Anno 10 - N. 28/ 2011
Tirar tardi al caffè
Ovvero, il valore dell’otium
Il secolo del caffè, in Europa, è il Settecento.
Fin dall’inizio la bevanda porta con sé un’aura di raffinatezza [...]
Nei caffè la gente si scambia le proprie opinioni, ma anche se le forma…
di Paolo Brera
Nobili al cafe’(particolare, da “abiti de’ veneziani”)
Giovanni Grevembroch (Venezia 1731- 1807
Venezia, Museo Correr
Chi dice Italia dice caffè. Quanto poche sono le cose a noi presenti con la stessa pregnanza del caffè! Davanti a una tazzina di caffè in Italia gli amici si riincontrano e i conoscenti diventano amici. L’amore dà il batticuore, ma mai quanto il caffè(1).
Il caffè eccita e sprona, però anche calma e rilassa.
E cos’è un coffee break, potrei dire parafrasando Cyrano de Bergerac e concedendomi una piccola licenza poetica d’indole ortografica, se non un apostrofo marrone e profumato tra le parole “l’avoro”?
Imprecisa è la lingua italiana. Una medesima parola designa una bevanda, una porzione di quella bevanda, il locale nel quale la si beve, la polvere che viene usata per prepararla, i chicchi che devono essere macinati per ottenere la polvere, e buona ultima anche la pianta sulla quale nascono(2). Il mio tema è “tirar tardi al caffè” ed è venuto fuori mentre con certi amici stavo tirando tardi al bar. Si parlava del caffè come locale, anzi, come paradigma di tutti i locali dove la gente s’incontra. Ma bisogna per forza parlare anche degli altri sensi della parola “caffè”.
Il caffè inteso come pianta ha le sue origini, sembra, in Etiopia. Non è una singola specie vegetale ma un genere (Coffea), all’interno del quale una ventina di specie sono coltivate per uso alimentare. La varietà più pregiata, Arabica, copre circa il 70 per cento del consumo; il resto è quasi tutto Robusta, con un po’ di Liberica. Lasciato a sé stesso, l’albero di caffè raggiunge, a seconda della specie, dai tre ai nove metri di altezza. Per crescere ha bisogno di un clima caldo e umido – con una temperatura media compresa fra 15 e 30°C e nessuna escursione sotto i 5°C – e di un’altitudine (almeno la specie Arabica) di duecento metri come minimo.
Il caffè viene consumato da migliaia di anni. Secondo la leggenda, un pastore cominciò a raccoglierne le bacche dopo aver notato che le sue capre, tutte le volte che ne mangiavano, poi saltellavano intorno vispe come lippe. All’inizio i semi venivano utilizzati crudi, per preparare infusi verdi. Poi un altro pastore (se non era poi sempre lo stesso che faceva gli straordinari) sentì un effluvio stimolante alzarsi da alcuni alberi bruciati da un incendio: era nata la tostatura. Da allora in poi il decotto di caffè tostato fu la bevanda nazionale degli arabi, che ne portarono la preparazione a un livello di perfezione destinato a rimanere insuperato fino all’avvento della caffettiera napoletana e poi del caffè espresso(3).
Non si fermò lì. L’aroma del caffè tostato, nel nostro millennio ormai agli sgoccioli, è diventato una componente sempre più assidua della vita urbana. Quell’aroma, sia detto per inciso, glielo dà prima di tutto il caffeolo, uno dei due composti che più caratterizzano il caffè (l’altro ovviamente è la caffeina).
Ah, la tostatura! Sottoposti all’azione del calore, i chicchi crudi cambiano colore, calano di peso, aumentano di volume e acquistano la loro strabiliante ricchezza aromatica. A 60-70°C cominciano a disidratarsi, a 100° acquistano un colore dorato, per poi scurirsi all’ulteriore aumentare della temperatura. La migliore torrefazione, dicono gli esperti, si raggiunge fra i 200 e i 240°C, quando si completa la decomposizione di alcune sostanze e se ne formano altre, importanti perché il caffè assuma il suo gusto caratteristico e si liberino gli oli essenziali – più di ottocento – che determinano l’aroma. Il caffè viene quindi raffreddato – rapidamente, ma senza ventilarlo, in modo che gli aromi si fissino nel chicco.
