Anno 9 - N. 27/ 2010


FATICA senza FATICA “Vi sono molte Aurore che ancora non nacquero”

Nel tumulto fiumano La pianista del Natale di Sangue

Alla fine del concerto l’artista “allenta l’arco del collo”: ora si vede il nitore della bella dentatura attraverso la bocca socchiusa. E “l’applauso importuno distrugge l’incanto”.

di Giulio Cesare Maggi



Medaglia dei Legionari fiumani con i colori della Reggenza e la scritta Hic manebimus optime


Ne Le Faville del Maglio dannunziane un “compimento del vivere inimitabile” è dedicato dal Poeta ad un episodio occorso durante l’occupazione di Fiume (1919-1920) nell’imminenza del tragico Natale di Sangue che segnò la fine dell’avventura della quale ricorre quest’anno il novantesimo anniversario.
Come è noto, al tavolo della Pace di Versailles, istituito alla fine della Grande Guerra del 1914-18, la delegazione italiana, capitanata dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e dal Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, la richiesta di annessione al Regno d’Italia della città di Fiume e della costa dalmata incontrò la netta opposizione di Woodrof Wilson: il Presidente degli Stati Uniti prospettava la nascita di un Regno di Jugoslavia composto in gran parte da territori dell’ex-impero austro-ungarico. In quell’occasione, come in altre, Wilson si dimostrò un vero dittatore, forte anche della grave situazione debitoria che l’Italia, al pari di molti Paesi alleati ex-belligeranti, aveva nei riguardi del Tesoro americano.
La nostra delegazione abbandonò il tavolo delle trattative e Orlando dimissionò da capo del Governo. La sua appassionata difesa degli interessi nazionali non restò inascoltata nel Paese, che aveva avuto oltre mezzo milione di Caduti. In quel frangente anche coloro, e non erano pochi, i quali erano stati contrari all’ingresso dell’Italia nel conflitto mondiale, avevano accolto con sdegno le decisioni di Versailles.
Nel settembre 1919 la città di Fiume, provvisoriamente occupata da un presidio interalleato, aveva chiesto l’annessione al Regno d’Italia. Il Presidente Nitti, che era succeduto ad Orlando e che era uomo pavido e di poco polso, non aveva minimamente fatta propria l’accorata richiesta dei Fiumani e men che meno l’aveva portata a Versailles, in odio a quella autodeterminazione dei popoli che quella Assise aveva proclamato come un punto fondante del nuovo ordine europeo.
Alfiere di quello sdegno, diffuso anche nell’Esercito e in particolare nel Corpo degli Arditi, fu Gabriele D’Annunzio che proclamò la necessità di intervenire contro una palese ingiustizia.
Una colonna militare composta prevalentemente di ribelli Arditi e militari dell’Esercito, partendo da Ronchi (oggi Ronchi dei Legionari), marciò su Fiume occupando la città in modo pacifico, senza che le truppe interalleate opponessero resistenza alcuna agli Italiani.
D’Annunzio in quel periodo raggiungeva il massimo della propria celebrità anche come “uomo d’arme”. L’impresa di Buccari, che aveva portato all’affondamento della corazzata austriaca Viribus Unitis, il volo su Vienna, l’appello a vendicare ora a Fiume la “vittoria mutilata”, ne avevano fatto, e non solo in Italia, un uomo di straordinario richiamo, un esempio da imitare.
Egli era stato il Vate dell’Unità del Paese: nel 1907, in uno scritto titolato Imagine dell’Italia, apparita presso il sepolcro di un suo grande figlio (si trattava di Machiavelli) – poi in Per l’Italia degli Italiani, Milano, Fratelli Treves Editori, 1923) – egli dedicava il pensiero “a tutti i prodi che vegliano e s’armano” con la chiusa profetica “Vi sono molte Aurore che ancora non nacquero”. Era poi nata quella del 24 maggio 1915 che vide D’Annunzio volontario ed anche ferito ad un occhio, “l’orbo veggente”.
Nel 1917, l’annus horribilis del nostro intervento, egli scriveva su innumerevoli foglietti, raccolti da mano fedele, L’Imagine dell’Italia, apparita sulla riva del suo fiume santo, il Piave (in op.cit.): poche drammatiche righe che riassumono la tragedia della storia patria e che terminano con questo vaticinio: “Con la cenere di tutti gli idoli ha rialzato la deità del suo Genio”.
E sul muro diroccato di Casa Ninni, nei pressi del Piave, comparve la scritta fatidica: “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!” E poi fu il 4 novembre 1918.
Nessuno più di D’Annunzio era adatto a capitanare una impresa disperatissima: quella della Reggenza del Carnaro che fece delirare non solo i Fiumani e che attrasse nella Città l’intellighentia nazionale ed internazionale, creando un movimento d’opinione a dispetto di un Governo nazionale di scarsa sensibilità.
La Reggenza ebbe anche giorni gloriosi, ma soprattutto tentò di darsi, malgrado tutto, un assetto democratico per quel che consentiva la situazione.
Il giorno 6 giugno 1920, considerando la assoluta mancanza di dinamicità del contesto, D’Annunzio in un discorso ai Signori della Corte consigliava loro “Non perdiamo l’animo, se troppo il nostro sforzo si prolunghi. E non perdiamo la fede se pure il nostro non sia coronato”.
Malgrado l’adesione alla Reggenza, come primo passo verso l’annessione, avesse ricevuto numerose importanti testimonianze come quelle di Arturo Toscanini, Guglielmo Marconi, Benito Mussolini, il banchiere e finanziatore Raffaele Mattioli, lo stesso D’Annunzio era probabilmente presago che difficilmente la questione avrebbe potuto trovare una soluzione attraverso azioni militari, ma neppure per vie diplomatiche fino a che Nitti era a capo del Governo nazionale.
Nel volume Riflessioni, che Nitti scrisse nel periodo dell’esilio parigino al quale era stato costretto da Mussolini dopo la conquista del potere nel 1922, in un capitolo dal titolo “D’Annunzio, la guerra e Fiume”, sono riportate parole di feroce odio nei riguardi del Poeta. Non si può non restare stupiti dalle volgarità – persino nei riguardi della Regina Margherita – che Francesco Saverio Nitti scrisse e che indignarono anche i più accesi anti-dannunziani, attivi anche in periodo fascista (Tom Antongini, Un D’Annunzio ignoto. Milano, Mondadori, 1963).
Nel novembre 1920 il nuovo capo del Governo Giovanni Giolitti firmò a Rapallo il trattato che riconosceva Fiume città libera e ne ordinò lo sgombero forzato: Zara invece diventava parte integrante del Regno. L’enclave fiumana fu circondata dall’Esercito che paventava l’ordine di sparare sui commilitoni con i quali aveva condiviso per anni la trincea ed il Carso. L’intervento del Governo e quello dell’Esercito, ad opera quest’ultimo del generale Pecori Giraldi, furono improntati a notevole moderazione: purtroppo una ventina di Legionari e altrettanti militari del Regio Esercito caddero, in particolare negli scontri del 25 dicembre 1920, il nefasto Natale di Sangue.
Nel 1921 Giolitti dopo una serie di incontri con i diplomatici del nuovo Regno di Jugoslavia, ottenne che la città di Rijeka-Porto Barros, unico porto dell’Ungheria, la nostra Fiume, divenisse territorio del Regno d’Italia.

