Anno 1 - N. 3 / 2002
L’ORFISMO E LA SALVEZZA DELL’ANIMA
“E se il mondo, di te si è fatto cieco, grida alla Terra, che sta ferma: Io scorro; rigida all’acqua, che fluisce: Io sto.”
di Giulio Cesare Maggi
La tradizione ci tramanda che Orfeo era di origine divina: nativo della Tracia, egli era figlio della musa Calliope e di Eagro, divinità fluviale, figlio di Polimnia e di Apollo.
La soavità del suo canto riusciva ad incantare Dèi, uomini, animali, piante e tutta la natura: così è riportato in varie opere teatrali di Euripide, nonché da Apollonio Rodio, in Platone, Eschilo. E così è rappresentato in molte raffigurazioni vascolari a partire dal V secolo a.C.
Di origine tracia Orfeo è ritenuto re dei Macedoni e di aver partecipato, in qualità di sacerdote e cantore, alla spedizione degli Argonauti.
Egli è sposo della driade Euridice la quale muore per il morso di un serpente, scendendo così ad Ade: in virtù del suo canto e per concessione delle divinità ctonie, Orfeo ottiene la restituzione di Euridice, che potrà seguirlo sulla terra. La sola obbligazione sarà per lui di non volgere lo sguardo all’indietro; ciò avrebbe indicato sfiducia nelle divinità infernali ed avrebbe annullato il patto di liberazione. Ma Orfeo non sa resistere a questa imposizione, vuole essere certo che Euridice lo segua, che la divinità non abbia mentito e questo gesto gli costa la perdita definitiva dell’amata.
Orfeo, divenuto misogino, volge le sue attenzioni ai guerrieri ed ai giovinetti: fu per questo considerato l’introduttore dell’omosessualità in Grecia e per questo - attiratosi l’odio delle donne tracie - viene da queste dilaniato. A questa morte violenta, seguì la dispersione del corpo nei fiumi ed in mare: la testa, staccata dal corpo, continuò a cantare e a Lesbo, ove questa giunse, fu elevato alla memoria d’Orfeo un tempio.
Non è chi non veda in questa leggenda interessanti analogie con lo smembramento del corpo di Osiride ad opera di Seth.
L’allievo prediletto di Orfeo, Museo ne raccolse i carmi, detti orfici; ma Aristotele, come riferisce Cicerone nel De deorum natura, nega addirittura che Orfeo sia mai esistito.
Come giustamente fa notare la Ricciardelli nella sua bella introduzione agli Inni Orfici da lei tradotti, gli autori antichi, pur riportando versi orfici, mai hanno parlato di orfismo: così Aristotele nel De Anima, così Erodoto nel suo libro sul viaggio in Egitto, nel quale riferisce usanze orfiche, mentre Platone in Leggi parla di un modo di vita orfico ed in Repubblica persino di sacerdoti orfici addetti alle iniziazioni, gli orfeotelesti, peraltro non strutturati in vere comunità.
Secondo studi recenti, al pari di altri riti misterici, quello che oggi noi chiamiamo orfismo non può essere definito una religione, mancando di un’ideologia e di un’organizzazione: risulterebbe perciò poco difendibile, a proposito dell’orfismo, il pensare ad un rito misterico unico, almeno all’inizio.
Più convincente, allo stato attuale, considerare l’orfismo come “un insieme di miti e credenze, la ricerca di un certo tipo di vita, il divieto di sacrifici cruenti, la fede nell’anima custodita nel corpo per scontare le proprie colpe ed infine la punizione dopo la morte per i profani e la beatitudine per gli iniziati” (Ricciardelli).
Gli scrittori antichi collegano il pensiero orfico, oltre che al canto, soprattutto alla scrittura con espliciti riferimenti a libri e tavolette scritte aventi Orfeo come signore ed autore degli stessi: ciò è detto in Hyppolitos e in Alcesti di Euripide.
Nella tradizione orfica si sottolinea l’importanza della scrittura e ciò spiegherebbe, a mio giudizio, l’esistenza delle cosiddette lamine auree orfiche ritrovate in Tracia e in Magna Grecia, talune persino in Russia, nelle tombe di iniziati al culto di Orfeo.