La torrefazione deve essere effettuata poco prima del consumo, perché il caffè tostato non resiste all’ingiuria del tempo. Per questo il commercio internazionale riguarda, da sempre, i chicchi verdi. All’inizio questi venivano esportati dai Paesi arabi, i quali però impedivano per legge l’esportazione di semi o di piantine per non perdere il monopolio. Nel 1690, tuttavia, alcuni intraprendenti olandesi riuscirono a involarsi con qualche virgulto, che fu messo a dimora nelle loro magnifiche serre di tulipani. Presto cominciò la coltivazione nell’isola di Giava. Gli arabi avevano perso il monopolio del primo liquido nero che li aveva intrigati e deliziati.
L’arrivo del caffè nelle Americhe è addirittura romanzesco. L’ufficiale francese Gabriel Mathieu de Clieu, nel 1723, ruba una piantina del Jardin des Plantes di Parigi, poi corre a imbarcarsi per la Martinica. Il viaggio verso il porto è turbato da un tentativo di rapimento degno dei Tre moschettieri; poi i pirati saraceni attaccano la nave; seguono tifoni e mancanza d’acqua. Ma la piantina arriva infine alla Martinica, e tutti noi beviamo il succo delle sue discendenti.
* * *
Il secolo del caffè, in Europa, è il Settecento. Fin dall’inizio la bevanda porta con sé un’aura di raffinatezza, tant’è vero che la si beve sopra tutto in locali specializzati(4) (anche se il Giovin signore di Parini potrà essere indeciso, al suo risveglio, fra una tazza di corroborante cioccolata e una di eccitante caffè). La prima città occidentale in cui nasce uno di questi locali è Venezia. È solo leggenda infatti che nel 1683, al momento della loro ritirata precipitosa da Vienna, le armate turche avessero lasciato nelle mani di Casimiro il Grande le loro cucine, con le provviste di caffè e tutti gli attrezzi necessari. In quel momento, già da trent’anni esisteva a Venezia una bottega di caffè (dal 1647). Il caffè come bevanda e ormai anche come ritrovo si impone progressivamente in tutti i grandi porti: a Londra nel 1652, a Marsiglia nel 1654, ad Amburgo nel 1677.
Poi inizia la sua anabasi. Nel 1741, Carl Günter Ludovici nel suo manuale Allgemeines Schatzkammer segnala la presenza di una Coffee House in tutte le grandi città. Intorno agli anni della Rivoluzione Parigi conta ottocento caffè, Vienna ottanta, Monaco e Amburgo una quindicina ciascuna.
I primi caffè, a quanto risulta dall’inventario del “Caffè Cramer” di Vienna, non si distinguevano troppo dagli altri locali per il loro arredamento: qualche tavolo in quercia, ampie panche imbottite, comode poltrone in cuoio, quadri, specchi, orologi, porcellane, e due tavoli da bigliardo al piano superiore. A Vienna, nel Settecento, i locali più quotati sono il “Caffè Milani” e “Al Dazio”. A Parigi, il “Frascati”.
Perché il caffè ha un tale successo come luogo di ritrovo? Una xilografia di Leonardo Pittoni, inserita nel volume Virtù del caffè, bevanda la più salutifera e la men conosciuta, introdotta nuovamente nell’Italia, pubblicato a Venezia nel 1716 e ivi conservato nel Museo Correr, mostra tre uomini eleganti che sorseggiano la bevanda in bicchieri da un litro: una scena di grande modernità, visto che sono in piedi davanti a un banco e sembrano intenti a socializzare. Sopra le loro teste campeggiano tre scritte: “Caffè, sorbetti, cioccolata”.“Caffè, sorbetti, cioccolata”. Sono alimenti raffinati, e i tre avventori sono sicuramente benestanti. L’essenza del caffè come ritrovo d’elezione per la borghesia del periodo illuminista è catturata molto bene da questa immagine, che purtroppo non possiamo qui riprodurre.
