Anno 1 - N. 3 / 2002
STORIA DELLA MEDICINA
LA MEDICINA NELL’ETÀ ELLENISTICA
La scuola di Alessandria
di Francesco Piscitello
Predica di San Marco ad Alessandria (1504-07) Giovanni Bellini, Milano, Pinacoteca di Brera
Alessandria d’Egitto viene fondata da Alessandro Magno nel 332-331 a.C. sul sito di un antico villaggio di pescatori e costruita su progetto di un architetto macedone, Dinocrate (1).
Completata - molto tempo dopo la morte del suo fondatore avvenuta nel 323 a.C. - da Tolomeo II (285-246 a.C.), la città, divenuta capitale dell’Egitto, si trasforma in breve tempo nel maggior centro culturale del Mediterraneo. L’interesse vivissimo per le scienze degli intellettuali alessandrini trova un ricco pabulum nel grande centro internazionale per la ricerca scientifica: il Museo di storia naturale fondato da Tolomeo I.
Del Museo fa parte la celebre Biblioteca (a fondare la quale era stato chiamato nientemeno che Aristotile (2) ), la più completa dell’antichità - è ricca di circa settecentomila volumi! - dove vengono raccolte le opere principali scritte fino a quel momento: tra queste, gli scritti di Ippocrate di Coo, accuratamente codificati e custoditi, vi occupano un posto d’onore e sono oggetto di studio attentissimo.
Ospiti della casa delle Muse, uomini di scienza (Archimede, Euclide, Eratostene) e di lettere (Zenodoto, Aristarco di Samo, Apollonio, Teocrito, Callimaco) provenienti da ogni dove animano la vita culturale della metropoli. Dagli studi biblici, fiorenti all’interno di una numerosa colonia ebraica che vi si era installata già pochi decenni dopo la fondazione, nasce la prima traduzione della Bibbia in greco, la cosiddetta “Bibbia dei settanta”. La medicina, soprattutto con Erofilo e Erasistrato, vi intraprende, per la prima volta, un cammino compiutamente scientifico.
EROFILO ED ERASISTRATO
Erofilo nasce a Calcedonia, in Bitinia, intorno al 340 a.C.: allievo di Prassagora, il rinnovatore della scuola ippocratica di Coo, e di Crisippo, esponente di spicco della scuola di Cnido, trascorre pressochè tutta la vita nella città dei Tolomei.
La dissezione del corpo umano, fortemente avversata in Grecia, è invece lecita ad Alessandria dove, pare, viene tollerata la stessa vivisezione dei condannati a morte, imprigionati nelle carceri (3).
Erofilo - come anche Erasistrato - non esita ad utilizzare questi corpi come materiale di studio. Celso, che vi fa riferimento (4) (...nocentes homines a regibus ex carcere acceptos vivos inciderunt...), l’ approva, ritenendo legittima questa modalità di ricerca, eseguita su pochi criminali, ma utile ad intere generazioni future di uomini dabbene: più tardi, tuttavia, lo stesso autore bolla come pratica crudele ed inutile la vivisezione tanto più che, dopo tutto, è possibile ricorrere all’autopsia dei cadaveri.
Erofilo dimostra l’origine dei nervi dal sistema nervoso centrale, encefalo e midollo spinale ed attribuisce loro la funzione di trasmettere alle estremità gli impulsi motori che si originano nell’intelletto. Descrive una depressione nell’osso occipitale simile alla scanalatura di un torchio in cui s’incontrano i seni della dura madre e che ancor oggi viene denominata “torculare di Erofilo”; osserva la vena porta; vede i vasi chiliferi: questi ultimi, notati anche da Cofone della Scuola Salernitana, verranno definitivamente descritti, nella loro struttura e funzione, da Gaspare Aselli, nel sec. XVII.
In quell’epoca, almeno da Prassagora in poi (5), vengono chiamati “vene” i vasi connessi con le sezioni destre del cuore ed “arterie” quelli connessi con le sezioni di sinistra. Erofilo però si rende conto che il vaso che origina dal ventricolo destro ha una struttura simile all’aorta ed ai suoi rami e, pur conservandogli il nome di vena, lo chiama phleps arterioides, vena simile ad un’arteria: questa “vena arteriosa”, come verrà a lungo chiamata, è la nostra arteria polmonare. Nello stesso modo vengono chiamate “arteria” (una sola!) le vene polmonari, a causa della connessione con l’atrio di sinistra: ma per la struttura, che egli osserva non essere dissimile da quella delle vene, parlerà di arteria phleboides, arteria simile ad una vena (6).
