto sembrava andasse abbastanza bene, con qualche problema ma nell’insieme sotto controllo – mentre al momento attuale ogni rifinanziamento di debito pubblico in scadenza è uno psicodramma. C’è una regola, una legge dietro questi rovesciamenti di situazione? Oppure siamo in preda a fenomeni entelechiani (per rubare la versione proposta da Giovanni De Maria di un concetto aristotelico), espressione dell’azione di una Mano Invisibile che a differenza di quella intravista da Adam Smith non s’impaccia di cause ed effetti ma di scopi?
Gli economisti hanno la tendenza a presentare la loro tetra scienza come una conoscenza esatta basata su quantità precise e verificabili. Ma questa non è la verità. In effetti, le somme e le sottrazioni che portano alle grandezze economiche meno banali sono fatte su addendi la cui realtà effettiva può sempre essere revocata in dubbio. I valori economici non sono quantità fisiche, che si possono contare con relativa facilità. Entrano sempre in gioco aspetti psicologici: e se dico “sempre”, intendo proprio dire sempre.
Esistono livelli dove questa influenza psicologica sembra minima. Se devo fare l’inventario di un magazzino, posso certamente contare le unità fisiche che vi si trovano – non a caso i contabili vengono scherzosamente detti in inglese bean counters, contafagioli. Il guaio è che il numero (o il peso) dei fagioli che si trovano in magazzino ci dice in definitiva ben poco, in campo economico. Perfino nel caso in cui appunto i fagioli siano l’unico prodotto di un’azienda agricola, una parte di quei fagioli rappresenta la semente per l’anno successivo, un’altra il prodotto che una volta venduto ci darà la possibilità di pagare i fornitori e remunerare i fattori di produzione: terra, lavoro e capitale. Inoltre, se il numero dei fagioli che abbiamo da vendere è importante, non lo è di meno il loro prezzo: solo moltiplicando l’uno per l’altro si arriva al valore dello stock di fagioli che ho in magazzino.
Il problema è che quando cerchiamo di determinare questo valore la vendita dei fagioli è di regola nel futuro, e se si potesse conoscere il futuro, non ci sarebbe il Totocalcio.
Certo, io posso formulare ragionevoli ipotesi (be’, io in verità no, ma alcuni lo fanno, nel caso dei fagioli). Posso pensare che al momento di venderli, per i nostri fagioli vi sarà sul mercato un certo prezzo piuttosto che un altro. Vero, verissimo. Ma la valutazione che decido di utilizzare non ha il crisma dell’esattezza scientifica. Per quanto io cerchi di fondarla su ipotesi verisimili, la cifra a cui pervengo resta essa stessa un’ipotesi. Altri ragionamenti mi condurrebbero ad altre ipotesi e dunque anche a valori differenti, non necessariamente meno plausibili.
La contabilità ha sempre a che fare con una certa idea che i contabili si fanno di come sarà il futuro. Anche una volta venduti i fagioli, infatti, dovrò preoccuparmi che mi siano davvero pagati: già che non tutti i compratori sono anche buoni pagatori. Certo, fra le poste contabili tipiche ne esiste anche una chiamata “riserve”, accantonamenti (puramente contabili) che servono a coprire l’eventualità che le cose vadano diversamente da come si crede. Se queste diminuiscono l’incertezza, non possono però toglierla di mezzo del tutto, visto che simili riserve, quando va bene, sono determinate in maniera probabilistica sulla base degli eventi passati: la realtà successiva può comunque smentire le nostre anticipazioni. In definitiva non è possibile misurare con esattezza i costi di un’azienda, e neppure i suoi ricavi (volendo essere più rigorosi si dovrebbe dire: le attività e le passività, perché l’incertezza si estende al di là dei costi e dei ricavi). L’utile, che ne è la differenza, è quindi indeterminato: anche nel momento in cui viene tassato, e dunque implicitamente viene considerato un dato oggettivo, è in realtà impastato di ipotesi sul futuro. Siamo di fronte a una grandezza probabilistica, come quelle che si incontrano nella fisica quantistica. Con l’aggravante che neppure la probabilità è nota.
Se le quantità economiche stesse sono materia di valutazione e non di misurazioni precise, i criteri di valutazione non possono non avere un’importanza fondamentale. Le valutazioni non sono fatte dalla Divinità, ma da esseri umani. Tutto quello che sappiamo sugli esseri umani ci induce a ritenere che le valutazioni possono essere basate su metodologie fisse e certe: ma solo fino a un certo punto; e comunque la pressione emotiva o quella dell’interesse personale possono sempre indurre a metterle da parte nel momento in cui si è chiamati a fare una valutazione.
