Anno 10 - N. 28/ 2011
LEON BATTISTA ALBERTI
Tra innovazione e tradizione
Alberti prefigura la professione del designer, per la prevalenza nel processo artistico
della parte ideativa, mentale, sull’esecuzione pratica.
Genio poliedrico, appartiene alla prima generazione del Rinascimento, quella del cosiddetto ‘Umanesimo razionalista’
di Gabriella Colletti
Ritratto di Leon Battista Alberti
Pisanello
Leon Battista Alberti nasce nel 1404 a Genova, figlio illegittimo di un ricco banchiere fiorentino costretto all’esilio nella Repubblica marinara, muore a Roma nel 1472.
Trascorse l’adolescenza a Venezia, studiò diritto a Padova e Bologna, visse perlopiù alla corte pontificia in qualità di abbreviatore apostolico. Ritornò a Firenze nel 1428, dove continuò l’opera di Brunelleschi. Personaggio - chiave all’interno della produzione artistica italiana del Quattrocento ed intellettuale di spicco; fu teorico dell’arte, umanista, letterato, filosofo, compose versi, commedie, dialoghi, scrisse opere di carattere storico, politico, filologico. Di lui non ci sono pervenuti né dipinti né statue. Iniziò i grandi progetti architettonici intono ai quaranta anni d’età. Genio poliedrico, appartiene alla prima generazione del Rinascimento, quella del cosiddetto ‘Umanesimo razionalista’.
Correva l’anno 1401, non era ancora nato il grande artista, quando a Firenze veniva bandito il famoso concorso per la porta del Battistero della città. I tre concorrenti crearono opere improntate alla nuova forma, rivelatrice di un nuovo modo di percepire il mondo e la storia, le azioni dell’uomo, lo spazio. Uno spazio moderno, che nulla ha a che vedere con quello medievale.
Leon Battista Alberti sarà, insieme a Brunelleschi, il codificatore di questo spazio ritrovato; non più soprannaturale, ma a misura d’uomo, in cui l’uomo si riveste di un potere semidivino. L’uomo vi sta al centro come un astro luminoso, “misura di tutte le cose”, secondo la massima di Protagora.
È ormai aperta una breccia nella direzione della hybris, l’orgoglio arrogante che porterà alla devastazione e alla rovina di quello stesso Homo faber, il costruttore.
Insieme a Brunelleschi, Alberti può essere considerato l’inventore della prospettiva, strumento d’indagine e di controllo nella creazione di uno spazio credibile con al centro l’uomo.
All’inizio del Trecento, la prospettiva era stata solo ‘intuita’ da Giotto(1), che aveva riportato il linguaggio pittorico dalla lingua greca – bizantina – alla latina; non studiata scientificamente, nelle sue implicazioni con la matematica, la fisica e la fisica-ottica. Giotto, dapprima nelle Storie di San Francesco nella basilica Superiore ad Assisi e poi a Padova nella cappella degli Scrovegni, aveva cominciato a dare un senso volumetrico ai corpi immersi nello spazio. Prima del Maestro di Colle di Vespignano, nella prima metà del XIII secolo alla corte di Federico II si erano verificate ‘rinascite’ classiciste e, sul finire del Duecento, con i Pisano e Arnolfo di Cambio. Esse erano però più che altro limitate geograficamente e riguardavano pochissimi artisti. Ora, invece, a Firenze, con Masaccio in pittura, e Donatello in scultura, Brunelleschi in architettura e scultura, la rinascita dell’arte classica - e con questo intendo giuste proporzioni nei corpi e corretti rapporti stereometrici dei corpi immersi nello spazio – costituisce la nuova forma mentis che da Firenze verrà esportata al di fuori del territorio d’origine, in Toscana dapprima, al resto d’Italia poi, ove prevale ancora il “Gotico Internazionale”(2).