Compie ancora studi approfonditi sulle tuniche dell’occhio, delinea forma e struttura dell’ovaio, dell’utero, delle salpingi delle quali cerca di chiarire la funzione attraverso l’analogia con i dotti deferenti dell’apparato riproduttore maschile, dà al duodeno il nome col quale viene tuttora denominato. Stabilisce anche la relazione tra le pulsazioni arteriose e le contrazioni del cuore, applicando alla semeiotica del polso le teorie musicali di Aristosseno di Taranto: questo modo di interpretazione, scriverà Plinio, richiede che il medico sia anche matematico e buon musicista (7).
La fisiologia di Erofilo si basa fondamentalmente sulla teoria che quattro forze agiscano nell’uomo, la nutritiva, con sede nel fegato, la riscaldante, insediata nel cuore, la pensante e la sensibile, rispettivamente nel cervello e nei nervi: su questa, e su di una scrupolosa aderenza ai dettami del magistero ippocratico, si fonda l’esercizio pratico della medicina dal quale ricaverà chiara fama.
Erasistrato, nato a Céos nel 330 a.C., appartiene ad una stirpe di medici e studia ad Atene con Teofrasto di Ereso, allievo di Aristotile ed autore di un celebre trattato di botanica oltre che di un saggio sulle diverse modalità di comportamento degli uomini, un vero e proprio testo di psicologia sistematica.
Come ricercatore nel campo dell’anatomia non è secondo allo stesso Erofilo e, come quello, pratica probabilmente la vivisezione umana. Osserva per primo, come riferisce Galeno, i vasa vasorum, piccole arterie e vene che provvedono all’irrorazione delle pareti dei più grandi vasi sanguigni; studia l’encefalo degli animali e dell’uomo e nota il maggior numero di circonvoluzioni in quest’ultimo: osserva anche che le circonvoluzioni cerebellari sono assai complesse negli animali più veloci nella corsa, intuendo, seppure oscuramente, l’importanza del cervelletto nella coordinazione muscolare.
Nel campo cardiovascolare - non si può ancora dire circolatorio: l’idea di un percorso anulare e continuo del sangue deve aspettare il Rinascimento - il pensiero di Erasistrato contiene alcuni degli errori della sua epoca ma, accanto a quelli, concezioni fisiologiche sorprendentemente prossime a quelle moderne.
Il cuore è un mantice, simile a quello del fabbro (8), che convoglia verso le arterie il pneuma - che nel cuore si trasformerà in “spirito vitale” - assorbito dai polmoni. L’idea che le arterie contengano aria (di qui anche il loro nome) viene agli antichi dall’osservazione che, nella dissezione del cadavere, esse appaiono vuote di sangue. Ma dalle arterie del vivente, in occasione di ferite, il sangue esce invece abbondante: è la forza dell’horror vacui - l’orrore del vuoto è un’opinione assai forte nell’antica concezione della natura - che, sostiene Stratone di Lampsaco, sospinge il sangue laddove la fuoriuscita del pneuma, sostanza tenue ma non immateriale, lascerebbe il vuoto assoluto. Le vene trasportano invece il sangue formatosi nel fegato.
Sangue e pneuma hanno funzioni diverse: nutritiva il primo, di attivazione, per così dire, delle funzioni vitali il secondo. A questi elementi Erasistrato ne aggiunge un terzo, il pnèuma aistetikòn - “aria che permette di sentire” - che scorre nei pòroi dei nervi (“teoria dei tre fluidi“) (9).
Da anatomico attento alla relazione tra morfologia e funzione degli organi, comprende a fondo il meccanismo delle valvole cardiache: la tricuspide serve ad impedire il reflusso del sangue dal ventricolo destro all’atrio soprastante e da questo al sistema delle vene; analogamente, a sinistra la mitrale impedisce che il contenuto del ventricolo (che naturalmente è pneuma e non sangue) risalga nell’atrio, mentre le semilunari aortiche ne ostacolano il ritorno nel ventricolo: anche le semilunari della phleps arterioides, l’arteria polmonare, impediscono il passaggio del contenuto di quest’ultima nel ventricolo destro. Ma si tratta ancora di pneuma, non di sangue, che perviene all’arteria polmonare dalla trachea e da questa inviato al ventricolo sinistro (10): al quale può giungere, evidentemente, a causa di una permeabilità del setto interventricolare.
