Anno 10 - N. 30/ 2011
Ma forse il giudizio sul Poeta per me più intrigante è quello espresso dalla vedova Mary e ripreso dalla Woolf: “Non uno di noi”.
COR CORDIUM
Il cuore incombusto di Shelley?
Nascita di un mito
di Giulio Cesare Maggi
Il Funerale di Shelley
Luis Edouard Fournier
(1854 - 1917)
Una esistenza per nulla comune o convenzionale quella di Percy Bysshe Shelley, che non poteva concludersi con una morte, per così dire, banale. Della sua vita, delle complesse vicende amorose e matrimoniali, delle sue stravaganze personali, della sua penetrazione psicologica dell’animo umano, della sua “filantropia” ma soprattutto della sua straordinaria attività letteraria e poetica moltissimo è stato detto e scritto, già lui vivente e poi fino ai nostri giorni.
“La promiscuità dei suoi affetti –scrive Emilio Cecchi – è ancor più evidente dopo la pubblicazione delle New Shelley Letters”, avvenuta poco più di mezzo secolo fa: esse “creano un caos esemplare. Alla complicazione di rapporti amorosi, dai quali non è possibile prescindere, a Shelley si associava tuttavia un insieme indistinto di umanità e di amoralità, si accompagnavano sentimenti di bontà, un amore per l’umanità, espressi nelle sue liriche”.
Di lui si potrebbe dire quanto hanno scritto il De Quincey “Shelley, un angelo impazzito, un uomo distrutto” o Arnold “un angelo mancato che batte le luminose ali nel vuoto”, mentre l’amico suo Browning lo considera “cieco per ideali al calor bianco”.
Ma forse il giudizio sul Poeta per me più intrigante è quello espresso dalla vedova Mary e ripreso dalla Woolf: “Non uno di noi”.
All’inizio del 1818 Shelley partì per l’Italia per raggiungere a Venezia Lord Byron; il contatto con questi stimolò, come è noto, la vena poetica di Percy, un poco inaridita, ed il risultato di questo incontro culturale fu Julian and Maddalo al quale seguì la stesura del dramma in versi Prometheus Unbound, ispirato all’opera di Eschilo.
A Roma gli era morto un figlioletto, mentre a Napoli era nata Elena Adelaide, avuta da una donna napoletana.
Era cominciato per Shelley un particolare Grand Tour che lo portava a Firenze, Roma, Pisa mentre lavorava però intensamente.
Alla fine del 1818, saputo che l’amico Keats era a Roma in cattive condizioni di salute lo invitava a Pisa, ma Keats non lasciò la Città. Alla sua morte nel 1821 Shelley scrisse Adonais in ricordo del grande Poeta.
L’anno successivo persuase l’amico Edward E. Williams a trasferirsi in Toscana, a Livorno, con la moglie Jane con la quale intrecciò un rapporto di grande devozione, forse solo platonico.
In quel periodo Shelley aveva affittato con la moglie Mary una casa a San Terenzo, vicino a Lerici.
L’ambiente toscano era molto favorevole agli Inglesi, numerosi dei quali delusi dalla vita in patria: altri per motivi di salute o dopo anni di attività militare o imprenditoriale in India, prima di far ritorno in Inghilterra passavano lunghi periodi sulle coste della Toscana e a Firenze, spesso stabilendovisi in modo definitivo.
All’inizio del 1822 Shelley persuase l’amico poeta ed editore Leigh Hunt a raggiungerlo in Toscana, trovandogli casa a Livorno: con il suo aiuto e quello di Byron, allora a Pisa ove presiedeva un “circolo pisano” di letterati e scrittori inglesi, egli aveva in animo di dar vita ad un periodico di tendenza politica progressista e libertaria, The Liberal. L’intendimento era quello di contrastare, come già aveva fatto con scarsa fortuna in Inghilterra, la mentalità conservatrice che allora dominava quel paese e che veniva espressa da giornali quali Blackwood’s Magazine e The Quarterly Review.
Nei primi giorni di luglio del 1822 Shelley, da San Terenzo partì verso Livorno sulla propria nuova goletta che portava sulla randa l’indicazione Don Juan, data alla barca in onore di Byron, ma che per lui invece doveva essere, e l’aveva scritto, Ariel.
