Anno 9 - N. 27/ 2010
IL CONCILIO
di Ferrara-Firenze e gli stati italiani
Ai numerosi motivi di contrasto si aggiunse lo scontro sulla questione dei Greci…
[...] Nessuno degli stati italiani, se si esclude quello della Chiesa, si mostrò sensibile alla drammatica situazione di Bisanzio, nessuno di essi, neppure dopo la conclusione dell’unione, avanzò proposte [...]
di Alberto Gatteschi
Giovanni VIII Paleologo
(affresco, particolare)
Benozzo Gozzoli
(Firenze, 1421 – Pistoia, 1497)
Firenze, "Cappella dei Magi", Palazzo Medici Riccardi
Il ricorso al concilio era dalla fine del Trecento la via indicata da più parti come soluzione alla rottura dell’unità della Chiesa latina causata dallo Scisma d’Occidente. Infatti, già nei primi anni della contrapposizione fra le obbedienze romana e avignonese, era stata avanzata la proposta di un concilio, indipendente dal papa, per sanare la frattura apertasi nella cristianità.
La tesi della superiorità del concilio generale sul pontefice era una posizione ben presente nella canonistica anche prima dello scisma; ma a partire dalla seconda metà del Trecento tale teoria assunse un’importanza pratica grandissima.
Il principio non prevalse al concilio di Pisa, dove fu eletto un papa che si aggiunse agli altri due, ma a quello di Costanza; quivi, la composizione dello Scisma e l’elevazione al soglio di Martino V furono conseguite grazie all’affermazione del presupposto della superiorità del concilio.
Assai ambigua, incerta e complessa si presentava la situazione nei primi anni dopo la fine dello scisma. Infatti il papato, riacquisita la sua dignità, intraprendeva prontamente un’efficace politica di ricupero del proprio potere attraverso le relazioni diplomatiche con le diverse potenze. Martino V convocò un nuovo sinodo nel 1423 a Pavia e di qui lo trasferì a Siena a causa di un’epidemia. Fu un altro fallimento dei programmi di riforma e il concilio fu sciolto un anno dopo. L’unica deliberazione importante fu l’impegno di un’apertura di trattative, anche se procrastinata a tempi più favorevoli, con la Chiesa greca per la ricostituzione dell’unità cristiana; per il resto, tutto fu rinviato al prossimo sinodo, indetto per il 1431.
Eugenio IV ereditò la convocazione del concilio di Basilea, dove avrebbe avuto luogo lo scontro decisivo fra conciliarismo e assolutismo papale. Già nelle prime fasi del sinodo, al principio degli anni trenta, i padri basileesi, in gran parte esponenti del partito conciliare e più che mai decisi a riformare la Chiesa partendo dal “capo”, cominciarono a urtarsi con il papa.
Ai numerosi motivi di contrasto si aggiunse lo scontro sulla questione dei Greci: in tale quadro devono dunque essere esaminate la vicenda dell’unione, del concilio di Ferrara-Firenze e le ragioni per le quali il concilio fu trasferito a Firenze. Sotto la spinta riformatrice e riunificatrice del movimento conciliare, i progetti di unione erano stati formulati fin dal tempo di Martino V. Anche nella parte bizantina, soprattutto nell’imperatore Giovanni VIII, era viva la speranza di ottenere da un papa amico un appoggio consistente per la resistenza contro l’avanzata turca.
Così critica era la situazione dell’antico Impero Romano d’Oriente che il coraggioso sovrano, benché consapevole della tenace resistenza che clero, monaci e popolazione di Costantinopoli avrebbero opposto a tale progetto, decise di giocare l’ultima e unica carta di cui ancora disponeva: la riunione della Chiesa greca con quella latina, all’irrinunciabile condizione, tuttavia, che essa, dopo ampie e libere discussioni sui temi dottrinali e dogmatici oggetto della loro controversia, fosse deliberata da un concilio veramente ecumenico, con l’indispensabile partecipazione dei rappresentanti di tutte le Chiese e dei quattro patriarcati orientali. Nel corso dell’intero quattordicesimo secolo, numerosi erano stati i tentativi di intavolare trattative per porre fine alla scandalosa divisione, che dal 1054, e ancor più dopo l’esito nefasto della quarta crociata, vedeva acrimoniosamente contrapposti Latini e Bizantini sul piano ecclesiale e dogmatico; tali tentativi si erano però sempre inesorabilmente infranti sul costante rifiuto del papato, convinto assertore della pura e semplice “reductio” dei Greci, di addivenire all’auspicata riunificazione attraverso la celebrazione di un sinodo generale.