Le osservazioni di Erasistrato in ambito fisiopatologico lasciano talora sconcertati per la loro somiglianza con le conoscenze moderne: segnala ad esempio come talora il fegato degli idropici sia duro come la pietra, intravedendo la relazione tra la cirrosi epatica atrofica e l’accumulo di liquidi nell’organismo. E sempre a proposito di liquidi, il formarsi dell’edema sarebbe dovuto ad un eccesso di sangue la cui pressione nelle vene ne determina la filtrazione a livello di finissimi vasi che egli ritiene connettano le vene alle arterie (11): intuisce cioè l’esistenza dei capillari ed un meccanismo di formazione dell’edema che, sia pure a parti rovesciate e con inevitabili incompletezze ed inesattezze, non si allontana da quello che noi conosciamo.
Clinico assai sagace - “l’infallibile” lo chiamano i suoi contemporanei (12)- Erasistrato fu talora denigrato. In particolare Galeno lo accusa di praticare e diffondere una medicina, come noi diremmo, alternativa: egli non segue infatti dettagliatamente gli insegnamenti di Ippocrate ma, quando questi non gli paiono condivisibili, se ne discosta. Fedele alla sua teoria sulla formazione dell’edema, ad esempio, non tratta la pletora - ossia l’eccesso di sangue - con la dieta o col salasso (che anzi aborrisce al punto da venir detto “l’emofobo”), ma fasciando strettamente le parti rigonfie per ridurre l’apporto di sangue. Tuttavia, come osserva la Nutton (13), le osservazioni di Galeno sono ingiuste e non valutano adeguatamente la continuità tra la medicina di Erasistrato e la tradizione che lo precede.
GLI EMPIRICI E LA FARMACOLOGIA SPERIMENTALE
Il periodo di splendore della scuola alessandrina è breve e coincide, praticamente, con quello dei suoi fondatori i cui discepoli formano due scuole: quella degli erofilici e quella degli erasistratici. Più che di scuole, in realtà, si dovrebbe parlare di sette, giacchè gli adepti, in luogo di seguire la strada degli studi sperimentali dei maestri ai quali si ispirano, si dedicano alla minuziosa esegesi dei loro testi con uno spirito partigiano che ne isterilisce la feconda originalità. I più noti erofilici sono Demetrio di Apamea, Crisermo, che elabora una dottrina del polso dalla quale viene esclusa ogni relazione con l’attività cardiaca, Mantiade che si occupa di fasciature e scrive un De Officina Medici. In Laodicea inoltre fiorisce una seconda scuola di erofilici, Zeusi, Aristossene, Eraclide d’Eritrea, uno dei principali commentatori dell’opera di Ippocrate nell’antichità (14).
Tra gli erasistratici vanno ricordati Artemidoro di Sida, Apollonio di Menfi, Stratone di Berito, anch’egli commentatore di Ippocrate e grande nemico del salasso al pari del suo maestro.
Probabilmente come reazione allo sterile dogmatismo di queste scuole si va sviluppando, tra il 270 ed il 220 a.C., una nuova corrente di pensiero: quella degli empirici, la quale, forse più di quella erofilica od erasistratica, merita il nome di scuola.
L’empirismo non è una novità: prima che il pensiero di Aristotile suggerisse di sottoporre i dati dell’esperienza alla riflessione fondata sui canoni di un rigoroso metodo scientifico, l’atteggiamento empirico era già una prassi seguita da alcune correnti del pensiero medico, soprattutto a Cnido. Ma ad Alessandria questo atteggiamento del pensiero raggiunge un alto livello di dignità.
La scuola nasce, si è detto (15), in seno al ramo alessandrino degli erofilici: è un illustre rappresentante di questo gruppo infatti, ed allievo dello stesso Erofilo, Filino di Coo, il suo fondatore insieme a Serapione. Commentatore delle opere del maestro e di quelle d’Ippocrate, autore di un’opera sugli animali velenosi, Filino è assai celebre al suo tempo. Di altrettanta se non maggior fama gode Serapione, fra i cui meriti va ascritto quello di un tentativo di integrazione della prassi empirica nella tradizione ippocratica.