Sempre a testi scritti per i riti di Orfeo fanno riferimento, oltre a Platone, Pausania, Diodoro Siculo e Plutarco: e non si può escludere che la sola lettura dei testi avesse già il significato di una iniziazione. Del resto, di una “offerta di buone parole” da parte degli adepti di Orfeo in vita parla Proclo in Hymni, a significare come queste parole poste per iscritto costituissero, in morte, un messaggio a finalità soterica, cioè salvifica. Alla morte saranno queste lamine a garantire agli iniziati al rito il passaggio nel Regno dei Beati.
Secondo la teogonia, meglio forse secondo la tradizione orfica, Zeus, sotto forma di serpente, genera con Persefone Dioniso, che verrà poi ucciso dai Titani, diviso in sette pezzi e da questi divorato: solo il cuore si salverà, grazie all’intervento di Pallade Atena. Zeus folgora con il fulmine i Titani e dalle loro ceneri nasce il genere umano. È interessante notare che gli antichi attribuirono all’uomo una natura buona, quella dionisiaca ed una malvagia, quella titanica.
Platone sostiene che secondo Orfeo ed i suoi seguaci l’anima è imprigionata nel corpo (soma/sema, cioè corpo/sepoltura) a causa dei crimini commessi dal genere umano, condizione alla quale l’ha condannata la divinità.
Degli dèi Aristotele dice che essi, belli, potenti, gioiosi, sono come “uomini immortali”, di questi ultimi condividendo passioni e moti dell’anima, del tutto di-sinteressati alla sorte del genere umano, interessati al più a quella della propria progenie mortale: concetti questi, come è noto, condiviso da Epicuro, che ne fà menzione nella celebre lettera a Menecèo.
Siffatta conoscenza antropomorfica della divinità da parte dell’uomo greco, gli consente, come sostiene Walter Wili nel suo saggio sui misteri orfici e sullo spirito greco, di non avere orrore della divinità, nonché di conferire al figlio di un dio un rapporto al contempo bello e pericoloso con il dio stesso.
Si tratta qui di “uomini immortali” gli abrothoi, quali Achille, Ercole, Glauco, Alessandro Magno il pai diós, il figlio del Dio per eccellenza. Nessuna differenza tra divinità e uomo sotto il profilo etico e metafisico: l’unico elemento differenziale è costituito dall’immortalità.
La presenza degli dèi nell’epos di Omero è frequente, e ciò in funzione di correttivo ad uno stato prelogico della coscienza, che non consente all’uomo una completa autonomia decisionale dei propri atti. Ma la loro contrarietà, la loro ostilità all’uomo si incentra nel concetto di “fatalità”, alla quale l’uomo greco non si oppone.
Alla concezione religioso-teogonica di Omero ed Esiodo, verso il VI secolo a.C., e forse anche prima, il dio Dioniso, dalla Tracia fino all’Attica e a Delfo, impone il suo culto sacro ad Apollo: l’estasi selvaggia, ignota prima al mondo greco, una sorta cioè di “profetismo estatico”, con le caratteristiche di un culto orgiastico, quello delle Baccanti. Solo successivamente Dioniso, divenuto un mito, abbandonò gli aspetti selvaggi ed introdusse nell’Attica i misteri che chiamiamo orfici, contemporaneamente alla comparsa del dramma come manifestazione artistica.
La diffusione stupefacente del mito dionisiaco, pur nella preesistenza di un materiale religioso extra e pre-omerico, era compatibile ed in accordo con l’esistenza del senso di colpa e di peccato e con le purificazioni. In sostanza, “la rivoluzione dionisiaca aveva risvegliato un sentimento primordiale greco assopito nella madre patria” (Wili). Sono proprio i misteri orfici ad esprimere l’elemento dionisiaco, filtrato e depurato dagli aspetti più violenti del culto primitivo, e perciò addolcito: essi prendono l’avvio dalla mitica figura di Orfeo, ab antiquo il riformatore del mito dionisiaco vero e proprio, forse per un inconscio rifiuto di quanto di violento in precedenza aveva connotato tale rito.