Allorché i negoziati furono riavviati nei primi anni del pontificato di Eugenio IV, divenne subito oggetto di contrasto fra papa e concilio di Basilea la scelta della sede in cui il sinodo di unione si sarebbe dovuto svolgere: i padri, naturalmente fautori della linea conciliare, pretendevano che i Bizantini si recassero nella sede naturale per la composizione dello scisma, ovverossia il concilio allora in corso, ritenuto generale ed ecumenico, di Basilea. Eugenio IV si oppose a questa soluzione, che riteneva troppo favorevole all’autorità e al prestigio di un’assemblea così poco controllabile, e propose invece una nuova convocazione in altra sede. Fra 1435 e 1437 i rappresentanti diplomatici del concilio e del papa furono impegnati in un’accanita competizione per convincere i Greci ad accettare le rispettive posizioni e proposte. La decisa preferenza dei Bizantini per una riunificazione non conseguita fuori o contro la volontà del romano pontefice, e le garanzie pratiche ed economiche più affidabili, assicurate da Eugenio IV e dalla Curia, determinarono il prevalere finale della causa papale.
Vari anni furono necessari perché potessero avere inizio i lavori dei delegati greci e latini, convenuti a Ferrara all’inizio del 1438, per partecipare alle assise conciliari. Gravissimi erano i motivi che avevano indotto Giovanni VIII a lasciare Costantinopoli per recarsi in Italia. L’impero bizantino si trovava in condizioni disperate, avendo perso per opera dei Turchi tutti i suoi antichi territori in Asia e nei Balcani e dovuto cedere le isole ionie e la maggior parte delle isole egee alle città italiane. Questa situazione, e la sincera convinzione che lo scisma che separava Oriente e Occidente fosse un vulnus da sanare a ogni costo, rafforzò la decisione di Giovanni VIII di perseguire il progetto di unione. Solo in un caso si poteva sperare di ricevere aiuto: quando il papa inducesse il mondo cristiano a valutare la gravità della situazione. Fu questo il motivo che indusse il Basileus a preferire Eugenio IV e l’Italia alle proposte concorrenti del concilio di Basilea.
Se Giovanni VIII aveva lasciato alle sue spalle una situazione drammatica, egli doveva peraltro entrare in contatto con una realtà assai complessa, di cui è qui possibile proporre solo alcuni rilevanti aspetti:
- nessuno stato europeo, nel 1438, era nelle condizioni di prestare ascolto alle istanze di concordia e di solidarietà nei confronti del lontano, poco conosciuto impero bizantino;
- in Italia, nel momento in cui ebbero inizio i lavori del concilio di Ferrara-Firenze, stava avviandosi a lenta conclusione un processo di aggregazione e di consolidamento delle numerose formazioni statuali, iniziato al principio del quindicesimo secolo, dal quale la configurazione politica italiana uscì sensibilmente mutata. Con questa complessa realtà ebbero a confrontarsi i Bizantini giunti in Italia per il concilio;
- i negoziati, che permisero di concludere un accordo per la riunificazione delle Chiese greca e latina mediante un concilio ecumenico si protrassero per l’intero pontificato di Martino V e per i primi sette anni di quello di Eugenio IV. Essi furono interrotti in diverse occasioni per dissensi politici tra Roma e Costantinopoli o per operazioni militari dei Turchi, furono ostacolati sia dalla forte diffidenza e diffusa ostilità del clero e del popolo bizantini nei confronti dei Latini sia della accesa rivalità tra il papa e i padri di Basilea;