I principi ispiratori fondamentali della scuola costituiscono il cosiddetto tripode alessandrino: l’autopsìa, l’historìa e l’analoghìa. La prima è l’osservazione diretta del malato, fonte insostituibile di dati utili alla comprensione della malattia; l’historìa è quanto si ricava dall’insieme delle proprie osservazioni passate e di quelle altrui e finalmente l’analoghìa è ciò che suggerisce il confronto del caso presente con casi simili.
Un atteggiamento così spiccatamente pragmatico - morbos non eloquentia, sed remediis sanare - favorisce indubbiamente l’acquisizione, nel medico, di capacità professionale, di efficacia operativa: ma allontana, al tempo stesso, dall’indagine, dalla ricerca (“importa conoscere ciò che combatte le malattie, non ciò che le produce”, asserisce un aforisma della scuola) (16). Viene così abbandonato ogni studio sperimentale di anatomia e fisiologia che aveva caratterizzato la vita e l’opera dei grandi maestri alessandrini.
Se si è escludono i già citati Filino e Serapione ed i farmacologi sperimentali ai quali accennerò in seguito, si hanno scarse notizie intorno ai medici appartenenti a questa corrente di pensiero: Apollonio di Kition, autore di un trattato sull’epilessia; Glaucia; Menodoto di Nicomedia; Filonte di Enna; Ezio Siculo.
L’attitudine pragmatica e l’interesse per l’attività immediatamente utile al malato che caratterizzano la scuola degli empirici non può che giovare allo sviluppo della chirurgia: sono notevoli infatti, durante questo periodo, i progressi nella chirurgia erniaria, nel trattamento delle fratture, delle lussazioni, delle ferite, della calcolosi vescicale (l’operazione della pietra), della cataratta.Tra i più famosi chirurghi vanno ricordati Magete di Sidone e la sua perizia nel trattamento delle fistole: Ninfodoro, inventore di un banco per la riduzione delle lussazioni; Ammonio che esegue “l’operazione della pietra” mediante una sorta di litotritore che frantuma i calcoli direttamente in vescica.
Sarebbe un errore ritenere che il pragmatismo degli empirici abbia messo a tacere l’ansia di investigare ed il bisogno di riflettere sui risultati della ricerca propri dello splendore alessandrino dell’epoca di Erofilo ed Erasistrato. Quest’ansia, questo bisogno, non più che sopiti, tornano a sentire e acquistano la loro espressione più alta in Eracleide di Taranto.
Attivo tra la fine del secondo e l’inizio del primo secolo a.C. come clinico di fama ma anche come ottimo chirurgo ed autore di numerosi trattati - di patologia militare (Stratiotes), di dietetica, di medicina generale - Eracleide è tuttavia soprattutto un farmacologo. Conduce molti esperimenti, solo o con Mantiade suo maestro. Ma è assai dubbio, asserisce Benedicenti (17), che utilizzi animali: pare invece che si serva abitualmente di sé stesso quale oggetto delle prove famacologiche e tossicologiche che condurranno al De preparatione aut probatione medicamentorum, un’opera assai apprezzata dallo stesso Galeno, ed ad un trattato sul veleno dei serpenti nel quale propone un’enneapharmakon, la ricetta di un antidoto. Certamente sperimenta su di sé, in piccole dosi, la cicuta ed il giusquiamo.
Tra i farmacologi sperimentali (o tossicologi: pharmakon vuol dire “veleno”, e solo per una più tarda estensione semantica il termine acquista il significato di cura, rimedio) si annoverano anche alcuni regnanti: Attalo II Filometore, re di Pergamo e coltivatore di piante velenose, che pare non disdegni di somministrare anche ai suoi ospiti e, soprattutto, Mitridate.
Mitridate VI Eupatore (132-63 a.C.), re del Ponto, scopre con il suo medico personale Crateua, il fenomeno ancor oggi noto come mitridatismo: l’assuefazione, cioè, all’azione di un veleno ottenuta con l’assunzione continua e prolungata di piccole dosi del veleno stesso. A questa singolare figura di monarca farmacologo si deve anche il “mitridato”, un antidoto universale composto da novanta droghe (18). La successiva aggiunta di carne di vipera, operata da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone, dà luogo alla theriaca o triaca, un rimedio che avrà enorme fortuna e verrà impiegato fino a tutto il secolo XVIII e in qualche caso anche oltre.