Secondo studiosi di rango, Orfeo più che il creatore di una comunità religiosa vera e propria, pare sia stato una personalità religiosa reale elevata assai presto a mito, già bene affermato all’inizio del VI secolo a.C.
Il nome di Orfeo starebbe ad indicare “il Pescatore”, un attributo che sarebbe poi stato dato a Glauco ed al Cristo. Con la sua meravigliosa voce Orfeo è capace di muovere non solo gli animali ma anche gli alberi e le rocce riunendoli intorno a sé, come è riportato da molte fonti dell’antichità greca e poi romana. Da lui deriva anche la musica che trova la sua sede iniziale a Lesbo: in questo senso è illuminante il saggio di Ettore Romagnoli, pubblicato nel volume, oggi raro, “Nel regno di Orfeo”.
E qui Orfeo si colloca assai vicino al suo dio, Dioniso: come lui è originario della Tracia, ha contatti intensi con la tragedia e la drammaturgia greca e poi latina di età augustea, veri apportatori di civiltà. Così come Dioniso, anche Orfeo compie il viaggio nell’Ade, anche Orfeo riporta una vittoria – sia pure parziale – sugli inferi. In virtù della sua cetra la musica assume qui per la prima volta quel carattere “magico” che poi, come linguaggio universale, conserverà per sempre. Lo stesso Platone, al di là della mitizzazione, ritiene Orfeo un uomo poi divinizzato nel contesto di un rinnovamento del pensiero greco, al quale ha conferito un solido e non perituro sistema. E solo il figlio di una musa, nel nostro caso Calliope, avrebbe potuto produrre un tale miracolo.
Merito di Orfeo aver semplificato la complessa teogonia e cosmogonia esiodea, riconoscendo tra l’altro, nelle ceneri titaniche, la presenza di Dioniso fanciullo, espressione di virtù particolarmente buone, condivise dai suoi seguaci, gli adepti orfici.
La presenza nell’uomo di elementi riferibili non solo al male ma anche, come si è detto, al bene costituisce un elemento fondamentale dell’orfismo ed è un tratto originale, incontrandosi in Grecia per la prima volta. Vi è persino chi parla per tale concezione di un “peccato originale” nell’orfismo, concetto che sottende quello della “salvazione”, assai più importante della stessa esistenza umana. Il corpo è così la tomba dell’anima (soma/sema), una sorta di prigione. La redenzione dell’uomo dalla sua natura titanica, e cioè malvagia, costituisce un elemento basilare dell’orfismo, cioè della religione dionisiaca. I misteri orfici hanno qui il loro nucleo centrale, con quella fuga dalle cose del mondo, così contraria al pensiero greco fino ad allora dominante.
È il terzo Dioniso, quello Lisèo o liberatore dell’anima, generato ancora da Zeus che ne ingoiò il cuore salvato da Atena, colui che presiede al terzo periodo del mondo orfico, redentore e guaritore dell’anima: concetto questo che ben si accorda con un’entità divina una e trina e con il ritorno dell’anima alla sua dimora divina.
Ancorché dottrina a carattere universale, l’orfismo si inserì in un mondo greco per il quale i concetti di purificazione, di espiazione e di fede nell’immortalità dell’anima non trovavano spazio, anzi ne erano del tutto estranei; così come lo era il sincretismo di un Dioniso uno e trino. Si è giunti persino (Burckhardt) a considerare tutto quello che è pertinente all’orfismo come dovuto a Pitagora e Scuola, sottolineando con ciò la sua estraneità allo spirito ellenico.
In realtà il mito di Dioniso e l’orfismo giungono dai Traci, la nazione più grande dopo quella indiana come asserisce Erodoto. È qui che nasce quel “pessimismo metafisico” legato al disprezzo orfico per questo mondo: è la morte che produce la “eudaimónia” cioè la felicità.