Chiunque può entrare nel caffè, purché abbia i soldi per pagare la consumazione: non è come nei salotti dell’aristocrazia, per entrare si deve essere invitati dal padrone di casa, e neppure come nei circoli che proprio in quel periodo stanno nascendo, la cui membership è ristretta su base censitaria: vi si entra per cooptazione, e i quarti di nobiltà contano più dei quattrini.
Nei caffè non si beve soltanto, si tira anche tardi fra piacevoli conversari. Così un anonimo descrive, intorno al 1780, l’atmosfera dei caffè viennesi: «Nei caffè si parla alternativamente, anzi spesso contemporaneamente, di questioni pubbliche e di faccende private, di argomenti di finanza e letteratura, di affari e di diritto, delle scienze e delle arti; insomma, l’oggetto delle conversazioni spazia continuamente fra temi politici, letterari, economici, giuridici e morali, a seconda dell’occasione».
La bottega del Caffè, di Carlo Goldoni, rappresentata a Mantova in lingua toscana nel 1750 dopo esser stata scritta e conosciuta in veneziano, è un compendio di opinioni e di punti di vista comuni. Vi si apprende che il caffè si serve di mattina, che su ordinazione te lo portano a domicilio, che è la bevanda favorita del giocatore d’azzardo.
Nei caffè la gente si scambia le proprie opinioni, ma anche se le forma, con la lettura dei quotidiani e dei periodici che i gestori mettono a disposizione insieme ai mazzi di carte, ai giochi da tavolo e ai bigliardi. Nell’Ottocento, i caffè saranno le cellule di aggregazione dei nascenti partiti politici. Nel Novecento, sopra tutto a Vienna e nelle capitali nord e mitteleuropee, dove il clima incoraggia tutti i ceti a uscire dalle case poco riscaldate e a raccogliersi in locali dal camino confortevolmente acceso, i caffè saranno i luoghi dove si riuniscono i sindacati e i partiti politici di massa.
Scrive del resto lo storico Jules Michelet che «Questo caffè forte, il caffè di Santo Domingo, pieno, piccante, nutriente ed eccitante al tempo stesso, ha nutrito l’età adulta del secolo, il Settecento, l’età forte dell’Encyclopédie.
Lo bevvero Buffon, Diderot, Rousseau, aggiunse il suo calore alle anime calorose, la sua luce alla vista penetrante dei profeti riuniti nell’ “antro di Procope”, che videro, nel fondo della nera bevanda, il futuro bagliore dell’Ottantanove». In Italia, i fratelli Verri hanno chiamato appunto Il Caffè la loro rivista, che nasce nel giugno 1764 e vive per due intensi e significativi anni. Perché proprio Caffè? Per spiegarcelo la redazione – leggi: Pietro Verri – ci racconta la storia di un greco che, scappando dall’oppressione del suo Paese da parte dei turchi(5), arrivò nella città portuale di Mocha (Moka) e lì convertì tutti i suoi beni in caffè; «indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi, che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma. In essa bottega primieramente si beve un Caffè, che merita il nome veramente di Caffè; Caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’Aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo più plumbeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole. In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tepida, e profumata che consola; la notte è illuminata, cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega, chi vuol leggere, trova sempre i fogli di Novelle Politiche, e quei di Colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano…»
Insomma, la “bottega del caffè” è sinonimo di modernità, di pensiero audace, di lumi che tutto devono rischiarare. Gli illuministi usano il caffè per schiarirsi le idee e ragionare con più vivacità: ma alcuni vanno anche oltre: se ne servono come di una droga. L’origine mediorientale non è davvero la sola cosa che la Coffea Arabica ha in comune con la Cannabis Indica! Entrambe le piante alterano la coscienza. Un trip di caffè – una ventina di tazze in una giornata, per esempio – ispira i filosofi, gli artisti, i musicisti. La scena finale del Don Giovanni di Mozart e Da Ponte dà qualche segno di essere stata concepita in un paradiso artificiale a base della nera bevanda. E forse ne ha bevuto anche la statua del Commendatore, per adirarsi tanto…(6).