Grazie ad Alberti la nuova forma estetica, intesa come recupero a tutti i livelli dell’arte classica, verrà non solo codificata a livello scientifico e insegnata come sapere tecnico nei suoi trattati, ma acquisirà una valenza umanistica, diverrà, in senso più ampio, fonte di Bellezza e Verità. Egli pensa principalmente all’arte ellenica e alla sua degna erede, l’arte romana. Pensa, in particolare nei suoi scritti filosofici, alla Virtus romana, e al concetto di res publica, bene supremo che rientra nella sfera morale di ogni cittadino, essenza del senso civico, che i palazzi pubblici e privati di Firenze devono esprimere per mezzo del decoro e l’armonia delle proporzioni.
Il primo Umanesimo è figlio di Firenze, mentre il secondo Rinascimento avrà al suo vertice Roma, ma per una stagione breve, poco più di un ventennio. La morte di Raffaello (1520) e il sacco della città nel 1527 ad opera dei lanzichenecchi, che faranno scempio dei monumenti artistici, chiudono la parabola rinascimentale.
Oltre alla costruzione di uno spazio prospettico, l’umanesimo albertiano contribuirà anche al recupero della dignità dell’uomo, nella sua accezione di “Humanitas”. Notevole il lavoro filologico del grande umanista, che tradusse i classici greci e latini, uomo coltissimo, viaggiatore instancabile, frequentò le principali corti del Quattrocento e lavorò per l’alta borghesia fiorentina, al servizio del papato, degli Este a Ferrara, dei Malatesta a Rimini, dei Gonzaga a Mantova.
Prima dei grandi progetti per la costruzione della facciata di Santa Maria Novella a Firenze (1456 circa), scrisse trattati in cui vengono ordinati i principi della sua architettura. Nel De re aedificatoria – opera colossale, in dieci libri, iniziata a partire dal 1450 - lo studio delle fonti antiche stimolò l’interesse per gli scavi archeologici, e in generale il recupero del valore dell’arte classica. Riprese le teorie dell’architetto dell’antica Roma, Vitruvio, divulgandone alcune soluzioni. Fissò come canone principi imprescindibili, che troveranno applicazione per la costruzione della facciata di Santa Maria Novella, emblema e manifesto dell’Umanesimo fiorentino. La simmetria innanzitutto, il rapporto fra le giuste proporzioni, o proporzionalità fra il tutto e le singole parti, la concordanza, il decoro. Il Partenone – il tempio classico greco - viene preso come exemplum della concezione albertiana. In essa regnano sovrane Venustas, Firmitas, Utilitas. Abolita è ogni possibile commistione o confusione di stili, come ad esempio l’uso di colonne sorreggenti archi, invenzione non autoctona, ma successiva, romana, divenuta in seguito modulo brunelleschiano. Nel sistema albertiano la colonna è riportata alla purezza originaria, con una precisa funzione statica, non solo decorativa. Sono le colonne, elementi architettonici verticali, a sorreggere il peso dell’architrave, elemento architettonico orizzontale. A sua volta, l’architrave sostiene il terzo elemento della facciata classica: il frontone, che presenta una forma triangolare. È a questo archetipo che Alberti pensa quando progetta la facciata di Santa Maria Novella, che richiama per analogia gli antichi templi greci, anche se non compare qui il modulo delle colonne più l’architrave.
La facciata appare scompartita in tre registri di armoniche proporzioni, di cui l’ultimo, che rappresenta il vertice della facciata, richiama in modo evidente il frontone del tempio classico. Il risultato finale è Bellezza, da intendersi come apparente semplicità, purezza di forme nitide, senza superflue ornamentazioni che ne tradirebbero l’essenza che presiede alla costruzione. Nel secondo registro compare, elemento di estrema eleganza e originalità, il motivo delle volute ioniche, che conferisce dinamicità all’insieme. Altro elemento squisitamente albertiano, indice di sobrietà, è il portale a pieno centro dell’ingresso, nonché espressione di lucida coerenza formale. Tuttavia, al suo interno la chiesa è gotica. E persistenze gotiche si possono rintracciare anche all’esterno: nelle arcate cieche del primo piano, ai lati dei portali laterali a sesto acuto e cuspidati, di modeste dimensioni rispetto a quello principale. Si armonizzano perfettamente con il frontone triangolare, ultimo elemento della facciata.