Il passaggio del rito dionisiaco tracio-frigio e del concetto ctonio di metempsicosi, cioè della trasmigrazione delle anime, arriverà quindi in Grecia. E a questo punto un’eventuale provenienza del concetto di metempsicosi dall’India o dall’Asia perde assai di importanza, data la provenienza accertata dalla Tracia verso la Grecia. L’evoluzione delle varie fasi delle civiltà greche, da quella arcaica fino a quella ellenistica spiega inoltre la capacità di accettare il pensiero orfico nel suo divenire e nella sua interezza.
Qui solo si ricorderà il contributo pitagorico, in particolare quello del filosofo suicida Empedocle, allievo di Pitagora, del quale ci sono pervenute le Purificazioni, che sull’orfismo basa la concezione della vita dell’uomo aristocratico.
Ma il filosofo al quale si deve soprattutto far riferimento è quel Platone, senza il cui pensiero non esisterebbe – sostiene Wili – una cultura europea. Due forme di espressione, per loro natura differenti e antitetiche, il logos, espressione della realtà e della razionalità e il mythos, espressione invece di una realtà che il solo logos non consente di spiegare o esprimere, sono presenti nell’opera di Platone.
Certo rispetto alla concezione iniziale di mythos come favola o tradizione si osserva un’evoluzione del pensiero platonico, come è documentato nel Gorgia, che lo conduce alla visione di un giudizio delle anime condizionato dal loro comportamento in vita, nel bene e nel male. Qui Platone assume una posizione nettamente orfica del premio o della punizione. Concetti questi, relativi all’immortalità dell’anima, perfezionati nel Fedone, opera nella quale è introdotto il concetto del buon démone, una sorta di angelo custode che guida ogni anima e che ciascuna di esse accompagna al sito della ricompensa o pena: ampi sono i riferimenti orfici anche a questo proposito, ad esempio la temporizzazione delle pene in rapporto alla gravità dei delitti commessi in vita.
Nella premiazione dei purificati la vita ultramondana sarà un luogo di incomparabile bellezza e per sempre. È qui meraviglioso constatare come il mito orfico sia come “totalmente subordinato alla pura sostanza metafisica, alle idee!…: alla fine risuona alta la parola purificazione”.
Ed il debito di Platone per la sua teoria della memoria (anamnesi) e dell’idea pura, nei riguardi dell’orfismo e del pensiero pitagorico ad esso correlato, è in effetti veramente rilevante. In Repubblica Platone, nel celebre mito della caverna, spiega che tanto il prigioniero quanto il filosofo necessitano di “essere liberati dai ceppi e medicati dal non pensare”: così vedranno progressivamente libera dalle ombre e dal fumo, la realtà delle cose e infine il fuoco (la luce) stesso. Queste parole sono la prosecuzione del dogma orfico, quello del soma/sema, già accettato nel Fedone: ma qui, con il mito della caverna, siamo in un’esperienza orfica vera e propria.
E qui intuitivo è il collegamento con l’Eros, inteso come aspirazione alla bellezza, “il percorso di Eros è diventato l’itinerario del puro pensiero”, la strada che dalla tomba porta al sole con la forza di Eros. Eros ed il divo Orfeo hanno dunque un percorso unico, quello che dal mystes, colui che ha gli occhi chiusi, conduce all’epoptes, il veggente, colui i cui occhi sono stati aperti: dai mystema si arriva così alla rivelazione (anakalipteria), come bene conclude Wili il suo mirabile saggio, qui più volte citato. La religione orfica comprende un altro importante elemento dottrinale, quello della trasmigrazione delle anime che arriva all’orfismo dalla dottrina dionisiaca: ma che ingombro! L’uomo greco non la ama: potesse liberarsene! E l’anima anela alla liberazione dal corpo/tomba. Ecco, il carattere uno-trino di Dioniso lo ritroviamo nel concetto bios-thanatos-bios, la via di salvazione immortale insita nell’anima dell’uomo. Questo il punto centrale della dottrina orfica, che è fondamentalmente soterica, cioè salvifica. L’anima dell’uomo necessita delle purificazioni, secondo un criterio di alta giustizia e ricompensa. Ed in tal senso si comprende il rigore peculiare che presiede ai riti orfici di purificazione, rigore non episodico, come quello dei riti eleusini, ma di tutta la vita. Per l’orfismo è Dioniso quindi colui che redime e guarisce l’anima, individualmente immortale ed oggetto di purificazione, attraverso riti non cruenti: l’orfismo aborre il sacrificio di carni ed i suoi rituali sono basati sui fiori (furono figli dei fiori ante litteram o siamo noi epigoni di questo rituale?). Perciò né mangiar carne, né uova, né uccidere animali, considerati fratelli dei quali non si doveva interrompere la trasmigrazione dell’anima. E così anche il mondo dei morti, sulla base del sentimento di giustizia, viene diviso nell’Isola dei Beati destinata agli adepti e nel Tartaro per i non iniziati.
