Anno 10 - N. 29/ 2011


COMUNEMENTE SI CREDE ARTIFICIOSO QUESTO INCENDIO… (Pietro Verri, 1776)

Per scarico di mia conscienza unitamente li miei compagni espono con mio giuramento particolare che il capo di aver accendiato il Teatro di Milano è stato […]

di Giulio Cesare Maggi e Pierfranco Vitale




In un gustoso articolo di Alessandro Peroni, titolato “Illuministi a Teatro” ‘Pietro Verri e gli spettacoli nel Settecento milanese’, comparso di recente su questa Rivista, viene ricordato come il Teatro alla Scala fu costruito dopo “l’abbruciamento” del Regio-Ducale, il teatro di Corte, avvenuto il 25 febbraio 1776, primo giorno di Quaresima. Cattiva sorte quella dei teatri milanesi, tuttavia sempre risorti dalle ceneri, come l’Araba Fenice, sino alla Scala distrutta nel corso della seconda Guerra Mondiale. Fino alla fine del Cinquecento Milano non ebbe teatri propriamente detti.
La caparbia ostilità di Carlo Borromeo, non meno di quella del cugino Federico, non si rivolse soltanto contro le rappresentazioni teatrali ma persino verso le feste religiose, in realtà alquanto paganeggianti, pervase come erano di uno spirito carnascialesco: questo si spingeva fino alla introduzione all’interno del Duomo del “cavallazzo” di legno, convenientemente bardato di…salsicce. Carlo Borromeo in un Memoriale rivolto al buon popolo ambrosiano condannava la “pubblica professione di pazzia” di siffatta consuetudine, di fatto proibendola. E il Borromeo, oltre che ai balli ed alle giostre, si opponeva in tutti i modi alla presenza delle compagnie di guitti e commedianti sulla piazza di Milano. Questo atteggiamento del Cardinale fu sovente contrastato dalle autorità spagnole con alterne fortune. La presenza a Milano di don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Filippo IV di Spagna, Viceré di Sicilia, fu l’occasione per liberalizzare gli spettacoli teatrali, anche se il Cardinale pretese di conoscerne preventivante trama e contenuto, ma la cosa si rese subito difficile dato che gli artisti, in accordo con i canoni della Commedia dell’arte, recitavano a soggetto: gli riuscì tuttavia di ottenere che le rappresentazioni non venissero tenute nei giorni festivi. Fino alla fine del Cinquecento le rappresentazioni avvenivano nelle pubbliche piazze o in cortili privati della città. Solo nel 1598, in occasione del passaggio a Milano di Margherita d’Austria che andava sposa a Filippo III di Spagna, fu allestito in fretta e furia in un cortile del Broletto vecchio un teatro di legno, tela e gesso, che fu inaugurato dalla Principessa e che prese il nome di Teatro Margherita. Successivamente trasferito in un cortile di Palazzo Reale, esso mantenne il nome originario: era ora collocato all’incirca ove oggi si trova il salone delle Cariatidi, nella estensione Pallavicini di Palazzo.
Le condizioni economiche del Ducato di Lombardia sotto gli Spagnoli erano piuttosto critiche e anche l’attività teatrale divenne fonte di un cespite non disprezzabile. Una Grida del Governatore conte di Fuentes obbligava le compagnie di teatro a chiedere l’autorizzazione alle rappresentazioni alla Cancelleria che la concedeva sottoponendola ad una tassa: questa somma che dapprima fu devoluta al Protofisico del Ducato, veniva poi passata al Collegio delle vergini spagnole. Si trattava di cinque o dieci soldi per spettatore, a seconda della importanza dello spettacolo che doveva andare in scena. Analoga destinazione fu stabilita nel 1611 dal Connestabile di Castiglia per il denaro percepito con il noleggio delle “cadreghe e banchette che si provvederanno nei luoghi”; solo a metà Ottocento i teatri ebbero sedili fissi il platea. Per curiosità si ricorda che in quegli anni il Protofisico riceveva emolumenti per 1200 lire, mentre i “physici ducales” ne percepivano 1000: un bel salasso! (F. Chabod. Carlo V e il suo impero. Torino, Einaudi. 1985).

Il Margherita ebbe i suoi fasti: si ricordano di Manelli nel 1604 l’Andromeda, il primo melodramma rappresentato a Milano, l’Orione di Cavallo e Castiglia su libretto del milanese Carlo Maria Maggi. Nel 1689 in occasione delle nozze di Carlo III di Spagna, il Teatro Margherita, fino allora riservato alla nobiltà, fu aperto alla borghesia. Completamente rifatto nel 1696 nella stessa sede, sempre in legno e in gesso, il Margherita andò a fuoco nel 1704, mettendo a rischio anche il Palazzo. Una città come Milano, capitale della Lombardia austriaca, non poteva certo restare a lungo senza un teatro di rappresentanza: nel 1717 il Governo di Vienna autorizzò la costruzione di un nuovo teatro, nell’àmbito della Corte, utilizzando in parte gli spazi andati a fuoco: con i suoi tre ordini di palchi e la vasta platea il Regio-Ducale era veramente degno della città e del Palazzo, come è ben evidente nella celebre incisione acquerellata di Marco Antonio Dal Re. Costruito dopo la Pace di Rastadt (1714) il Regio-Ducale, specialmente dopo gli anni cinquanta del Settecento, vede trionfare le opere di Hasse, Gluck, J. Christian Bach, il milanese come fu chiamato, e poi di Gasmann, Wagenseil, Myslivecek, con quelle di Porpora, Jommelli, Leo, Piccinni, Sacchini: non di rado la poesia del Metastasio ne arricchiva il fascino.