- la solenne apertura del sinodo ebbe luogo a Ferrara il 9 aprile 1438, ma i lavori ufficiali iniziarono solo l’8 ottobre. Fu convenuto di discutere il tema del Filioque; quattordici furono le sessioni tenute nella città estense dedicate al dibattito sulla legittimità dell’aggiunta al Credo, ma i padri conciliari non raggiunsero alcun accordo. Il 10 gennaio 1439 il sinodo si riunì in sessione plenaria per ascoltare la lettura della bolla di trasferimento a Firenze, dove le discussioni dogmatiche iniziarono il secondo giorno del successivo mese di marzo. Particolarmente vivaci, spesso drammatiche furono le dispute sulla processione dello Spirito Santo e sul Primato del papa, più volte sembrò che la rottura fosse inevitabile. Sulla base delle fonti disponibili sembra si possa affermare che, a una sostanziale unitarietà di convincimenti e di intenti in campo latino, i Bizantini non siano mai riusciti a contrapporre una concorde, condivisa posizione; ciò è comprensibile, giacché al loro interno convivevano due sofferte visioni, difficilmente conciliabili, sul significato e gli obiettivi del convegno di Ferrara-Firenze. La prima, quella politica, era rappresentata dai metropoliti – e naturalmente dai rappresentanti laici al seguito dell’imperatore – disposti ad accettare un ragionevole compromesso in campo teologico, tale da salvaguardare comunque i fondamentali principî della Chiesa e della fede ortodossa, e decisamente schierati a fianco di Giovanni VIII, incrollabilmente determinato a perseguire l’obiettivo di salvare con l’indispensabile aiuto dell’Occidente quanto rimaneva del millenario impero bizantino. La seconda, quella “religiosa”, era rappresentata dai vescovi tenacemente attaccati alla fede ortodossa, codificata dai primi sette concili ecumenici, persuasi della condizione non solo scismatica ma anche eretica dei Latini, non sufficientemente sensibili, forse, alle ricadute politiche negative di un mancato accordo. Numerosi furono gli incontri che impegnarono le delegazioni delle due Chiese, frequenti furono i momenti di forte tensione e di scontro, ripetutamente fu sottoposto a revisioni, a correzioni e riscritto il testo del decreto che avrebbe dovuto sancire l’unione; questa fu infine solennemente proclamata il 6 luglio1439 nella cattedrale di Firenze.
Conviene ora cercare di capire quale attenzione le più importanti entità statuali della penisola italica – alcune delle quali avevano per secoli sfruttato la debolezza dell’Impero bizantino per sviluppare a sue spese le proprie attività commerciali e mercantili e per incrementare la propria prosperità economica e finanziaria - dedicarono all’evento sinodale e quale fu la reazione dell’opinione pubblica nelle regioni e nelle città italiane in cui soggiornarono e operarono i prelati delle Chiese greca e latina e i dignitari laici.
Il concilio fu generalmente considerato come un avvenimento straordinario per la sua ecumenicità e per il rilievo dei personaggi ad esso partecipanti, ma nessuno degli stati italiani ne tenne conto se non per gli aspetti meramente politici. Lo stesso capo dello Stato della Chiesa colse nell’evento sinodale l’occasione propizia per regolare, una volta per tutte, i conti con il movimento conciliare e per riaffermare la supremazia del papato.
Il pontefice ebbe per lungo tempo due accaniti nemici: l’aspirante al trono di Napoli, Alfonso V di Aragona e il duca di Milano, Filippo Maria Visconti. Il sovrano aragonese aveva sperato che il papa veneziano potesse garantirgli l’investitura del Regno. Eugenio IV, pur accogliendo alcune delle richieste del re si era dichiarato favorevole agli Angiò; Alfonso manifestò il suo disappunto e creò al pontefice, tramite i suoi emissari, difficoltà di ogni genere al concilio di Basilea. Per alcuni anni Alfonso di Aragona e Filippo Maria Visconti, uniti da un patto di ferro, sarebbero stati i suoi più insidiosi avversari e i fieri sostenitori delle pretese del concilio basileese, e avrebbero frapposto ostacoli, particolarmente il secondo, alla celebrazione del concilio di Firenze.