Fin qui la storia, oggi scordata, del “tumulto fiumano” come lo chiamò il Poeta-soldato.
Se ne è ricordato invece, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera il 4 agosto 2009, l’ambasciatore Sergio Romano il quale ha parlato di “un golpe dei giovani ufficiali”, quasi di un ammutinamento nel Regio Esercito. Forse si trattò solo di una “gloriuzza” letteraria, ma D’Annunzio con i suoi Legionari la vissero come un’epopea: nel cuore e nella mente del Poeta non poteva essere diversamente e del resto i suoi la vissero come tale, fino al sacrificio della vita.

Nella primavera del 1920 il Poeta invitò a Fiume, per tenervi una serie di concerti, la pianista Aloisia Bàccaris: scopo dell’iniziativa era, assai probabilmente, quello di tenere elevato il tono culturale della Città, dimostrando al contempo la normalità della vita dei Fiumani durante la Reggenza. Dell’evento si fa menzione, come detto, ne Le Faville del Maglio (Tomo II, pp. 297-318, Milano, Treves Editori, 1928). Ecco l’incipit:
“Nella bella incisione di Adolfo de Carolis i caratteri essenziali della persona e dell’arte di Aloisia Bàccaris sono rivelati con uno stile ampio e vigoroso che sembra arieggiare quel medesimo della giovine sonatrice nell’atto di sonare la Bergamasca o la Frescobalda”.
Davvero bella doveva essere Aloisia: gli inanellati capelli della folta chioma evocarono nel Poeta l’immagine de “le canne dell’organo di Mastro Cieco e quelle del flauto di Pan”. Il suo pensiero corre alla «concordia discorde» che è la legge della musica e dell’animo”.
E i severi lineamenti del volto sono in parte addolciti dalla malinconia. Le straordinarie capacità musicali, l’opera delle sue mani, mal venne accettata dalle non poche signore giunte a Fiume, attratte dal fascino del Poeta: esse, come dice D’Annunzio “contendono alle vicine le minime stille di miele”, negando alla pianista la straordinaria bellezza delle sue mani, evocatrici di splendide melodie.
Egli, che aveva abominato le mani della Gioconda leonardiana che ebbe l’opportunità di vedere da vicino nel 1911 per la nota vicenda del furto al Louvre, concludeva ora che “una cosa è tanto più bella quanto più ella manifesta nella sua forma la sua destinazione”: e così non sono belle solo le gambe di Ida Rubinstein ma anche “le modellature e le commettiture del mio politissimo cranio”, tra le più espressive bellezze del mondo.
L’analisi della muscolatura, dei tendini e della totalità della mano della Bàccaris lo porta alla stessa conclusione del verso goethiano secondo il quale “la forza creatrice risiede nella falange che porta l’unghia”.
E il racconto prosegue con parole di un estetismo forse decadente ma in ogni caso inimitabile: “Chi aveva posto al lato del leggio quel mazzo rotondo di garofani rossi? Per quale ispirazione lirica? Era come il fuoco della melodia e della passione; su quel legno cupo che con la sua linea orizzontale tagliava il bianco delle alte pareti e i fusti degli allori simmetrici”. Ha la nostra pianista “una impronta di grecità: ne “il suo stretto viso ulivigno di greca dell’Asia Minore” ella “ricompone tutta l’unità dell’emozione e della bellezza che fonde in un attimo tutti i tempi e tutti i segni”.
Il Poeta si sovviene, guardando le belle ed onnipotenti mani della Bàccaris, di quella giovinetta figlia di un Senatore romano la quale, nata con sei dita per un’anomalia, felice nella casualità, era in grado di avvantaggiarsene nel suonare il liuto.