Il significato della scuola di Alessandria nella storia della medicina
La medicina ippocratica, dominante all’epoca della fondazione di Alessandria, si fonda soprattutto sull’osservazione del paziente. Dal punto di vista dottrinario l’idea è che non esistano malattie di questo o di quell’organo: l’uomo intero è malato ed i sintomi manifestati dal paziente altro non sono che indizi di quale sia la parte dell’organismo che la malattia colpisce in modo solamente più severo, non esclusivo.
Di qui la necessità di non accontentarsi dei segni di patologia più evidenti, ma di ricercare con accuratezza tutto ciò che in modo palese o nascosto possa condurre a formulare ipotesi diagnostiche che un ragionamento rigoroso aiuterà a confermare o respingere. L’osservazione clinica attentissima, guidata dall’esperienza e corroborata dalla riflessione, è dunque la base di una medicina che si muove con una certa sicurezza, sebbene sprovvista di un adeguato supporto anatomico e fisiologico.
ll pensiero Ippocratico si salda, in Alessandria, con quello di Aristotile che, d’altra parte, del fondatore di quella città era stato il maestro: da questa saldatura trae alimento la più celebre scuola medica dell’epoca ellenistica.
Pur non praticandola egli stesso, Aristotile nasce e cresce in un’atmosfera culturale fortemente impregnata di medicina (19): appartiene alla stirpe degli asclepiadi ed è figlio di Nicomaco, medico alla corte macedone. Tuttavia le ricerche del filosofo di Stagira in campo biologico (classificazione degli organismi viventi secondo un ordine di complessità crescente, studi sui pesci, sui cetacei sulle api), anatomico (studi sul cervello, il cuore, i vasi), fisiologico (la circolazione), sono dettate da una curiosità da naturalista - Darwin lo definirà “padre della biologia”- più che dal desiderio di fornire fondamenti conoscitivi all’arte della diagnosi e della cura delle malattie.
Oltre che di biologia, Aristotile è “padre del metodo”, quel metodo scientifico che troverà, molti secoli dopo, i suoi moderni codificatori in Galileo e Cartesio. Il metodo aristotelico si fonda sul logos, il ragionamento che, procedendo da “assiomi” o verità evidenti, discende fino all’evento osservato spiegandolo per deduzione oppure risale, per via induttiva, dall’evento ai principi generali. Ed è proprio il rigore scientifico e logico al quale i due grandi medici della scuola, Erofilo ed Erasistrato, sottopongono i risultati delle loro ricerche sperimentali - le prime forse che abbia conosciuto la medicina e la cui raffinatezza verrà nuovamente raggiunta solo nel secolo XVI - a dare un’impronta di modernità al pensiero alessandrino sulla realtà corporea dell’uomo.
Se la concezione degli empirici della malattia e del suo trattamento - “val più la pratica della grammatica”, potrebbe essere il loro motto - segna una battuta d’arresto nella ricerca sperimentale (non va dimenticato, tuttavia, che anche Eracleide di Taranto è un empirico), essa costituisce d’altra parte un impulso importante alla prassi, tanto nel campo della medicina che della chirurgia: una prassi che riceve dai ritrovati della nascente farmacologia un ulteriore strumento operativo.
Questi dunque, i lasciti della scuola di Alessandria alle epoche successive: un approccio ai problemi della conoscenza - nell’anatomia, nella fisiologia, nella patologia - nel quale sperimentazione e speculazione sono tra loro strettamente integrati e che fa la sua prima comparsa nella storia della medicina, ed al tempo stesso il crescere e consolidarsi di una metodologia operativa sicura, fondata sull’esperienza invece che sulla tradizione e sul dogma.
La perdita di un grande
La distruzione della Biblioteca di Alessandria, un evento assai grave per la cultura occidentale, non fu voluta - come vorrebbe una tradizione facente capo al vescovo giacobita Abu al Farag (sec. XIII) - dal Califfo Omar (581-644), il conquistatore dell'Egitto: essa aveva già subito un incendio che l'aveva devastata durante la campagna di Giulio Cesare del 48 a.C. I pochi volumi salvatisi furono dispersi, ben prima della conquista mussulmana, ad opera di fanatici cristiani monofisiti.