In campo economico, le decisioni degli operatori sono di solito basate su qualche insieme di cifre, sulla scorta delle quali viene imbastito un ragionamento sul futuro. Le cifre appaiono precise, ma la loro aderenza alla realtà resta comunque imperfetta, appunto per i motivi che sono venuto esponendo nelle righe precedenti. Di rado poi esse sono accompagnate da una qualche indicazione dell’intervallo di confidenza, o anche di un qualche concetto meno preciso di questo ma utile a farsi un’idea. A posteriori, dopo che la scelta dell’operatore è stata effettuata, è pensabile farsi un’idea delle stime che l’operatore ha fatto dell’affidabilità dei suoi dati. Ma a priori, è impossibile saperlo. Due diversi operatori, di fronte al medesimo insieme di cifre, prenderanno decisioni diverse. Oppure, se si manifesterà il cosiddetto bandwagon effect (detto anche “istinto del gregge”), prenderanno la stessa decisione, e quel tanto di cifre economiche di cui dispongono sarà usato solamente per giustificare a posteriori la scelta effettuata, con un processo analogo a quello che la psicanalisi chiama “razionalizzazione”.
Dovrebbe essere chiara, a questo punto, l’importanza dei fattori psicologici nel processo economico. L’economia classica e il pensiero marxista, due tendenze dottrinarie che hanno avuto un grande successo nei due secoli scorsi, sono del tutto cieche di fronte a questo aspetto. Ma anche l’establishment degli economisti accademici non gradisce che se ne parli troppo: ne andrebbe di mezzo il loro prestigio di interpreti di una realtà oggettiva. Quando le formule sono mediate dai processi psicologici, la loro autorità ne risulta diminuita. Così è, ma solo se vi pare.
La crisi del debito sovrano che ha debuttato su tutti i mercati un paio d’anni fa non può essere capita se non si tiene presente che a muoverla è la psicologia.
Alla radice di ogni debito c’è il credito che viene fatto al debitore. Nessuno può indebitarsi se non c’è qualcun altro che gli fornisce il valsente.
La parola “credito” deriva da “credere”, che in latino vuol dire “affidare” o “tramandare”#[1] e in italiano, be’, secondo il dizionario Devoto-Oli vuol dire un sacco di cose, ma possiamo limitarci ai due sensi di “prestar fede” ed “essere convinti”. Tanto il senso latino quanto quello italiano vengono buoni per una spiegazione del concetto di credito. Chi affida qualcosa di valore a qualcuno senza ricevere seduta stante qualcosa in cambio, è convinto che otterrà invece qualcosa in futuro perché presta fede al debitore che promette di farlo. Storicamente il credito è una delle prime forme di scambio e mutua accettazione fra gruppi umani: a quanto sembra, è nato addirittura prima del baratto. Esso implica un serio riconoscimento del debitore come persona capace di superare il proprio possibile egoismo e di dare, anziché limitarsi a prendere e svanire poi immediatamente nella savana. Se il creditore mostra così di rispettare il debitore, questo (nel momento in cui adempie il dovere di ricambiare il valore prestato con qualcosa di almeno altrettanto prezioso) a sua volta rivela di avere solidi princìpi etici.
Nelle società degli ultimi secoli non c’è comunque solo l’aspetto etico, ma anche quello pratico. L’economia è abbastanza complicata da celare molti imprevisti, sicché anche il debitore più onorato potrebbe, al momento buono, non avere i mezzi per rimborsare ciò che ha ricevuto. Can’t pay, won’t pay, dice l’adagio inglese: chi non può pagare, alla fine non paga.
Il creditore quindi cerca di farsi un’idea non solo dell’onorabilità di chi chiede un prestito, ma anche della sua situazione complessiva sotto il profilo finanziario. E qui cominciano le complicazioni, perché l’economia può essere vista anche come una rete molto complessa di obbligazioni reciproche, e la possibilità che Tizio restituisca i suoi sesterzi a Caio dipende anche dalla puntualità con cui Sempronio paga quello che deve a Tizio. Se troppi Sempronii vengono meno ai propri impegni con Tizio, neppure lui, con tutta la sua buona volontà, avrà la possibilità di rispettare gli obblighi che ha contratto con Caio.
Ma tutto questo, anche e più dell’indeterminatezza delle cifre, è uno sterminato campo per fenomeni di natura psicologica.
Quando un numero crescente di operatori cade nell’insolvenza, la probabilità che ci cada anche quello di cui si sta occupando il creditore aumenta. Lo stesso creditore, del resto, può diventare più pessimista appunto perché si guarda intorno e vede l’aumento del numero degli insolventi. Pertanto i criteri per concedere fiducia possono farsi più restrittivi proprio mentre la situazione economica peggiora e c’è un maggior bisogno di credito.