“Ma tutto il vigore è nel collo […] si pensa al collo del cigno che fende l’acqua o esala il suo ultimo canto”. Sembra che il Poeta abbia trovato nell’artista un grado di perfetta corrispondenza tra fisico ed espressione artistica: “non mai in un compiuto artista la struttura del corpo ebbe una così vivace rispondenza con le qualità dell’arte sua”.
Alla fine del concerto l’artista “allenta l’arco del collo”: ora si vede il nitore della bella dentatura attraverso la bocca socchiusa.
E “l’applauso importuno distrugge l’incanto”.
La piccola Veneziana evoca in Gabriele “gli spiriti ed i fuochi di un concerto giorgionesco”. Ci vien da pensare che in quel momento possa avergli attraversato la mente l’immagine della “cingana” della Tempesta. Chissà…?
“Col vasto pianoforte a coda ella si accorda come il violinista col suo strumento sottile”. E che dire del movimento della sua chioma, mentre ella suona? “[…] la capellatura sensibile su le tempie imita le onde della melodia”.
Occhi ed udito godono in pari misura la musica che ella suona. La composta attitudine di ogni suonatore dell’orchestra che accompagna Aloisia “aulete o citaredo che sia, pur non muovendosi dallo spazio delimitato dai piedi non dissimile dal silenzio marmoreo esprime una beatitudine che si rinnova senza pausa alla vista e si prolunga senza fine nella memoria”.
Come non pensare che il Poeta è qui non solo un esteta – del che non cade dubbio – ma anche un uomo coinvolto nelle spire di un amore che, pur con alterne vicende, durerà tutta la vita ? Quelle mani che scorrono sulla tastiera di avorio e di ebano paiono esse, e non le corde percosse, generare, quasi onde armoniche, la partitura musicale.
Ora la Bàccaris ed il coro eseguono una grande corale di Johann Sebastian Bach:
“Ah, l’ombra del Signore che cammina dinnanzi a me così lunga che per timore di calpestarla, io non posso avvicinarmi a Lui né toccare il lembo della Sua veste”.
Il viso della “sonatrice s’è indurito per la potenza”. Le musiche di Frescobaldi e di Monteverdi, evocate da quelle splendide mani che l’arte guida, fanno si che “ella [sia] capace di sollevare una folla di soldati rudi e di inebriarla”.
Ella perciò, “questa piccola Italiana indomita è una viva forza della città di vita”.
Vorrebbero questi rudi ed al contempo raffinati uditori che il concerto non finisse mai, ma ella disse: “Non posso. Ho dato tutto”.
E non fu vero: alla fine, con voce di inaspettata potenza e a nessuno nota, ella cantò Il canto del mattino di Ronchi: “E tutti avemmo il medesimo sussulto”
“Fratelli, fratelli:
lodiamo il Dio vivente
Cristo è con noi che dal Calvario scende.
Italia! Italia!
Noi vinceremo o moriremo con te”.
Annota alla fine Gabriele D’Annunzio:
“è dunque giusto che al mazzo di garofani rossi sanguigni offerti ieri ad Aloisia Bàccaris i Legionari di Fiume abbiano sospeso per l’estremità del nastro da tre colori fiumani la medaglia di Ronchi dove l’insegna confitta dell’aquila è guardata dal ferro impenetrabile dei liberatori”.
Scrivevo nell’introduzione al volume D’Annunzio, moda, modernità e società di massa (Milano, Centro Internazionale di Cultura Alberto Frigerio, 2006): “Di Gabriele D’Annunzio, poeta, narratore, drammaturgo, uomo d’arme, trascinatore di folle, vate della patria con e dopo Giosuè Carducci, dei suoi amori ricchi di varie declinazioni molto si è scritto e si continua a scrivere, malgrado inani tentativi di oscurarne la collocazione nella Letteratura del Novecento e nella storia patria; di D’Annunzio non si può certo ignorare la vita amorosa complessa e talora lacerante: chi non ricorda i nomi di Barbara Leoni, di Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, di Eleonora Duse, di Giuseppina Mancini del Solus ad Solam, della Giusini di Alla Piacente?

