Anno 9 - N. 26/ 2010


Il caffè delle Muse

Guido Oldani

di Francesco Piscitello



Guido Oldani


L’affettuosa, calda amicizia che mi lega a Guido Oldani, uno tra i principali poeti italiani del nostro tempo, ci conduce spesso davanti a qualche gustosa vivanda e a un bicchiere di vino che corroborano un sodalizio intellettuale ormai non più recentissimo.
Non ci si faccia ingannare dalla fotografia che mostra il versante ironico e giocoso di Oldani: il versante opposto è animato da una pensosità dolente ma non remissiva, combattiva anzi, che lo ha condotto ad assumere pubblicamente posizioni di lotta determinata e decisa nei confronti della peggiore malattia di questo paese, il cancro mafioso.
Del tutto recente è la sua enunciazione di un concetto, che lui chiama “realismo terminale”, e che costituisce la dichiarazione definitoria di un pensiero, ma anche di un’atmosfera emozionale interna, che guidano la sua più recente elaborazione poetica.
Cos’è mai il realismo terminale? Già Giuseppe Pontiggia aveva osservato che la nostra specie, resa dalla selezione darwiniana adatta alla vita nelle savane africane, si trova oggi a vivere nelle moderne megalopoli e sospettava che da una tale sfasatura non potesse uscir nulla di buono. Il “nulla di buono”, è questa l’intuizione oldaniana, consiste nel fatto che - sono le sue esatte parole - ... col terzo millennio e con l’umanità prevalentemente urbanizzata, cambia antropologicamente l’organizzazione della percezione della realtà, fatta largamente più di oggetti che di natura. Nella realtà la natura è ormai azionista di minoranza: azionisti di maggioranza sono invece gli irresistibili oggetti. La natura superstite si dilapida a vantaggio dell’artificialità, in un processo che è lui a parer naturale e in cui, essa natura, sembra esistere solo in quanto in attesa di artificializzarsi, forse nella totalità.
Molte cose dice ancora Oldani sul tema della sua elaborazione, ma lo spazio non mi consente neppure di accennarvi. Preferisco impiegare quello che mi resta per una delle sue poesie che mi piacciono di più: Cucire, che fa parte della raccolta Il cielo di lardo (Mursia, Milano - 2008), perché mi sembra esprimere una relazione, con degli oggetti familiari come l’ago e il filo, semplice e vera. Una relazione buona, calda, desiderabile che, se fosse estesa a tutti gli uomini e ai molti ma non moltissimi oggetti meritevoli della nostra amorevole riconoscenza per quello che davvero fanno per noi, vanificherebbe d’un colpo la necessità di qualsiasi realismo terminale.

Cucire

Vorrei tu fossi l’ago del rammendo,
io il tuo refe doppiato a trapassarti
sgomitolato da me stesso inquieto
e posti insieme, noi, siamo un cucire.
È un verbo di lavoro e ha un senso caro
di coppia che rinsalda opposti lembi
ma, soli, tu puoi solo le punture
e io afflosciare, rete senza un mare.