La barca era stata costruita l’anno precedente in un cantiere di Genova su un progetto americano. Erano a bordo con lui l’amico Edward Williams, ex-ufficiale della Marina britannica ed il giovanissimo mozzo Charles Vivien. Il giorno 8 luglio l’Ariel, di ritorno verso San Terenzo, incorse in una burrasca di eccezionale intensità e fece naufragio inabissandosi a circa dieci miglia dalla costa. Il recupero dell’imbarcazione consentì di constatare che essa non si era capovolta ma che aveva subito danni rilevanti, come rilevato dalle Autorità portuali del Granducato di Toscana, la cui documentazione fu recuperata negli Archivi a cura di Guido Biagi (Gli ultimi giorni di P.B. Shelley, G. Civelli Editore, Firenze, 1892).
Nel suo Notes on Poems of 1822 Mary Shelley scriveva che l’imbarcazione aveva dei difetti di costruzione e non fu mai “sea worthy” ma le autorità marittime e gli esperti hanno sempre negato il fatto, attribuendo l’affondamento alle condizioni avverse del mare e, forse, alla scarsa esperienza nautica degli occupanti. Ma è stato anche scritto che la goletta sarebbe stata speronata, durante la tempesta, da un naviglio di stazza superiore.
Il giorno 18 luglio, dieci giorni dopo il naufragio, il mare restituì sulla spiaggia di Viareggio, in località detta Due Fosse, vicinissimo ad una pineta, il corpo decomposto di Percy Bysshe Shelley, il giovane di “virginee forme” come l’avrebbe chiamato il Carducci (Odi Barbare, Libro II), “quantum mutatus ab illo”: la lunga permanenza in mare ne rendeva quasi irriconoscibile il volto, la putrefazione – si era oltretutto in luglio – aveva scarnificato le parti non coperte dagli abiti. Il riconoscimento avvenne in base al ritrovamento nella tasca della giacca, di un’opera di Sofocle. I resti, ricoperti con abbondante calce viva furono inumati direttamente sulla spiaggia.
Le notizie relative allo stato del cadavere di Shelley, spesso dettagliate, sono quelle riferite dal Trelawny mentre mancano riscontri di questo tipo da parte delle Autorità sanitarie locali.
A Mary, agli amici stretti e agli estimatori del Poeta sembrò inaccettabile che egli restasse inumato in un modo così indecoroso. A una formale richiesta al Ministero degli Interni del Granducato e a quello del Ducato di Lucca, fece seguito l’autorizzazione a riesumare i poveri resti e alla loro immediata cremazione, sotto il controllo delle Guardie sanitarie e dei militari.
In accordo con il permesso ottenuto il giorno 15 agosto si procedette alla triste bisogna: nei suoi resoconti il Trelawny, bizzarro personaggio estremamente legato sia a Keats sia a Byron e forse ancor più a Shelley, descrive con crudezza il recupero del cadavere che in pochi giorni aveva avuto il distacco del cranio, in parte causato da un colpo di zappa degli operai addetti. Gli arti si erano staccati, il processo putrefattivo – nel terreno sabbioso caldo-umido – si era accelerato in modo sorprendente, malgrado l’impiego di calce viva.
La cremazione avvenne – ma il dato non è certissimo – un poco distante dal mare, ai limiti della pineta. Assente la vedova Mary che, in accordo alle consuetudini all’epoca vigenti in Inghilterra, non doveva presenziare alle esequie del marito. Oltre all’infaticabile Trelawny erano presenti Lord Byron e lo Hunt nonché i militari e le Guardie sanitarie responsabili della corretta esecuzione delle procedure indicate dalla legge.
Un ricordo storico poco noto dell’evento è costituito dalla presenza del pittore ed incisore inglese Seymour Kirkup, che era in Toscana da anni e che nel 1821 aveva partecipato a Roma ai funerali di Keats: estimatore di Shelley non aveva voluto mancare alle sue esequie. Dopo la morte di Shelley acquistò a caro prezzo il divano sul quale a San Terenzo il Poeta riposava, nella speranza che la sua immagine gli comparisse tra sonno e veglia: nulla di più tipico per un romantico inglese! (G. Artom Treves. Gli Anglo-fiorentini di Cento anni fa. Sansoni Editori, Firenze, 1982).