Il 1° marzo 1938 l’EIAR trasmise la notizia del trapasso del Poeta: al suo letto di morte erano assieme al fedele Tom Antongini, due donne: la moglie Maria Hardouin di Gallese e Luisa Bàccara, la sua Smikrà.

HIC MANEBIMUS OPTIME
Splendido esemplare assolutamente originale della Medaglia Commemorativa della Spedizione di Fiume, istituita da Gabriele D’Annunzio subito dopo l’occupazione di Fiume il 12.9.1919 come “Medaglia Commemorativa della Marcia di Ronchi”, modellata dallo scultore Adolfo De Carolis su precise indicazioni del “Vate” e realizzata da Johnson di Milano. Venne conferita ai Legionari che presero parte alla marcia di Ronchi e che arrivarono a Fiume, all’equipaggio della Regia Nave “Cortellazzo” che arrivò a Fiume il 22.9.1919, a coloro che parteciparono ai combattimenti dal 24 al 28.12.1920 (Natale di Sangue) e a famose personalità, come Guglielmo Marconi, che contribuirono in varia misura alla causa fiumana. Si calcola che ne furono distribuite complessivamente circa 2500 esemplari. La medaglia in bronzo misura 39 mm di diametro.
IL DISPACCIO A MUSSOLINI
Mio caro compagno,
il dado è tratto!
Parto ora. Domattina
Prenderò Fiume con le armi.
Il Dio d’Italia ci assista.
Mi levo dal letto, febbricitante.
Ma non è possibile differire.
Anche una volta lo spirito
Domerà la carne miserabile.

Gabriele D’Annunzio -11 settembre 1919

COMMENTO IMMAGINI
Gabriele D’Annunzio
(Pescara,1863 -Gardone Riviera, 1938)

12 settembre 1919
L’ingresso dei legionari dannunziani a Fiume
(Illustrazione della Domenica del Corriere