Anno 9 - N. 27/ 2010
Caffè delle Muse
di Francesco Piscitello
Tommaso Grossi e Carlo Porta
Giacomo Mantegazza
Tradurre è un’impresa difficile. Si è detto, non senza una concessione a una vaga misoginia, che la traduzione è come le donne: ce n’è di brutte e fedeli, di brutte e infedeli o anche di belle e infedeli, ma quelle belle e fedeli sono molto rare. Se l’osservazione vale per la narrativa, a maggior ragione vale per la poesia, così indissolubilmente legata alla lingua nella quale è stata scritta e, prima ancora, pensata o meglio sentita.
Trasportare un’idea da una lingua nella quale è espressa, ad esempio, in sole cinque parole a ad un’altra dove non è esprimibile se non in dieci - cosa che non disturba gran che la narrativa - manda in frantumi il ritmo del testo poetico: e la poesia si nutre di ritmo.
Essa nasce, addirittura,come canto (Cantami o Diva...) che l’antico aedo accompagnava con la cetra e, in tempi più recenti, Paul Valéry dice che la poésie es une hésitation entre le sens et le son.
Ma non è tutto. C’è il colore della lingua, ci sono i suoi suoni, la sua melodia, le sue pause, tutto quell’insieme di caratteri impalpabili che creano l’atmosfera nella quale è immersa la parola poetica che ne risulta intrisa e il cui trasporto in un ambiente dove dominano altri suoni, altre melodie, altre pause
- ossia altra atmosfera - è semplicemente impossibile.
Una bella traduzione, probabilmente, è una nuova poesia composta col pensiero di un altro. Forse varrebbe la pena di coniare un neologismo, per il traduttore di versi: co-poeta.
Nella recente raccolta Dal Livenza al Navili (edizioni Spoon River - Torino, 2010) Pier Luigi Amietta, se mi è consentito di ricorrere a quel neologismo, è co-poeta di Romano Pascutto: di lingua veneta il secondo e milanese il primo.
Pascutto (S. Stino di Livenza, 1909 -Treviso, 1982), uomo di grande passione civile e politica - antifascista della prima ora, emigrato o meglio autoesiliato in Libia, simpatizzante, e forse qualcosa di più, dell’irredentismo senussita, partigiano e, più tardi, sindaco del suo paese natale - è stato scrittore, giornalista, drammaturgo, ma soprattutto poeta. Amietta, docente universitario i cui titoli non legati alla lingua di Milano sarebbe troppo lungo esporre, è un importante filologo del milanese, saggista, poeta (Milan, che bella tosa... Edizioni Nuove Scritture, Milano - 2009), fondatore del premio Lions Club Milano Duomo per la poesia italiana e vernacola di tutte le regioni italiane, curatore di numerosi volumi di poesia e prosa in lingua italiana e milanese, componente del consiglio direttivo della “Famiglia Meneghina” e molto altro.
Il lettore avrà notato che non ho scritto del veneto e del milanese in termini di dialetto ma di lingua, come lo stesso Amietta suggerisce: va respinta infatti l’idea comune di una maggior povertà, di una inferiorità del primo rispetto alla seconda. In realtà non so bene in cosa consista la differenza e d’altra parte non pare esservi accettazione universale, da parte di linguisti e filologi, dei criteri di volta in volta proposti. Forse vale l’opinione di Max Weinreich: “Una lingua non è che un dialetto con un esercito e una flotta”.
Ormai senza esercito il milanese e il veneto hanno qualcosa in comune. Non parlo degli aspetti grammaticali, sintattici o lessicali: parlo del loro carattere, della loro espressività mai eccessiva, mai fuor dalle righe, ma anzi sempre composta, sottotono.
La stessa Ninetta del Verzee del Porta, la Divina Commedia del milanese, che pure è la narrazione di un grande dramma d’amore, di un terebrante dolore umano, è scritta in termini talora ironici, con intercalari umoristici, battute ridanciane e grevi come lo sono spesso quelle popolari che nel caso della povera Ninetta, una prostituta, sono addirittura professionali: il fatto è che il pudico carattere milanese - a dispetto della sbruffoneria del bauscia meneghino -rifugge dall’enfasi, e così come nasconde alla vista le bellezze della sua città (i bellissimi cortili milanesi sono, appunto, cortili e dunque invisibili agli occhi dei più) occulta sentimenti ed emozioni quando rischiano di sopraffarlo.
Dalle oltre 150 pagine della raccolta Dal Livenza al Navili traggo una sola poesia da porgere al lettore nel testo originale di Pascutti e nella traduzione di Amietta la quale, almeno così a me pare, si avvicina molto alla quarta delle categorie della scherzosa metafora con la quale ho iniziato. Già il titolo - che in italiano suona Con poche parole - segnala questo rifuggire dalla teatralità, questo carattere sommesso, schivo, che non è soltanto del tono ma anche del testo, dove è addirittura dichiarato esplicitamente: le cose meno son gridate e più sono vere.
Co poche paroe far poesia granda
come ’l sass co s-cioca su l’acqua
e po’ conta le onde che ’l manda.
No far ciasso e gnanca pianzere
come le robe de ’sto mondo
che manco le ziga pi’ le è vere.
Con pocch paroll, fà poesia granda
come fa el sass, che ’l se fonda in de
[l’acqua
ma poeu cunten i ond che se spanteghen.
Fa nò frecass e nò de piangistéri,
proppi come hinn i robb de ’sto mond chì,
che men vosatten e pussee hinn vera.
IMMAGINI A COMMENTO
Pier Luigi Amietta
Omano Pascutto
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