A. Pazzini : STORIA DELL'ARTE SANITARIA -
Minerva Medica (Torino), 1973
Una storia a lieto fine
Il giovane Antioco, figlio del re di Siria Seleuco Nicatore, era gravemente malato: deperiva ogni giorno senza che si potesse scoprire la natura della malattia.
Erasistrato, il celebre esponente della scuola medica alessandrina, fu chiamato al capezzale del malato. Mentre tastava il polso dell’augusto paziente, si affacciò d’improvviso alla porta la bella Stratonike, una giovane che l’anziano Seleuco aveva sposato in seconde nozze: un repentino accelerarsi delle pulsazioni dell’infermo non sfuggì all’attento Erasistrato che, intuita la natura del male, poté formulare una delle prime diagnosi di affezione psicosomatica nella storia della medicina.
Nell’animo del sovrano, al quale il sagace medico aveva comunicato le sue conclusioni, l’amor paterno prevalse sull’amor coniugale e, separatosi da Stratonike, acconsentì alle nozze di questa con il figlio - il futuro Antioco Sotere - il quale, è superfluo riferirlo, guarì prontamente.
La vivisezione
La vivisezione umana, in genere sui corpi di condannati a morte, è stata sicuramente praticata nell’antichità sebbene non sia sempre facile averne notizia storica certa, forse per l'imbarazzo che comporta l'ammetterne l'esistenza e lo scriverne: soprattutto quando ne sarebbero autori personaggi illustri della storia della medicina che, per i loro meriti scientifici, siamo soliti ammirare.
Quasi certamente vi ricorsero Erofilo ed Erasistrato, quantunque non con la frequenza di cui parla Tertulliano secondo il quale Erofilo - medicus et lanius, medico e macellaio - ne avrebbe eseguite ben settecento: una tale quantità è improbabile perché, come fa osservare Mattioli, non sarebbero sfuggiti alla loro sagacia tanti aspetti del meccanismo della circolazione.
L'accusa - confutata soprattutto dal Putti - fu rivolta anche a Berengario da Carpi che avrebbe sezionato ancora viventi due spagnoli: e non soltanto per brama di sapere, ma anche per antipatia verso quel popolo.
Il Valverde narra di aver assistito, a Pisa, alla vivisezione di una donna che, per avere ucciso il figlio, il duca Cosimo de' Medici, dissectioni condemnaverat.
È tradizione che anche il Falloppio l'abbia praticata ed Astruc, l'erudito medico ed anatomico francese, ne rabbrividisce: ...crudelitatem Falloppii, medici christiani ... qui carnificis partes aperte sustinere non exhorruit... (...crudeltà di Falloppio, medico cristiano ... che non inorridì a sostenere pubblicamente la parte del carnefice...). La circostanza è ancora negata da molti, prima di tutti dal De Renzi, storico della medicina attento e profondo. Di fatto, nella prima edizione (1562) del De tumoribus non vi sono tracce di questa pratica: ma in una ristampa di circa cinquant'anni dopo - forse quella letta da Astruc - si accenna al fatto che egli ottenesse dal granduca di Toscana i condannati a morte che sezionava ancora viventi.
Leonardo Fioravanti, medico ed alchimista seguace di Paracelso, confessa di essere ricorso a questa pratica quando partecipava alle guerre contro i mori al seguito di don Garcia de Toledo, del quale era il medico.
Se, come abbiamo visto, sia talora posto in dubbio o anche apertamente negato che questo o quel personaggio l'abbia praticata (a questo sospetto non è sfuggito lo stesso William Harvey), è certo che sono esistite leggi che consentivano la vivisezione umana: nel ducato di Pisa, secondo quanto è stato trovato nel Libro delle deliberazioni degli Archivi criminali di Toscana, più di un condannato è stato sottratto alla pena capitale ut de eo per doctores fiat notomia.
(L'argomento viene trattato piuttosto diffusamente in M. Mattioli : GRANDI INDAGATORI DELLE SCIENZE MEDICHE - Idelson (Napoli), 1985 dal quale sono estratte le notizie riferite ed al quale si rimanda per più accurate informazioni e per la bibliografia.)
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