Il solido accordo fra i due principi era nato nel 1435, nel corso della guerra di successione napoletana. Filippo Maria, sostenitore della causa angioina, governava Genova, la cui rivalità nei confronti dell’Aragona era antica e implacabile. Quando fu risaputo che Alfonso era a Ischia e assediava Gaeta, i Genovesi, preoccupati per i loro interessi commerciali nel regno meridionale, decisero una spedizione navale per impedire la caduta della città. La flotta della città ligure distrusse, nell’agosto 1435, quella aragonese, il re fu fatto prigioniero e tradotto a Milano. Filippo Maria Visconti, pur avendo firmato un patto di alleanza con gli ambasciatori angioini, intavolò negoziati con Alfonso, che insieme alla liberazione del prigioniero, approdarono a due trattati siglati l’8 ottobre 1435. Di questi documenti, il secondo, tenuto segreto, conteneva svariate clausole, che prevedevano il reciproco aiuto nelle attività politiche e nelle operazioni militari di prevalente interesse per ciascuno dei due.
Alla situazione politica generale della penisola venne ad aggiungersi un ulteriore elemento di confusione: il grave peggioramento dei rapporti fra il papa e il concilio adunato a Basilea. L’incidente che portò a un nuovo aperto dissidio e poi alla rottura definitiva sorse per la scelta della città dove si doveva trattare con i Greci la riunione delle due Chiese. Il duca di Milano, quando sembrò che, grazie all’accordo tra il pontefice e la minoranza basileese a lui favorevole, Firenze avesse la possibilità di diventare la sede del sinodo, non esitò a dichiarare nel giugno 1437 che, se il concilio fosse stato convocato in quella città, egli avrebbe non solo vietato ai suoi sudditi di recarvisi, ma, di concerto con i proprî alleati, avrebbe interrotto le strade, impedito le comunicazioni, obbligato i padri a disperdersi; un mese dopo, Filippo Maria rinnovò le sue minacce, asserendo che, in caso di trasferimento a Firenze, egli avrebbe revocato ogni salvacondotto e arrestato i padri in transito. Se Eugenio IV scelse infine Ferrara come nuova sede del sinodo, anteponendola alla pur preferita città toscana, tale risoluzione fu quasi certamente dovuta al fatto che l’opposizione del duca di Milano, condivisa da Alfonso di Aragona e dall’imperatore d’Occidente Sigismondo, aveva fortemente condizionato il papa. Filippo Maria comunque approfittò delle intemperanze crescenti di Basilea, che non poco aveva contribuito a fomentare con le sue manovre, per giustificare nuove azioni militari. Dopo la partenza del pontefice da Bologna per Ferrara, nel gennaio 1438, la Romagna fu invasa dall’armata milanese, condotta da Niccolò Piccinino; molte città e numerose piazzeforti aprirono le porte al generale del Visconti. Il duca di Milano, dunque, continuò a ostentare la sua simpatia per Basilea e la propria avversione per Eugenio IV e l’adunanza di Ferrara. Una delle ragioni, non la principale, dell’ulteriore spostamento delle assise conciliari sulle sponde dell’Arno, voluto da Eugenio IV, fu il pericolo rappresentato dalle frequenti incursioni armate di Niccolò Piccinino, che avevano portato quel condottiero in varie occasioni molto vicino a Ferrara e che tanto timore avevano indotto anche nei Greci.
È evidente che il duca di Milano poneva attenzione alle tematiche e alle vicende conciliari solo in vista dei suoi fini espansionistici in Italia; a lui nulla importava delle teorie della supremazia del papa o della preminenza del concilio, della riforma della Chiesa occidentale in capite et in membris; tanto meno egli era interessato al problema particolare dell’unione delle due parti separate della Cristianità, cattolica e ortodossa, che si tentava di risolvere con il sinodo ferrarese.