In estrema sintesi questi misteri sono sostanziati nel triplice Dioniso, nella teogonia, nella genesi del mondo e della stirpe umana, nella purificazione e nel premio dell’aldilà. Meno informati siamo sull’azione sacra, cioè sulle teletai (cerimonie), sulle orghiai (miti) e sui mysteria (misteri) e ciò non soltanto per motivi di segretezza ad essi sottesi, quanto piuttosto per l’assenza di uno o più templi dedicati e per conseguenza di una casta sacerdotale come tale riconosciuta.
Compenso a questo jatus di notizie ci viene dall’abbondanza di materiale poetico, denominato nel suo complesso Orphica (Ed. E. Abel, Leipzig & Prague 1885), oltre ai Fragmenta (Ed. O. Kern, Berlin 1922) e gli Inni Orfici, dedicati a Museo, assai godibili nella bella traduzione di Gabriella Ricciardelli (Milano, Fondazione Valla, Mondadori 2000).
“È iniziato” come bene sintetizza Roberto Calasso nel suo Le nozze di Cadmo e Armonia (Milano, Adelphi 1988), “colui che ha toccato un sapere che è invisibile dall’esterno e non comunicabile se non attraverso lo stesso processo di iniziazione”.
Sappiamo che gli iniziandi venivano dipinti di calce e di gesso a ricordo di quanto fecero i Titani ed a significare redenzione dal “peccato originale”: seguivano i riti relativi alla redenzione dell’uomo, nei ricordi del patimento del triplice Dioniso.
L’ammissione al rito, indipendente dal livello sociale dell’adepto – erano ammessi anche gli schiavi ma esclusi gli omicidi – spiegherebbe inoltre una contemporanea presenza di motivi sottili e rozzi nel mito, fatto che sembra meritare attenzione: due estremi ben presenti a Platone, che tuttavia convivevano sia nelle forme arcaiche sia in quelle più recenti del pensiero orfico, a documentazione della grande potenza di tale rito.
Jacob Burckhardt, nella sua monumentale opera ancor oggi in gran parte attuale “Storia della Civiltà Greca” (Trad. it., Firenze, Sansoni 1974), al capitolo sull’orfismo, concordando con le antiche fonti, definisce Orfeo “il padre di tutti i riti e di tutti i misticismi in genere”, e sottolinea come in epoca alessandrina Orfeo, definito “il grande Pescatore” di anime, venisse confuso ed assimilato al Cristo dalle prime comunità giudaico-cristiane che, del resto, erano devote ad Iside con il pargoletto Horos (Arpocrate), così vicini alla Madonna con il Bambino.
È stata sottoli-neata la stretta relazione tra gli oggetti del culto dionisiaco-orfico ed il suo simbolismo: dadi, rombo, trottola, specchio, giochi dell’infanzia. In particolare, lo specchio che fornisce un “doppio”, sicché realtà e apparenza si identificano in Dioniso, che è il doppio di sè stesso, cioè del dio al quale Orfeo conduce l’iniziato, al quale svela i percorsi adeguati per la sua salvezza.
Salvezza che è anche memoria. E l’aristos meglio dei comuni mortali deve onorare il patto che si fa alla nascita, quello della morte: l’eroe spende questo bene preziosissimo, che è la vita, nell’atto di valore che dimostra la sua aretè per la quale chiede la gloria del nome, come dice Eraclito (Fr. 110 D): “una cosa scelgono gli uomini di vaglia, a preferenza di ogni altra: gloria perenne tra i mortali”.