Wolfgang Amadé Mozart vi avrebbe rappresentato tra il 1770 e il 1773, con straordinario successo, Mitridate re di Ponto, Lucio Silla ed Ascanio in Alba. Proprio in quel periodo, dopo la pace di Aquisgrana, l’impero musicale europeo tende a passare dall’Italia al di là delle Alpi, come sottolinea Giorgio Pestelli nel suo saggio Musica in Lombardia durante l’età Teresiana e Giuseppina, anche se le Scuole di Napoli, di Roma, di Milano erano ancora assai importanti, caratterizzate dal “Belcanto”. In ogni caso il grande interesse che in Lombardia veniva riservato alla musica strumentale ne faceva - come sottolineava quell’intelligente viaggiatore nel Bel Paese che fu il presidente Charles de Brosses –“son régne”.

Una descrizione molto realistica della vita musicale e soprattutto teatrale, della seconda metà del Settecento a Milano, compare nel Primo Libro dei Cento Anni di Giuseppe Rovani (Milano, Stabilimento Redaelli dei Fratelli Rechiedei. 1868): nei due secoli successivi l’ambiente teatrale di Milano non sarebbe stato sostanzialmente diverso tra trionfi, polemiche e persino meschinità.

Il mattino del 6 febbraio 1776, primo giorno di Quaresima secondo il rito ambrosiano, un violento incendio che pose a grave rischio anche la Reggia, segnò la fine del Regio-Ducal Teatro, tra il sincero rincrescimento non solo di Milano ma della intera Europa musicale. All’inizio corse voce che l’incendio fosse di natura dolosa, anche se poi la Commissione nominata dall’Arciduca Ferdinando pervenne a conclusioni negative.
Meno noto è che la stessa mattina dell’incendio era stata recapitata a Palazzo una lettera anonima che incolpava del misfatto un prete, certo don Vincenzo Brusati. Lo stile della lettera, scritta a stampatello, è (forse volutamente) sgrammaticato: qui sotto ne viene riportato l’originale (Raccolta Bertarelli, Milano), che necessita solo di trascrizione. In epigrafe e in fondo allo scritto vi sono notazioni a penna, verosimilmente di funzionari di polizia del Palazzo.
Oltre alla data 25.2, 76 Governatore di Milano Arciduca Ferdinando (questa ultima annotazione con carattere più marcato e probabilmente apposta dall’Archivista dei documenti di Stato) si può leggere:


Incendio del teatro Ducale del Palazzo Reale
per
Vincenzo Brusati

A.R.
[Altezza Reale]

Per scarico di mia conscienza unitamente li miei compagni espono con mio giuramento particolare che il capo di aver accendiato il Teatro di Milano è stato don Vincenzo Brusati sfratato di San Simpliciano di Porta Com’asina che era di quel convento quale al presente abita in Porta Orientale quale questo prete aveva fato lataco del foco a ore 3 del sabato graso credendo che doveva essere bruciato alle ore 8. Con tuta la nobiltà e i suoi parenti per essere erede il medesimo Brusati e per far sprezzo a. V.Aza, R. ma la micia è stata tropo longa ala polvere con resina al ataco tardate
sino alla domenica.
E umil sono e fedele sudito di V.A.R. le.

Bisogna rimettersi alle conclusioni della I.R. Commissione che negò ogni attendibilità a quanto esposto nella lettera. Resta comunque qualche dubbio, che forse ebbe anche la Commissione. In ogni caso il povero don Vincenzo Brusati era del tutto estraneo alla (eventuale) macchinazione: malvagi e folli non sono mai mancati. E poi la “dolce e benefica” dominazione austriaca di quel periodo, come la definiva Cesare Beccaria, forse non piaceva a tutti. Mentre il Collegio de Nobili faceva allestire un teatro “interinale”, non volendo Ferdinando che la città ne restasse priva del tutto, Piermarini iniziava lo studio non di un solo teatro, quello alla Scala, che aprì i suoi battenti nel settembre del 1778, ma anche di quello della Cannobiana, una piccola Scala, detta “el Teatrìn” inaugurato l’anno successivo.
Il teatro della Cannobiana, aperto per Carnevale e nella stagione estiva, a fine Ottocento fu acquistato dall’Editore Sonzogno e denominato Teatro Lirico Internazionale.
La Scala, distrutta nella seconda Guerra Mondiale fu ricostruita a tempo di record e restituita all’affetto dei Milanesi con una rapidità ed una efficienza delle quali sembra si siano perdute le matrici.

Giulio Cesare Maggi
e Pierfranco Vitale