Se Filippo Maria Visconti, spalleggiato dall’alleato aragonese, costituì una costante minaccia per il papa e i padri conciliari, riuniti a Ferrara, la temporanea pacificazione tra le tre repubbliche di Genova, Venezia e Firenze agevolò i progetti di Eugenio IV. L’inopinata liberazione di Alfonso V d’Aragona aveva infatti suscitato l’ira dei Genovesi, che abbatterono la signoria viscontea nel dicembre 1435 e ristabilirono il dogato. La città riuscì a operare una scelta politica autonoma, in linea con i proprî interessi mercantili e con la tradizione, che le imponevano di spezzare l’asse geopolitico Milano-Napoli e di orientarsi verso Firenze e la stessa Venezia. Negli anni 1438-1440, pertanto, Genova sembrava avere trovato un accettabile equilibrio politico interno, ma nulla è dato di trovare nelle fonti, che informi in modo soddisfacente dell’attenzione prestata da Genova e dai suoi cittadini alle vicende conciliari. Fondamentale importanza ebbe l’intervento della città ligure e delle autorità genovesi di Caffa in Crimea per organizzare in tale città un sinodo di prelati armeni, che deliberarono di accettare l’invito di Eugenio IV a recarsi in Italia per partecipare al concilio di unione. I delegati arrivarono a Genova il 3 agosto 1439, raggiunsero Firenze dieci giorni dopo ed ebbero molti colloqui con il papa fino al 22 novembre, giorno in cui il Decretum pro Armenis fu promulgato. Genova prese poi le necessarie disposizioni per il loro viaggio di ritorno ed essi furono trasportati con una galea dalla città ligure fino all’isola di Chio.
Alla fine del quarto decennio del quindicesimo secolo, Venezia era impegnata nella lotta contro il duca di Milano, deciso a riconquistare Bergamo e Brescia e ad affermare il proprio dominio sull’intera Italia settentrionale. Nel 1437 e nel 1438, Niccolò Piccinino attaccò Brescia e minacciò di invadere i territori veronese e padovano. Venezia dovette fare fronte a una situazione gravissima e ricorse all’intermediazione del papa, allora a Ferrara per il concilio, evento nei confronti del quale i Veneziani mantennero un atteggiamento ambiguo e reticente, come accadeva spesso. Conclusa finalmente la pace con l’imperatore d’Occidente Sigismondo, una delle principali fonti di inquietudine per la Repubblica veneta, nel giugno 1433, poco tempo dopo l’incoronazione a Roma del re ungherese, essa aveva continuato a nutrire forti riserve riguardo al piano di un concilio d’unione, perché un esito positivo del sinodo avrebbe comportato la proclamazione di un’altra crociata contro i Turchi, con cui non era più in guerra dopo la perdita di Tessalonica.
Nel maggio 1437, quando la sanior pars del sinodo basileese si riaccostò a Eugenio IV e accettò il trasferimento del concilio per l’unione in Italia, il pontefice chiese a Venezia una nave per portare i suoi inviati a Costantinopoli e i Veneziani accettarono la richiesta del loro eminente connazionale. Sulle galee veneziane, affittate dal papa e giunte a Costantinopoli nel settembre 1437, s’imbarcarono, verso la fine di novembre, l’imperatore, il patriarca e parte del loro seguito. Venezia ricevette l’imperatore, il patriarca e tutta la delegazione bizantina con grandi festeggiamenti: mai prima di allora da Bisanzio era venuto a Venezia e in Italia un gruppo così numeroso e qualificato. Giovanni VIII partì per Ferrara soltanto il 27 febbraio 1438 con la maggior parte della delegazione bizantina, viaggiando per via marittima e fluviale. La città estense era facilmente accessibile da Venezia, essendo al centro di una serie di canali, attraverso i quali le merci veneziane erano mandate verso l’ Italia centrale e i territori di Bologna e di Milano, tanto che doveva guardarsi dalle mire della Repubblica veneta. Per questo motivo, Ferrara era costretta a mantenere un esercito stabile, mercenario, di grossa entità e molto costoso; ma si manteneva fuori dalle contese e dalle lotte, che vedevano senza posa coinvolti i suoi potenti vicini, Firenze Milano e Venezia, città tra le quali aveva spesso esercitato opera di mediazione. Il principe estense Niccolò III con molte personalità ferraresi, assistette alla solenne cerimonia di apertura del concilio, il 9 aprile 1438. Non è dato di sapere con quale interesse i Ferraresi seguissero lo svolgimento del concilio: certamente cercarono di trarne il maggior beneficio economico possibile, e certamente condivisero la preoccupazione del pontefice, allorché giunse la notizia che Bologna, Imola e Forlì erano state occupate dalle truppe di Niccolò Piccinino.