Desideroso di essere eukléos, uomo di buona fama, è stato Achille, è stato Alessandro Magno. La sola sopravvivenza del nome li interessa, di quella del corpo hanno orrore: essere stato magnifico e poi invecchiare, magari perdere la virtù, il valore dell’età giovanile. No! “muor giovane colui che al cielo è caro” ma a lui del cielo poco importa, vuole il ricordo qui sulla terra, tra gli uomini, per catene di generazioni: questo è l’aristos così vuole essere, esistere, diremmo oggi, nel DNA di Mnemosyne.
Psyche e soma, inseparabili in vita, diventano alla morte due entità distinte. Torna il corpo nella materia universale, mentre l’anima ritorna, come entità distinta, all’anima mundi. E, in fondo, l’orfismo è un ritorno di questo tipo.
È un’immortalità mancata quella stessa che colpirà Asclepio, figlio di Apollo, il fondatore della Medicina, che all’inizio condivise con Orfeo la fama di aver introdotto in Grecia quest’arte: ma l’allievo di Chirone, Asclepio, diventò in questo campo assai più famoso di Orfeo, al quale peraltro sia Plinio sia Galeno attribuiscono opere di medicina. Capace di riportare – empio – da morte a vita, Asclepio pagherà questa sua capacità folgorato da Zeus. Resterà ai pharmaka di Asclepio, se non quella del ritorno in vita, la capacità di lenire il dolore, non per nulla opus divinum per sempre. Ed è rimasto immortale nella memoria raggiungendo quel che desiderava: Mnemosyne l’ha ricompensato.
Ed anche Orfeo partecipa di questa incapacità di sottrarre ad Ade quanto gli appartiene.
Di qui, da questo terribile accadimento, scaturisce una speranza imperitura, la consolante salvazione dell’anima, il vero pharmakon alle tribolazioni dell’esistenza. Questa è la grandezza imperitura del messaggio orfico: scompare così l’orrore di Ade, da cui l’anima purificata può tornare come tornò Eracle, al contrario di Euridice, ed anche la memoria dell’iniziato rimane in virtù di Mnemosyne, così spesso invocata nelle lamine sepolcrali orfiche.
Sciolta dalle catene delle passioni, dice Socrate nel Fedone, l’anima pura, guidata dai misteri e dal suo démone, raggiungerà l’Isola dei Beati ove sono gli Dèi. Nel mistero vi è per l’adepto l’apprendimento del presentarsi all’appuntamento con la morte e dell’indiarsi. Vita/morte, due entità, mortalis numerus; ma la salvazione, la nuova vita, trasforma il doppio in triplo bios/thanatos/bios; la salvezza è nel dispari, quel numero tre sacrale.
Il rito orfico conferisce all’adepto quella homoiotes, quella uguaglianza che la città-stato greca non riuscì a dare: e questo per la vita presente, purché si seguano virtù particolarmente buone e alla fine, nella vita ultramondana, salvifica per il singolo e per il gruppo.
A partire dal V secolo si aggiunge un fatto importante, già prima ricordato: la presenza nelle tombe degli adepti di una sorta di passaporto per l’eternità, le cosiddette lamine auree che vengono anche definite “istruzioni per il viaggio oltremondano” degli iniziati. È assai interessante notare, a mio giudizio, che alcune lamine hanno forma di foglie di edera, rappresentazione, tra le poche nell’arte figurativa greca, del cuore.
L’orfismo ha esercitato, come abbiamo detto, una indiscutibile influenza sul cristianesimo primitivo, anche documentata da iconografia di età ellenistica.
Ed è ancora valida la teoria di Rhode (in Psyche, 1984) che per primo considerò l’ipotesi dell’orfismo come dottrina/religione capace di contemperare il carattere orgiastico del mito dionisiaco, evolvendo verso una religione più spirituale, apollinea, poetica e mistica.
Che il mito di Orfeo abbia influenzato il pensiero degli autori greci, dalla tragedia alla poesia, fino all’epoca ellenistica ed in seguito non è qui il caso di ripetere: e così pure nel mondo romano Ovidio, Virgilio, Orazio, per citare solo i massimi.