Nel primo numero del Caffè i Verri promettono ai lettori «Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi Autori…» – insomma, chiacchiere da caffè… se non aggiungessero subito: «cose tutte dirette alla pubblica utilità». Si tratta, per i Verri, di dare la sveglia alla Lombardia, di farsi «promotore e stimolatore dello spirito critico e dell’attività o dell’‘industria’ (come allora si diceva) dei concittadini, combattendo prima di tutto l’inerzia o l’indifferenza e tutti quei vincoli di leggi arretrate e più ancora di consuetudini radicate e di pregiudizi che rendevano la vita torpida e stagnante»(7).
La polemica era volta innanzitutto contro l’ignoranza, «colossale statua di sughero», che grazie all’inganno dei pochi e alla credulità della turba vuol contrapporre alla Ragione la cieca autorità. Poi contro i divieti e i vincoli in materia economica, che contraddicono al principio basilare dell’attività umana il quale è di «correre naturalmente all’utile» e quindi alla consapevolezza che «la libertà e la concorrenza sono l’anima del commercio». Infine, contro il vizio di deprecare il lusso, e quindi di chiedere proibizioni assurde contro le manifatture estere, quando in una società dove le ricchezze sono distribuite in maniera ineguale, la spesa per prodotti suntuari o forestieri «sarà un bene politico, in quanto che dissipando i pingui patrimoni torna a dividerli, a ripartirli, e ad accostarsi alla meno sproporzionata divisione dei beni»(8).
Insomma, quante cose dietro alla scelta di un nome. Sto divagando? Lo ammetto! Me ne giustificherò più avanti, e allora si vedrà che non tutte le divagazioni sono oziose.
* * *
La fortuna del caffè in America nasce anch’essa nel Settecento, e almeno in parte dalla disgrazia del suo cugino primo, il tè. Uno dei primi atti della Rivoluzione americana infatti è il Boston Tea Party, con il quale un gruppo di protestatari travestiti da indiani irrompe su una nave alla fonda nel porto di Boston e rovescia in mare le balle di tè che ne costituiscono il carico. La sola colpa del tè è in verità quella d’esser troppo tassato da Sua Maestà Britannica. Ma da quel giorno il consumo di tè comincia ad essere considerato poco patriottico. E quando nel 1838 il governo americano sostituisce nella razione giornaliera dell’esercito il rum con il caffè, quest’ultimo assurge quasi al ruolo di bevanda nazionale. Al punto che la Coca Cola, che un secolo più tardi l’avrebbe sostituito, contiene a sua volta caffeina (e almeno in origine anche un altro alcaloide, quello che si trova nelle foglie di coca).
Ma l’America dell’Ottocento non è terra di raffinatezze. Ecco la ricetta dei cowboys texani per il caffè: «Prendere i chicchi tostati e sminuzzarli fra le dita fino a ridurli in finissima polvere. Inumidirla leggermente e metterla sul fuoco in un pentolino. Dopo un po’ gettarci dentro un ferro di cavallo: se affonda, aggiungere caffè». Questa rinfrescante vanteria è l’antesignana del “caffè nero e forte” di Tex Willer e Kit Carson. C’è un grano di verità in essa: gli Stati Uniti, dopo i Paesi del Nord Europa, sono i più grandi consumatori pro capite di caffè. In America Latina e nel Sud dell’Europa i consumi sono molto più limitati. Eppure è proprio sulle rive del Mediterraneo che il caffè è oggetto di un culto socializzante. La tazzulella di Napoli, i dieci secondi che si investono a Milano per gettare giù una chicchera insieme al nuovo incontro e fare conoscenza, sono elementi importanti della nostra cultura.
* * *
Con le sue luci, con l’animazione, il caffè dà movimento e allegria all’intera via o piazza in cui si trova: lo nota, fra gli altri, Zola nel suo romanzo L’argent: «Là, sul largo spiazzo del selciato, la vita ferveva, esplodeva: un fiume di avventori invadeva i caffè, la pasticceria era sempre piena, la gente si affollava davanti alle vetrine…» Invece, dove non ci sono tali gai ritrovi, le cose son ben diverse: come in «rue Vivienne, da quel lato della piazza che l’assenza di caffè rende austera…». Anche nel nostro secolo il caffè-bar risponde a mille bisogni che guai a snobbare: rilassa ritempra diverte; infiamma e istruisce. È, insomma, il tempio dell’otium.