Le sessioni sinodali ferraresi si susseguirono regolarmente, senza che si verificassero progressi di rilievo; intanto, però, stavano maturando fatti nuovi. Il papa, impossibilitato ormai a provvedere al sostentamento di tante persone, sempre più preoccupato dall’incombente minaccia delle milizie viscontee e allettato dalle generose proposte di Cosimo dei Medici, persuase i Bizantini a trasferirsi a Firenze, per proseguirvi i lavori conciliari.
Il 25 gennaio 1439 Eugenio IV faceva il suo solenne ingresso in Firenze, nuova sede del concilio; era ad attenderlo Cosimo dei Medici, per l’occasione Gonfaloniere di Giustizia. Per questa ragione aveva delegato al fratello Lorenzo il compito di trattare, quale ambasciatore fiorentino, il trasferimento del sinodo, a cui la città, e i Medici in prima persona, avevano largamente contribuito dal lato finanziario. I Medici approfittavano dell’arrivo di Eugenio IV nella città toscana per una consacrazione solenne del regime recentemente istituito. Alto era il significato, politico e simbolico, che Firenze e il suo attuale governo assegnarono all’evento. Nel decreto con il quale era annunciato il trasferimento del sinodo dalla città estense, emanato dal pontefice il 10 gennaio 1439, si leggeva:«ad civitatem Florentinam, omnibus manifeste liberam, securam, pacificam et quietam aerisque salubritate letantem, et ad quam inter Tirrenum Adriaticumque mare optime sitam ab Orientalibus et Occidentalibus commode accedi potest». Il nuovo governo, formatosi nell’autunno del 1434, aveva urgente bisogno di un successo clamoroso, di una dimostrazione pubblica, all’interno e all’estero, della propria capacità di gestire il potere recentemente raggiunto.
Per Cosimo dei Medici e per i suoi seguaci l’occasione di un tale successo fu la convocazione del concilio a Firenze, con la presenza non solo del papa e della sua corte, ma anche della numerosa delegazione greca. Da molti anni, buona parte della fortuna economica dei Medici era dovuta ai benefici di cui godevano presso la curia papale. Per quanto riguarda il concilio, era abbastanza evidente ai fratelli, Cosimo e Lorenzo, che da un trasferimento dei prelati da Ferrara a Firenze sarebbero derivati rilevanti vantaggi politici ed economici. L’attenzione dell’intero popolo si sarebbe concentrata sul ruolo fondamentale esercitato dai Medici per procurare alla città la presenza straordinaria non solo del concilio ecumenico, ma perfino dell’imperatore greco.
Per completare il quadro sommario dell’atteggiamento degli stati italiani nei confronti del concilio fiorentino, occorre prendere in considerazione il ducato di Savoia. Esso era governato, da più di un quarantennio, da Amedeo VIII. Tanti anni di attiva presenza sulla scena pubblica non lasciavano presagire la singolare avventura da lui vissuta nell’ultimo tratto della sua esistenza. Lo stupore fu grande quando egli decise di ritirarsi a vita solitaria nell’eremo di Ripaglia, lasciando al figlio Ludovico il governo dello stato e, ancor maggiore, quando accettò la tiara papale, offertagli dal concilio di Basilea, dopo che questo aveva deposto il pontefice di Roma, Eugenio IV.