Se consideriamo il fare credito come il risultato di un processo attraverso il quale il creditore si convince che il debitore merita il credito, perché avrà la volontà e la capacità di restituirlo con gli interessi, non dovremmo cadere nell’errore di mettere l’accento su una sola delle due parti. Non c’è solo il debitore le cui condizioni presenti e vicende passate danno indicazioni sulla sua affidabilità, c’è anche il creditore con la sua psicologia, le sue convinzioni e la sua disponibilità di informazione. Può anche darsi che io sia un emerito farabutto, ma se la persona a cui chiedo un prestito non lo sa, potrebbe essere disposto a farmi credito. Oppure io posso essere una specie di angelo sceso dal cielo a miracol mostrare e prestit rendere, ma il mio interlocutore è nutrito dello shakespeariano Never a borrower nor a lender be: le sue convinzioni impediscono che io riceva il prestito. Da ultimo, può essere che il mio modo di chiedere non corrisponda alla sua psicologia, e anche in questo caso dovrò aspettarmi un rifiuto oppure un inasprimento delle condizioni del prestito.
Quello a cui stiamo assistendo oggi sul mercato globale del credito è molto probabilmente un mutamento profondo nelle convinzioni, nella psicologia e nell’informazione del creditore. Fino a poco tempo sembrava impensabile che uno Stato sovrano dell’Europa potesse finire nell’insolvenza: oggi si sa che può succedere. I media registrano anche i diversi elementi che rendono plausibile un’evenienza del genere, mentre una volta, per molti Stati, non ne tenevano il minimo conto: e se ancora sono scarsi i discorsi sul fatto che la posizione debitoria degli Stati Uniti è insostenibile, non sono più liquidati come manifestazioni di demenza precoce. Infine, la psicologia del creditore è ispirata a maggiore cautela. Coloro che indirizzano i capitali sono più esitanti a prestarli e chiedono interessi più alti.
Una simile costellazione di fattori psicologici e informativi può giocare, per qualsiasi Paese, il ruolo della “profezia che si autorealizza”. La più solida delle banche può essere travolta dalla convinzione che in effetti non sia solida: se tutti si precipitano a ritirare i propri depositi, qualsiasi banca crolla. Nel sistema bancario di ogni Paese c’è un prestatore di ultima istanza che è la Banca centrale di quel Paese. Ma anche una Banca centrale può ormai soccombere a un’ondata di sfiducia.
Per un debitore, mantenere la credibilità (e dunque il credito) è di vitale importanza. La credibilità comunque è come un sistema fisico in equilibrio instabile: qualunque allontanamento dalla posizione di equilibrio produce forze che tendono ad allontanarne ulteriormente il sistema (feedback positivo). L’economia è molto più complessa di quasi tutti i sistemi fisici e quindi l’analogia non è perfetta: accanto ai meccanismi di feedback positivo ve ne sono anche altri che esercitano un feedback negativo. Per esempio, se il deficit pubblico cresce troppo, il governo imposta una manovra correttiva. Ma se tali meccanismi vengono lasciati degenerare, l’equilibrio può rompersi una volta per tutte, e ciò che si ricostituirà sarà un equilibrio di altro tipo, non necessariamente piacevole per gli interessati.
La credibilità di uno Stato (non solo come prenditore di credito) dipende dal fatto che tale Stato compia o meno le azioni che la platea dei creditori (o qualsiasi altra platea rilevante, se non stiamo parlando di credito) ritiene che salvaguardino l’equilibrio finanziario (o qualunque altro equilibrio rilevante, se, di nuovo, non stiamo parlando solo di credito). Se vengono adottate azioni che non hanno gli effetti attesi, le valutazioni dei creditori cambiano. Una manovra correttiva insufficiente porta alla necessità di una manovra successiva più grande di quella che in precedenza sarebbe stata considerata adeguata.
Per vent’anni abbiamo vissuto in un sistema economico globale in cui non c’era limite al credito che potevano ricevere gli Stati Uniti, che di tale sistema costituivano il perno. Questo credito è stato utilizzato dagli americani per consumare di più rispetto a ciò che producevano e per pagarsi armamenti il cui costo totale equivaleva a quello sostenuto dal resto del mondo nel suo insieme. Ancora oggi, le agenzie di rating dichiarano che è praticamente impossibile che il governo di Washington venga meno ai suoi impegni di rimborso del credito, anche se questo (unito a quello dell’intera economia americana) supera di oltre quattro volte il prodotto interno lordo. In termini semplici, ciò significa che se gli americani volessero estinguere i loro debiti, per quattro anni dovrebbero lavorare e consegnare l’intero prodotto ai creditori, senza consumare nulla.
La disponibilità a fare credito è una delle forme che assume il “capitale sociale” a livello di economia mondiale. Se il credito complessivo diminuisce, sotto la duplice sferza della volontaria limitazione del debito da parte dei debitori e della propensione a fare credito da parte dei creditori, l’attività economica diminuisce a sua volta.
Per molti debitori esiste oggi un problema di recuperare credibilità. L’Italia ne sa qualcosa. Abbiamo davanti anni in cui, quale che sia il governo, dovremo fare sacrifici per dimostrare a chi detiene i dingding che siamo degni di riceverli in prestito. Auguriamoci che si riesca a farlo senza soffrire troppo, quam minime creduli postero e nihil (vel paucum) inde sperantes.