Stilemi non classici si ritrovano al primo piano, negli elementi decorativi policromi – marmi verdi e bianchi - la cui forma geometrica riecheggia il Romanico toscano, in particolare la Basilica di San Miniato. Vi è un recupero degli elementi della tradizione romanica come supporto per il nuovo stile. La cornice, elegantissima, richiama i fregi continui dell’ordine ionico, e l’elemento che separa il primo registro dal secondo con una decorazione geometrica – iterazione del quadrato come forma geometrica perfetta insieme al cerchio – non può non ricordare a livello visivo l’architrave dei templi greci. Il rosone, invece, elemento decorativo che cattura la luce propagandola all’interno dell’edificio, è citazione romanica, ed insieme simbolo. Esso connota il cerchio, forma in sé perfetta, in cui non vi è né principio né fine, movimento continuo ed eterno, sublimato nella pianta centrale, così amata dagli architetti rinascimentali. L’elemento circolare è ripreso ai lati del rosone, nel motivo decorativo all’interno dello spazio ‘ritagliato’ dalle volute, e a coronamento dell’edificio, all’interno del frontone. Il rosone, citazione dell’arte romanica, si pone come elemento formale di continuità con un passato che ha la sua fonte nella classicità romana e nel Tardo Antico.
La facciata di Santa Maria Novella presenta lo schema del quadrato, figura perfetta perché inscrivibile nel cerchio. Essa è elogio della matematica. L’amore per la classicità gli fece applicare lo schema della suddivisione degli ordini architettonici nelle facciate degli edifici da lui progettati, che divenne regola da seguire per le successive generazioni di architetti. Nella strutturazione della facciata di Palazzo Rucellai a Firenze, risalente alla metà del Quattrocento, Alberti adotta al primo piano l’ordine dorico, più imponente e geometrico, e utilizza il bugnato, che crea forti contrasti tra luce ed ombra e prevarrà come soluzione decorativa dei palazzi del secondo Quattrocento e nel secolo successivo. L’ordine ionico, più movimentato del dorico, verrà scelto per il secondo piano, mentre per il terzo piano sceglierà il più decorativo fra gli ordini, quello corinzio. I tre ordini sono espressi nei capitelli delle paraste della parete.
Nel De re aedificatoria, si sofferma a descrivere come dovrebbero essere gli edifici privati dell’aristocrazia mercantile fiorentina, il nuovo ceto emergente, immortalato da Boccaccio nel Decameron. Oltre alle dimore dei ricchi si occupa di quelle della media e della piccola borghesia. Si sofferma sul decoro e sul concetto di semplicità, da intendersi come apollineo senso della misura, che in sé è bellezza. Poiché disprezzava il gotico, definito barbarico e rozzo come le genti che lo generarono, per gli edifici sacri e laici, pubblici e privati, egli mai tollerò la proliferazione di statue, di gusto goticheggiante appunto, né mai ammise contaminazioni eclettiche, come l’unione di architettura e scultura, aborrita dai classici.
L’arco, secondo Alberti, consiste più che altro in una porzione di muro ritagliata. Con estremo rigore non poté accettare come simboli di bellezza pura gli archi trionfali di età romana. L’arco non può essere associato alla colonna, elemento architettonico in sé concluso, ma a dei pilastri, forma cubica che sempre appartiene a una porzione di muro.
Tra gli edifici sacri, che Alberti per amore della classicità preferì chiamare templi, è da ricordare il Tempio Malatestiano a Rimini, edificato per Sigismondo Pandolfo Malatesta, signore della città. Dell’edificio, che non venne del tutto ultimato da Alberti, si conserva una medaglia che attesta come sarebbe dovuta essere l’opera ultimata da Matteo de’ Pasti.
Alberti progettava, poi affidava l’esecuzione ad altri architetti, i quali seguivano le direttive del maestro. Nella medaglia la copertura prevista era la cupola. Oltre al Tempio Malatestiano, ci rimangono di Alberti, a Mantova, la Chiesa di Sant’Andrea e quella di San Sebastiano.