Otium è parola latina che nel Medioevo si sono messi a pronunciare ozzium, dando quindi origine al nostro “ozio”. Quello di cui nella Messa lombarda dei Gufi si dice più o meno:
L’ozzi l’è el pader di vizzi
la fadiga la mader di cai
vunn e l’altra, ohei che guai
– roba pro nobis!(9)
Ma l’otium latino è qualcosa di diverso: non è l’inattività, ma l’assenza di attività remunerate: è, insomma, il contrario del negotium.
Ora, sull’otium ha scritto un bellissimo saggio Seneca(10). E qui, lo preannuncio, ci sarà non una divagazione qualunque, ma una Signora Divagazione. E badate bene, non ho intenzione di scusarmene. Ho eccellenti motivi per divagare. Saranno chiari, spero, proprio dal contenuto della divagazione.
Si domanda, Seneca, nel suo De otio, se sia lecito al sapiente ritirarsi dalla vita pubblica e darsi alla vita contemplativa, pur se i maestri Zenone, Cleante e Crisippo (i grandi della scuola stoica) prescrivano invece l’azione. E risponde: è lecito. Prima di tutto, perché lo Stato può essere tale da dilapidare o peggio volgere a un fine non buono l’opera del saggio: «Ora io mi domando a quale tipo di Stato accederà il sapiente: forse a quello degli ateniesi, che mandò a morte Socrate, che costrinse Aristotele a scappare per non essere condannato, che vede l’invidia strangolare ogni virtù?». In secondo luogo, perché oltre allo Stato limitato, Atene o Cartagine, esiste lo Stato generale, che Seneca in apparenza identifica con l’Impero Romano ma che concettualmente è l’intera umanità.
Huic maiori rei publicae et in otio deservire possumus, immo vero nescio an in otio melius, dice Seneca: «Questo più grande Stato si può servire anche con una vita contemplativa, e forse perfino meglio». Con questo il sapiente di Seneca assomiglia al saggio della tradizione confuciana, che si è ritirato dal mondo ma continua a influenzarlo con la sua personalità e le sue idee. «Il pensiero infrange le barriere del cielo, né si accontenta di conoscere ciò che si mostra allo sguardo», dice il maestro cinese. Però questo è possibile solo nell’otium, non nel suo opposto dinamico, il negotium.
Prima di passare, divagando divagando, alla sorte subita nel Medioevo dal vocabolo otium, appuntiamo con lo spillo un concetto-farfalla: chi non si impegna nell’azione, chi non è schiacciato dai doveri quotidiani, può produrre idee importanti e anche trasformare se stesso in uno strumento migliore per l’azione futura. Non per nulla Newton elaborò la sua idea della gravitazione universale in un momento di relax. Già, perché se invece la mela ti cade in testa mentre stai lavorando, è facile tu reagisca con una sonora imprecazione e morta lì. Invece, con l’otium, la prima cosa che ti viene in mente – «Insomma, ma perché c… doveva proprio cadermi sulla testa ‘sta maledetta mela?» ha il tempo di andare oltre il suo moderato effetto ansiolitico e svilupparsi: «Perché c… doveva cadere proprio in questo momento? Perché doveva cadere…!?» e all’ultima domanda non c’è proprio altra risposta che quella di Newton – la legge della gravitazione universale.
In base all’etimo, l’ho già ricordato, la nostra parola “ozio” continua il latino otium, ma il secondo termine designa piuttosto la vita contemplativa, non oppressa dalle esigenze spicciole, e manca quindi della valenza spregiativa appiccicata al primo. Insomma, se ai tempi nostri l’ozio è padre di tutti i vizi (come cantano i Gufi), l’otium appariva invece agli antenati latini come il nobile genitore di moltissime virtù.