Nelle sue Recollections Trelawny racconta che nel corso della riesumazione del corpo di Shelley, la cui sepoltura nella sabbia era indicata con un nodoso ramo di pino, emersero dapprima un fazzoletto di seta nera, e poi ossa, brandelli di carne, gli arti staccati dal tronco ed infine il cranio, con fuoriuscita di materiale cerebrale. Alla richiesta di Lord Byron di poterlo tenere fu opposto dalle Guardie sanitarie un fermo rifiuto: tutto doveva essere cremato.
Si era pensato subito prima dell’accensione della pira alla lettura di un’orazione greca che però, dice il Trelawny, fu tralasciata “perché avevamo perduto il nostro Vate”.
A debita distanza, controllata da militari, una piccola folla soprattutto di signore “riccamente vestite”: a causa del caldo intenso – non spirava un alito di vento – la gran parte di questi curiosi si dileguò, in particolare al momento dell’accensione della pira. I resti di Shelley posti su una lastra di rame, sulla quale era già presente il fornelletto ed una parte di materiale combustibile, furono ricoperti di rami secchi di pino, molto resinosi. Trelawny in persona accese il fornelletto e dopo una fase iniziale caratterizzata dal fumo, il fuoco prese straordinaria forza, cosparso dapprima di sale ed incenso e poi di vino e olio, secondo l’antica costumanza greca.
Il calore e l’afrore erano terribili tanto che Lord Byron, non resistendo allo spettacolo, spogliatosi si gettò in mare raggiungendo a nuoto il Bolivar, la sua imbarcazione il cui comandante era il Trelawny, ancorata ad un miglio di distanza, mentre Hunt, meditabondo, si fece portare in carrozza al limite della pineta, in cerca di un minimo di refrigerio. Lo stesso Trelawny più volte entrò in mare in cerca di un po’ di sollievo.
Ora Edward John Trelawny, l’uomo della fraterna pietà, tra le lacrime che gli rigavano viso e barba, il “pirata” che amava vestire alla foggia greca, osservava col cuore in tumulto il teschio lacerato, la mandibola e i pochi frammenti ossei non ridotti in cenere, di quello che poi la Artom Treves avrebbe chiamato “l’olocausto di Shelley”.
A questo punto il fatto straordinario: ecco come lo racconta lo stesso “corsaro” nelle Recollections.
“Ma ci sorprese tutti il vedere che il cuore era rimasto intero. Nell’afferrare questa reliquia per cavarla dalla fornace ardente, mi bruciai terribilmente la mano, e se qualcuno mi avesse visto in quell’atto, sarei stato messo in quarantena. Dopo aver fatto freddare il fornello immergendolo in mare, raccolsi le ceneri umane e le misi in una cassetta che portai a bordo del Bolivar”.
In realtà egli aveva fatto preparare a Livorno due cassette di quercia rivestite all’interno di velluto nero con targhetta in rame con i dati di Shelley. È assai probabile, per non dire certo, che il teschio, la mandibola e qualche frammento osseo che era rimasto incombusto siano stati posti nella seconda cassetta: i resti furono, come previsto, portati successivamente a Roma.
Fu steso un processo verbale firmato dai rappresentanti militari e sanitari del Ducato di Lucca e da Trelawny e Byron, conservato negli Archivi e pubblicato da Guido Biagi nel 1892.
I resti di Percy Bysshe Shelley furono sepolti a Roma nel Cimitero degli Acattolici, presso la Piramide di Caio Cestio, vicino a quelli di Keats come il Poeta aveva sempre desiderato, a cura di Trelawny. La lastra funeraria porta l’indicazione COR CORDIUM, seguita dalle date di nascita e morte (non aveva ancora compiuto i trent’anni) e sotto, dal Canto di Ariel dalla Tempesta scespiriana:
“Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange”.
Forse nessun epitaffio più pertinente ed emozionante di questo.