Ma quanto il mito di Orfeo sia rimasto nella nostra cultura è documentato nel Rinascimento dalla bella Favola di Orfeo del Poliziano che rappresentata alla corte degli Sforza ebbe l’onore di costumi di scena disegnati da Leonardo, mentre nel frontespizio dell’Harmonie Universelle di Mersenne Marin (XVII secolo) Orfeo è raffigurato circondato da animali e piante docili al suo canto divino. E in tempi più recenti la poesia di Reiner Maria Rilke, nei Sonetti ad Orfeo (1922), ed i Canti Orfici (1914) di Dino Campana, l’amico di Sibilla Aleramo, curiosamente dedicati a Guglielmo II Imperatore dei Germani.
Per la musica basterà ricordare l’Orfeo di Luigi Rossi (1647) e l’Orfeo ed Euridice di Gluck (1762) per non dimenticare il famoso Orphée aux Enfers (1856) di Jaques Offenbach.
Ed in immagini, a parte le belle pitture vascolari greche, dal V secolo in avanti e alcuni vasi vitrei romani di eccezionale bellezza, nonché un mosaico del III secolo nel Museo musivo di Antiochia (che rappresenta Orfeo che suona la cetra tra animali ed alberi) e gli affreschi pompeiani, ricordiamo Luca Signorelli e la numerosa miniaturistica fiamminga e francese (XV secolo), il mirabile disegno ritraente Orfeo citaredo di Cima da Conegliano, nonché bellissime pitture su piatto della fine del Quattrocento ad opera di Timoteo Viti e Nicola Pellipario; e di Alessandro Striggi la piacevole Favola di Orfeo rappresentata in musica (1607), alla Biblioteca Comunale di Mantova, esposta alla recente mostra gonzaghesca. Anche Angelica Kaufman, una delle ninfe egerie di Goethe, si lasciò prendere dal mito di Orfeo, in un quadro che rappresenta l’ascesa di Orfeo ed Euridice dall’Ade. Tutto il movimento pittorico definito da G. Apollinaire (1912) “dell’Orfismo” sulla base della pittura di P. Delaunay nella quale il poeta ed i suoi amici P. Valéry e Max Jacob, riconoscevano una “sfumatura poetica”, in un periodo dominato dall’emergente cubismo. L’estensione al mondo pittorico dei “blau reiter” fu certamente favorita dallo scritto “Sulla luce” pubblicato, nella traduzione di P. Klee sulla rivista Der Sturm (1913).
All’orfismo in pittura aderì anche Frantisek Kupka in Cecoslovacchia, e in Italia, quale epilogo tardivo, Licata, autore quest’ultimo di inquietanti alfabeti orfici.
Una splendida serie di dipinti nel ciclo Orpheus è opera di Antonella Cappuccio (1980/90), artista di grande sensibilità di cui si rappresenta qui il quadro intitolato L’attrazione. Die zauber flöte.
Orfeo perciò non perituro nella memoria degli uomini: il suo incontro con Mnemosyne si è risolto favorevolmente per lui dopo tre millenni di meravigliosa presenza nel mondo, tra sogno e realtà.
Forse, come dice Sallustio in Degli dèi e del mondo, queste cose non avvennero mai, ma sono sempre.
I versi della prima pagina sono tratti da Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke (1922). Edizione italiana, Firenze, Sansoni, 1951. La traduzione dal tedesco è di Vincenzo Errante.
Immagini a commento:
Orfeo citaredo
Orfeo, da un affresco a Pompei
Vasi attici a figure rosse
Dioniso, vaso attico a figure rosse. Notare la decorazione a foglie di edera
Orfeo massacrato dalle Baccanti (1698 c.), Gregorio Lazzari, Venezia, Ca’ Rezzonico
Zeus e Titano
Orfeo ed Euridice (1718-20 c.), Jean Raoux, The J. Paul Getty Museum
Persefone
L’attrazione Die zamber Flöte, Antonella Cappuccio
Proserpina (1874), Dante Gabriel Rossetti, Londra Tate Gallery
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