Fra i trattati, occorre ricordare il De pictura, scritto nel 1436, suddiviso in tre libri, e il De statua, composto poco prima del 1464. Nel primo tratta del pittore, il quale deve essere fine conoscitore di storia, poesia e matematica. Al vertice dei soggetti pittorici, Alberti pone la pittura di storie. L’arte della pittura consiste in un processo di selezione. L’artista parte dall’osservazione della natura, per poi togliere da essa solo le parti belle.
Codificò il sistema della prospettiva scientifica, consistente nell’unificazione di tutte le ortogonali verso un unico punto di fuga. La prospettiva serviva a misurare i diversi rapporti stereometrici tra gli oggetti inseriti nello spazio, ai fini della bellezza e dell’armonia. Esportata al di fuori di Firenze, la prospettiva come forma simbolica influì su intere e molteplici generazioni di artisti, tra cui Piero della Francesca.
In sintonia con il pensiero albertiano è quello del matematico Luca Pacioli, autore del De divina proportione, trattato sull’origine matematica della bellezza, e sul carattere divino delle proporzioni matematiche, da considerarsi emanazioni della mente di Dio. Esse presiedono all’anatomia del corpo umano, esempio supremo di organismo perfetto del creato. Secondo Pacioli, come già in Alberti, è nelle proporzioni matematiche che va ricercata la chiave che lega micro e macrocosmo. Influenzato da questa filosofia, Piero della Francesca scrisse il De prospectiva pingendi, e il De quinque corporibus regolaribus, in cui applicò rigorosamente le regole prospettiche codificate da Leon Battista Alberti nel De Pictura.
La concezione estetica albertiana è stata definita “organicistica” – l’edificio è trattato come un grande organismo - e logocentrica, vale a dire con il Logos – da intendersi in quanto razionalità – al centro. Fine delle arti figurative è la bellezza, intesa come totalità organizzata di parti, ognuna con una propria funzione, e ciascuna in mutuo accordo con le altre e con il tutto. In un edificio, per esempio, i vari elementi architettonici e decorativi costituiscono le parti che per funzionare devono essere in concordanza fra loro. Le varie parti si comportano come le membra e gli organi di un organismo vivente che vive e pulsa in virtù della totalità organizzata. Dalla sua contemplazione scaturisce gioia.
La bellezza, secondo Alberti, non deriva dal senso soggettivo del gusto, né dalla vista, bensì dall’intelletto. Il bello è il risultato dell’applicazione di regole matematiche, una questione di calcoli e numeri. La creazione estetica non è propriamente un fatto pratico, quanto piuttosto mentale, un’operazione cerebrale, che ha come obiettivo l’idea del bello. Nel De pictura, porta l’esempio del pittore dell’antichità classica Zeusi che, per creare una Venere, si serviva di diversi modelli, estrapolando da ciascuno la parte migliore. La bellezza viene così creata ‘a tavolino’. In questa concezione è vicino alla teoria dei neoplatonici, che miravano alla creazione della bellezza tipica, ideale. Nella creazione del bello è superiore l’arte alla natura, in cui vi sono sempre degli accidenti che devono essere corretti. La natura è difettiva di qualcosa, l’arte tende alla perfezione. Qualsiasi artista deve certo partire da una concezione mimetica e imitare la natura, ma solo nelle sue parti belle, emendando il brutto. Tra gli artisti fiorentini che seguirono questa strada primo fra tutti fu Botticelli, pittore assai amato dal Magnifico e dalla cerchia dei neoplatonici(3).
A proposito della figura umana e del ritratto, Alberti prediligeva il distacco emotivo, espressione di serena compostezza di matrice classica. Una bellezza che, a differenza di quella ellenistica, può apparire fredda, poiché improntata al controllo razionale delle passioni.
L’Umanesimo fiorentino deve molto ad Alberti, all’invenzione del suo canone estetico, con il Logos come inizio e fine. L‘aspetto razionale guida ogni fase del procedimento artistico. L’elemento disegnativo, la linea di contorno che cattura e imprigiona la figura, deve prevalere sul colore(4).
Anche in questo caso esempio paradigmatico è offerto dall’opera di Sandro Botticelli, che privilegia il disegno quale fatto mentale.