Per quel che riguarda le ceneri della cremazione, non c’è accenno nel verbale al cuore “incombusto” e neppure ad una sua eventuale trasformazione in cenere.
Trelawny per parte sua dice di averlo preso quasi furtivamente per evitare il rischio di quarantena. Guido Biagi crede che sia possibile che l’ufficiale addetto abbia chiuso un occhio, ammesso che abbia visto il gesto del “corsaro”: si trattava ormai di un “pugnelletto di cenere” e l’ottimo uomo ricevette – se lo era meritato se non altro per la faticaccia ed il caldo – un bel cannocchiale inglese offertogli poi da Byron.
Le reliquie – è sempre Trelawny che scrive – in realtà un pugnetto di cenere, furono consegnate dapprima ad Hunt e poi, su consiglio della vedova Williams, a Mary Shelley, che in quel periodo si trovava a Genova.
Ma allora, questo cuore, restò realmente incombusto ?
È certo che alla fine divenne anch’esso cenere, come tutto il corpo di Shelley, con l’eccezione già ricordata di teschio, mandibola e qualche frammento osseo, poi inumati a Roma.
Senza voler sbugiardare l’eccellente e fraterno Trelawny, senza accedere al concetto di falsità – certo non si merita questo – può essere non inutile ricordare che in India, nel corso della cremazione, viene inferta una sciabolata al torace del cadavere per evitare la più volte constatata apparente conservazione di organi interni, che poi, al contatto con l’aria, rapidamente cadono in cenere: la religione indù infatti non consente che parti non incenerite dalla cremazione vengano in alcun modo conservate o immesse nelle acque del Fiume.
Non è quindi impossibile che, all’interno di quel che restava della cavità toracica, Trelawny abbia intravisto qualcosa che, pur combusto, conservava l’aspetto di una massa, poi caduta in cenere al contatto con l’aria o per la sola azione meccanica esercitata dalla sua mano: alla fine tutto era ridotto in cenere, compresi i rami di pino che avevano consentito l’abbruciamento dei resti, diventati ora reliquie.
A tal proposito lo storico della medicina Arthur K. Norman, in una breve nota comparsa nel Journal of the History of Medicine and Allied Sciences (X, 140, 1955) così titola il suo contributo “Shelley’s Heart did not burn”.
A mio parere in questa breve nota Norman si avventura in un empasse diagnostico sul quale sono leciti i dubbi più severi: partendo dal fatto, per certo vero, che Shelley soffriva di disturbi ipocondriaci – era sicuramente un caratteriale – l’Autore ritiene “assai probabile” che Shelley soffrisse di una cardiopatia calcifica progressiva, una entità clinica di per sé inesistente. Non può escludersi che, anche per l’uso sistematico di oppio, il suo circolo coronarico e l’aorta fossero, a dispetto della giovane età, già interessati da calcificazioni: anche ammesso questo, non si spiega certo una patologia del cuore di Shelley determinante situazioni anatomopatologiche in grado di opporsi all’azione del fuoco, che aveva portato al calor bianco i metalli della pira (lastra di rame, fornelletto di ferro).
Men che meno possiamo far nostro il giudizio morale sullo Shelley al quale riserva, non avendone evidentemente mai letto le opere, l’infelice idea che il suo cuore “may well have been a heart of stone”: inaccettabile per uno “spirito di Titano”, per l’amico degli dèi greci.
Oltre a quella del Trelawny consegnata alle Recollections, forse non totalmente attendibile in certi particolari peraltro a noi essenziali in questo contesto, ben poche sono le testimonianze di prima mano circa l’evento.
Alla cerimonia era presente anche un ragazzino di dieci anni, certo Giacomo Bandoni interrogato, quasi ottantenne, dal Biagi nel 1892 (v. in op.cit.): costui confermò sostanzialmente quello che era stato riferito da Trelawny nelle proprie memorie.
Mary Shelley, le cui condizioni di salute andavano peggiorando fece ritorno in Inghilterra con il figlio Percy Florence e la amata nuora Lady Jane. In patria tracorse i suoi ultimi anni, nella casa di Londra, in Chester Square, dove morì il primo febbraio 1851 all’età di cinquant’un anni.