Il duca di Savoia aveva inviato, al principio del 1432, un’ambasciata nella città elvetica, promettendo il suo concorso. Alcuni suoi interventi nei confronti dei padri basileesi, per suggerire moderazione, dimostrano tuttavia che Amedeo VIII era stato sempre in buoni rapporti con il pontefice; solo lentamente e prudentemente si era accostato al concilio, ma aveva comunque cercato in ogni modo di fungere da mediatore fra esso e la curia romana. Lo scontro tra Roma e Basilea divenne sempre più acceso; quando il 25 giugno 1439 Gabriele Condulmer fu dichiarato ribelle, simoniaco, scismatico, eretico e fu deposto, i padri basileesi pensarono a come sostituirlo. Fra le varie candidature presto emerse quella dell’eremita di Ripaglia. Non è dato trovare, né nelle fonti né nella letteratura, notizie che permettano di comprendere quale importanza Amedeo VIII annettesse alla questione della riconciliazione e della riunificazione delle Chiese greca e latina, e quale attenzione il duca prestasse alle vicende dell’impero bizantino. Eletto papa, il 5 novembre 1439, prese il nome di Felice V. La sua avventura e la sua difficile convivenza con i padri basileesi, caratterizzata da incomprensioni e da ripetuti contrasti, sarebbe durata quasi otto anni: infatti Felice V abdicò il 7 aprile 1449. Il quadro che emerge dall’analisi della situazione politica e delle condizioni economiche degli stati italiani nella prima metà del Quattrocento, dall’esame delle fonti memorialistiche e storiografiche, coeve e posteriori, conferma l’impressione che il concilio di Ferrara-Firenze abbia avuto una risonanza marginale presso l’opinione pubblica e un’attenzione appena maggiore, e di carattere esclusivamente politico e propagandistico, presso le classi dirigenti di tutti gli stati della Penisola. Eppure si trattò di un evento religioso, politico e culturale di straordinaria importanza, che richiamava alla memoria i sinodi ecumenici della tarda antichità. Nessuno degli stati italiani, se si esclude quello della Chiesa, si mostrò sensibile alla drammatica situazione di Bisanzio, nessuno di essi, neppure dopo la conclusione dell’unione, avanzò proposte ragionevoli per una coordinata azione di soccorso militare o di adeguato sostegno finanziario.
Una breve, anche se necessariamente incompleta disamina degli scritti di storici e di cronisti coevi pare quindi pienamente confermare, quanto Vitalien Laurent ebbe a scrivere nella prefazione della sua mirabile edizione delle Memorie di Silvestro Siropulo: «L’un des événements majeurs du XV siècle fut assurément la tenue du concile de Ferrare-Florence (1438-1439). La chute de Constantinople (1453) et la découverte de l’Amérique (1492) en ont certes atténué le souvenir dans la mémoire des hommes; elle n’en représente pas moins, au-delà de la question religieuse qu’elle eut pour premier objectif de régler, la dernière chance qui s’offrit à l’Europe de redresser son destin compromis par l’avance ottomane, ce cauchemar qui, jusqu’au traité de Karlowitz (1699), freinera son essor. L’échec apparent, sur le double plan de l’unité spirituelle et de l’entente politique, fit que les contemporains ne gardèrent bientôt plus de cette incroyable aventure, qui avait maintenu pendant plus d’un an et demi tout ce que la Chrétienté orientale comptait de grands hommes et de beaux esprits en contact permanent avec les pionniers de la Renaissance italienne, qu’un souvenir coloré grâce aux artistes, sculpteurs et peintres de la fin du Quattrocento. Ainsi il ne s’est pas trouvé un seul chroniqueur occidental pour brosser un tableau circonstancié de cette mémorable rencontre, jamais vue, de deux mondes à la recherche de leur unité. Pendant un siècle et demi l’oubli recouvrira progressivement ce grand moment de l’histoire des Églises et les archivistes eux-mêmes n’auront cure de veiller à la conservation des procès-verbaux qui avaient marqué le déroulement de la grande assemblée. Quand le pape Grégoire XIII (1572-1585) les fera rechercher, on ne trouvera, ni à Ferrare ni même à Florence, ces documents qu’une équipe de notaires, latins et grecs, avaient laborieusement établis».
IMMAGINI A COMMENTO
La Cavalcata dei Magi
(Melchiorre, (parete ovest, particolare)
Benozzo Gozzoli
(1397 - 1475)
Firenze,Palazzo Medici Riccardi
Eugenio IV: bolla di unione tra chiesa latina e chiesa greca, emanata al concilio di Firenze 1439, bilingue con firma dell’imperatore bizantino.
Ritratto postumo di Cosimo de' Medici il Vecchio
(1518-19)
Jacopo Carucci
detto il Pontormo
(1494 – 1557)
Firenze, Galleria degli Uffizi
Diluvio e recessione delle acque
Paolo di Dono detto Paolo Uccello (Pratovecchio, 1397 – Firenze, 1475)
Firenze, Santa Maria Novella
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