In mezzo c’è il Medioevo, che non amava perdere tempo con le astrazioni: ora et labora, e via andare. Faticassero i contadini a prendersi cura della madre terra, sperando non venisse una carestia a frustrarne la materna, messifera gratitudine; faticassero i signori andando a caccia e preparandosi così a sostenere una guerra difensiva, in un’epoca in cui la valentia del corpo e la conoscenza del terreno erano i soli scudi contro le invasioni; e faticasse il clero in penitenze e orazioni per tirare a casa (alla celeste casa) più anime possibile. Non c’era troppo spazio per chi rifletteva e produceva idee: quello che dava anzi àdito a sospetti di eresia.
La diffidenza verso chi non svolge un lavoro produttivo è forte anche ai tempi nostri. Nelle strade ci sono oggi centinaia di migliaia di disoccupati in più di ieri, e i soliti asini ragliano che il lavoro c’è, sono i disoccupati a non volerlo perché troppo umile e mal pagato. Rispondiamo all’asino con le parole, se mal non m’appongo, di Milton Friedman: se qualcuno detiene qualifiche superiori a quelle del lavoro che gli offrono, fa bene ad attendere un lavoro adeguato, perché in quello sarà più produttivo. Rifiutando di produrre cento oggi, si rende disponibile per produrre mille domani. Specie se avrà atteso in otio e non in ozio.
Questo vale, naturalmente, se i meccanismi sociali sono congegnati in modo acconcio. Meglio non smarrire la consapevolezza che il mercato non può tutto, e ha bisogno di correttivi.
Nei prossimi anni le imprese si concentreranno sull’obiettivo dell’efficienza. Ma anche questo obiettivo è unilaterale, e comporta diversi rischi se perseguito senza grani di sale. Qui ci soccorre Seneca: chi ozia, chi non è efficiente, forse sta preparando il futuro, forse serve un fine non altrettanto immediato di quello della produzione e pure egualmente essenziale.
In che consiste infatti l’efficienza di un’impresa? Nel conseguire il massimo risultato con un dato impiego di risorse, oppure, in alternativa, nel conseguire un certo risultato usando meno risorse possibile. Queste sono, come ha mostrato l’economista polacco Oskar Lange, due definizioni mutuamente esclusive ma entrambe accettabili dell’ottimizzazione economica. In entrambi i casi bisogna che sia perfettamente chiaro che cosa, di tutti gli eventi che scaturiscono dall’impiego delle risorse, debba essere considerato parte del risultato.
Ciò è del tutto comprensibile se applicato alla nostra vita privata. Il “risultato utile” del nostro lavoro non è lo stesso per ciascuno di noi e non si identifica mai con un singolo obiettivo: non si lavora solo per la remunerazione, né solo per la soddisfazione professionale, né per alcun altro fine singolo che escluda i rimanenti.
Come ha osservato Bertrand Russell, ai nostri tempi si parla assai di mezzi e troppo poco di fini. Il che ci espone a qualche grattacapo. L’homo oeconomicus è un minus habens, l’impresa della teoria neoclassica è un ens multiplicatus sine necessitate. Infatti le imprese sono strutture sociali, non le comode astrazioni miranti al massimo profitto che dice la teoria. E se anche fossero ciò che dicono i neoclassici, non opererebbero nella confortevole situazione di concorrenza perfetta che ancora si annida, come un archetipo junghiano, nel profondo di tanti cervelli di economisti. Senza un’informazione completa sull’ambiente, senza una perfetta trasparenza, la definizione degli obiettivi è imperfetta, e in particolare rischia di essere clamorosamente rimessa in discussione allorché l’ambiente muta.
La ricerca dell’efficienza prescinde da tutto questo. Definito l’obiettivo, si minimizzano le risorse necessarie a conseguirlo; oppure, definito ciò che deve essere massimizzato, si fa in modo di arrivarci. Non c’è posto, in questa linea d’azione, né per l’ozio né per l’otium. Non c’è posto né per domandarsi se ciò che si sta facendo è proprio ciò che si deve fare, né per la ricerca applicata che spalanca nuove vie. Non c’è spazio per lanciare un nuovo prodotto o sperimentare un nuovo processo, perché ciò richiede risorse umane e materiali libere e la loro presenza è contraria ad entrambe le definizioni di efficienza.