Un anno dopo la sua morte Percy e Jane aprirono il cassetto della scrivania di Mary: vi trovarono la copia a lei dedicata dell’Adonais ed arrotolato ad una pagina un sacchetto di seta contenente le ceneri che Hunt le aveva consegnato trent’anni prima a Genova per incarico di Trelawny: le cosiddette “ceneri del cuore”.
Pare che la reliquia sia stata posta nella tomba di Mary a Bournemouth, e che poi alla morte di Sir Percy Florence sia confluita nella sua urna di cremazione: padre e figlio erano così nuovamente assieme per sempre (W.L. Jacobs, in Who Are of His Family and Bear His Name).
Sia pure senza averne l’intenzione, Trelawny aveva finito per realizzare un “funerale separato del cuore” che nel Medioevo tanto aveva intrigato grandi uomini come ad esempio San Luigi dei Francesi.
È qui d’obbligo ricordare, ma si tratta solo di voci, che non per tutti la morte di Shelley fu un fatto accidentale. Accanto alla ipotesi, peraltro peregrina, di un suicidio – mai avrebbe coinvolto un amico ed un innocente giovanetto – si è parlato (E.St.Clair. Trelawny, The incredibile Romancer, New York, The Vanguard Press, 1977) di un assalto al Don Juan di pirati che, supponendo che a bordo vi fosse Lord Byron, speronarono l’imbarcazione per eliminarlo su mandato di oppositori politici inglesi. Erano tempi calamitosi nel Regno Unito per chi fosse portatore di messaggi libertari e progressisti e, in realtà questo rischio lo correva anche Shelley, le cui opinioni erano esse pure avversate, perché ritenute rivoluzionarie: figurarsi, lo apprezzava persino Karl Marx! Lo stesso Shelley, durante un breve soggiorno a Londra nel corso del 1821 avrebbe corso il rischio di venir ucciso (R. Holmes, Shelley: The Pursuit, New York, E.P. Dutton, 1975).
Da François Mauriac nel suo Ariel al Carducci delle Odi Barbare, dal Leopardi a Gabriele D’Annunzio, dal Viani a Emilio Cecchi, da cultori della grecità, scrittori e letterati ne hanno amato il genio riconoscendo in lui, come in Goethe fino a Kafka e Constantinos Kavafis uno degli spiriti che, come dice Piero Citati, “hanno fatto abitare gli dèi greci nel romanzo moderno”.
Si trovava ormai, nell’ordine morale, prossimo alla coscienza della frammentarietà, nell’accorato, sfiduciato desiderio di un “segreto” per cui rinascere. Si sentiva passato – dice Emilio Cecchi – in una “sorta di limbo; la vita gli scendeva in neutro abbandono: in quest’abbandono, a trent’anni, il “segreto” per il quale poteva attendere gli si rinnovassero vita ed arte, questo “segreto” gli fu la morte”.
Pur disperso fra il Cimitero degli Acattolici di Roma e nella piccola chiesa di St. Peter’s a Bournemouth, egli è ancora con noi nel mare, nel vento e nel cielo di Viareggio.
Bello qui ricordare dall’Anniversario Orfico dell’Alcyone dannunziano i versi dedicati a Shelley:
Gli versavan le melodi
i venti dai loro carri di cristallo …
il miel solare nella bocca schiusa
le musiche api che nudrito aveano
Sofocle, il gelo gli occhi d’Aretusa,
fiore d’Oceano.
Lettura tenuta a Viareggio il 22 luglio 2011
IMMAGINI
pag. 21
Memoriale
di Percy Bysshe Shelley e Mary Wollstonecraft Shelley (1853)
Henry Weekes
Christchurch Priory (Dorset)
Ritratto di Percy Bysshe Shelley
(Field Place, Sussex, 1792 – Viareggio, 1822)
Ritratto di George Gordon Noel Byron
(Londra, 1788 – Missolungi, 1824)
Ritratto di Edward John Trelawny
(Londra, 1792 - Sompting, 1881)
Tomba di Percy Bysshe Shelley
Foto Giovanni Dall'Orto
Cimitero acattolico, Roma
Ritratto di Mary Wollstonecraft Godwin Shelley
(Londra, 1797 - 1851)
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