Il colore, per Alberti, rappresenta ancora un elemento irrazionale, istintivo, che deve essere domato dall’intelletto. Il controllo dell’irrazionalità riguarda anche ciò che prescrive a proposito della fantasia, considerata “via pericolosa che erra dal vero”. Per fare buona pittura occorre partire dall’osservazione del vero naturale, quindi selezionare le parti migliori presenti in esso.
Con Alberti cambia anche il ruolo sociale dell’artista, non più considerato un artigiano come nel medioevo, esecutore di manufatti secondo un metodo di lavoro pratico, manuale, fabbrile. Alberti incarna il modello dell’artista intellettuale, autore di trattati in cui divulga le sue teorie estetiche. Non più semplici ricettari, come lo era nel XIV secolo quello del pittore Cennino Cennini, raccolgono un vero e proprio corpus di regole. Si evolve la condizione sociale dell’artista e il ruolo delle arti figurative. Pittura, architettura e scultura, poiché si fondano sulla prospettiva matematica e la matematica è un’arte liberale, possono assurgere anch’esse al rango di arti liberali, non più meccaniche. Il rovescio della medaglia della concezione albertiana riguarda la spaccatura che nasce a partire da questo momento e diverrà sempre più profonda nel corso dei secoli tra le cosiddette Belle arti – architettura, pittura, scultura – e le cosiddette arti minori o applicate, problema ampiamente trattato da Ferdinando Bologna nel suo saggio Dalle arti minori all’industrial design. L’artigianato artistico rappresenta per Alberti un qualcosa di meccanico, per chi lo pratica non vi è libertà, per via della soggezione alla natura. Si tratta di una concezione fortemente platonica, che vede nell’architettura - poiché arte dei modelli geometrici, e i modelli si trovano nel mondo delle idee - la suprema arte, proprio in quanto meno imitativa della natura, meno soggetta ad essa. La natura, in fondo, altro non è che copia del mondo ideale. In essa dimora ancora qualche imperfezione che deve essere vinta dalla ragione. Alberti prefigura la professione del designer, per la prevalenza nel processo artistico della parte ideativa, mentale, sull’esecuzione pratica.
NOTE
1) “Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,/ sì che la fama di colui è scura.” D. Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, canto XI, vv.94-96. Giotto fu il maggior pittore dell’età di Dante; i grandi maestri del Rinascimento da Masaccio a Piero della Francesca guardarono a Giotto poiché seppe ridare spessore e concretezza ai corpi.
2) Una delle declinazioni del Tardo Gotico, proprio del XV secolo, in auge nelle corti d’Europa, da cui deriva l’accezione “Cortese”. Si caratterizza per limpidezza e vivacità di tinte, per la linea fluente, arabescata, distribuita nelle anse dei panneggi, per la minuzia dei particolari, come ben esemplificano gli arazzi e le miniature del periodo; dettagli che si arricchiscono di notazioni curiose e bizzarre, per il gusto dell’esotico e per la propensione al fiabesco. Spesso è affiancato dall’aggettivo “Fiorito”, per la presenza di fiori nei prati, nei fondali, nelle vesti dei personaggi, anche nei soggetti drammatici, come nel Martirio di Santa Lucia, di Jacobello del Fiore, 1410-20, tempera su tavola, cm. 70x52, Fermo, Pinacoteca civica.
3) Più che a Platone, il platonismo misticizzante fiorentino si rifaceva ai seguaci alessandrini di Platone, a Plotino, soprattutto. È controverso il rapporto tra Alberti e il neoplatonismo. “Nulla vi poteva essere di meno mistico della mentalità di Alberti. Egli credeva soprattutto nell’importanza della vita attiva e riteneva che il cittadino deve contribuire tangibilmente e sostanzialmente al bene della città” (cit. A. Blunt, Le teorie artistiche in Italia. Dal Rinascimento al manierismo, Piccola biblioteca Einaudi, Torino 1966, p. 35).
4) La prevalenza della linea di contorno costituisce ciò che gli storici dell’arte e i critici, a proposito della pittura del Quattrocento, hanno chiamato “maniera secca”, che scomparirà verso la fine del secolo con l’apparire dello “sfumato leonardesco” e la pittura tonale veneta, nuove linee-guida da seguire.
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