Può ben succedere alle imprese quello che avviene a certe specie viventi, che si specializzano sempre più nello sfruttamento di una particolare nicchia ecologica e ineluttabilmente periscono insieme ad essa se per caso scompare. Meglio dunque avere sempre da parte un po’ di risorse inutilizzate per poter affrontare le (inevitabili) evenienze. E in primo luogo occorre, attraverso un po’ di otium, tenere in parte libera quella risorsa scarsa per antonomasia che è il tempo degli uomini. Sed de hoc postea, alla prossima occasione, quando, lo prometto!, ci saranno altre divagazioni.
Perché ora ci avviciniamo alla conclusione. Se è vero quanto sono venuto dicendo sul divino otium, allora si capisce anche l’importanza di avere un posto dove tirar tardi con gli amici, dove le idee nascano e circolino, un posto dove conversare, dove apprendere in modo disorganico, dove mettere in moto le circonvoluzioni dell’emisfero destro e tenerle oliate con qualche bevanda stimolante o calmante. Teniamocelo caro, il nostro caffè! Al caffè il futuro non nasce – perché farlo nascere è dura fatica, è pensiero verticale, è lavoro organizzato – ma se non altro viene concepito – e concepire, signore e signori, è un’attività bella e soddisfacente! Delineare il futuro, rappresentarselo nei suoi tratti decisivi, proiettare un luminoso dover essere sul plumbeo grigiore dell’Essere(11) – tutto questo è gioia, è relax, è pensiero laterale e creativo. Ecco qual è l’autentico valore delle chiacchiere da caffè. Sì, tiriamo tardi, tiriamo tardi stasera e altre sere! E chi non vuol tirar tardi con noi, che gli venga l’alastrim!
NOTE
1) Caffeismo – “Intossicazione, acuta e cronica, che si manifesta con irrequietezza psichica e motoria, dilatazione delle pupille, affanno, cardiopalmo, tremore, vertigini, ronzii, delirio, ecc.”. Così la Treccani. Per di più, il caffè contiene istamina, e quindi aggrava i fenomeni allergici.
2) Per non parlare del “caffè d’orzo” e simili!
3) La relativa macchina fu inventata dall’artigiano milanese Giuseppe Bezzera nel 1902.
4) Nel Settecento erano diffusi in Italia i caffeàus, piccoli padiglioni costruiti in grandi giardini privati o nei parchi pubblici, come luoghi di sosta e di ristoro. Ma nonostante il nome, che è il tedesco Kaffeehaus, in quei padiglioni non si preparava il caffè.
5) Basta fare quattro chiacchiere con un greco sapiente di storia patria per scoprire che i greci non ricordano con particolare delizia neppure l’occupazione veneziana, catalana o francese.
6) Vi pare che io stia esagerando? Ma la parola stessa “caffè” deriva dall’arabo qahwa, che in origine designava qualsiasi bevanda eccitante, e prima di tutto il vino.
7) M. Fubini, “Pietro Verri e il ‘Caffè’”, in: La cultura illuministica in Italia, a cura di M. Fubini, 2ª edizione Torino, 1964, pag. 109.
8) Le citazioni sono tratte dalle opere di Pietro Verri Il tempio dell’ignoranza; Elementi del commercio; Considerazioni sul lusso.
9) L’ozio è il padre dei vizi / la fatica è la madre dei calli: / l’uno e l’altra, accidenti che guai! / Roba pro nobis…
10) Seneca, L’ozio e La serenità, Tascabili economici Newton, Roma 1994.
11) Il quale Essere è, perché se non fosse non sarebbe, come più o meno ha detto Parmenide. E questo Essere che è il Tutto, ma lo è in modo così desolantemente limitato, è poi il tutto degli ingegneri, che gli adepti di altri corsi di laurea sfottono con il famoso detto secondo cui gli ingegneri sono quelli che sanno tutto, e nient’altro.
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