Anno 9 - N. 26/ 2010


IL SUPERUOMO Ecologico

«Il cammino che porta dall'ameba all'essere umano appare a noi come un indubitabile progresso, ma nessuno ha provato a chiedere l'opinione dell'ameba»

[...] Vogliamo giudicare il grado di evoluzione dall'attitudine di una specie a sopravvivere a lungo? Noi uomini allora non potremmo reggere il confronto con molte specie di alghe e di batteri. Ci volgeremo alla sopravvivenza non già della specie, ma degli individui? [...]

di Paolo Brera




Povero Nietzsche, quale meschina sorte gli è toccata! Un uomo mite come lui, incapace di fare del male a una mosca, si è ritrovato post mortem a fare da vessillo per un movimento politico totalitario come quello di Hitler. Per non dire che una delle sue idee potenzialmente più fertili, quella del superuomo, è stata invocata come alibi per omicidi di massa.

Eppure, spogliata degli orpelli nazisti che stanno ad essa come i fregi sovrapposti in età barocca stanno alla severa architettura di molte chiese romaniche, l'idea è sana. Si basa su una constatazione: le specie si evolvono; e anche alla specie umana, se non interverrà a concluderne la vicenda qualche ceppo particolarmente virulento di Hiv, potrebbe capitare di evolversi e di dare quindi origine a un essere superiore all'uomo.

Diciamo meglio: all'uomo di oggi. Non so e non posso dire in quale momento dell'evoluzione sia stata insufflata nell'uomo l'anima. Mi lascia insoddisfatto l'idea di un puro adattamento dei vari esseri alle circostanze casuali che hanno trovato: le circostanze non mi sembra fossero poi così casuali, l'adattamento e dunque anche l'evoluzione potrebbero benissimo essere il risultato di un disegno intelligente. Ma non posso provarlo, e neppure dispongo di un vero criterio per distinguere il caso da un disegno intelligente. Sto contento al quia per quanto mi è possibile e quando proprio non ce la faccio più cerco di capire, fermo restando che vivere come bruti è l'ideale. Chi può. Quanto agli altri – a ciò fatti non fummo, e tanto peggio per noi.

Il superuomo del futuro avrà un'anima tanto quanto l'uomo di oggi, non di meno e non di più. La sua superiorità si manifesterà però in altre cose, nelle quali avrà operato l'evoluzione futura.

Alcune delle linee di tale mutamento sono già evidenti: o meglio, sono già visibili a chi sa vedere questo genere di segni. Il poco che se ne può dire include certamente questo: l'evoluzione sarà ben diversa da ciò che si immaginavano i nazisti.

L'evoluzione comporta una maggiore capacità di sopravvivere, dunque (è un altro modo di dire la stessa cosa) una maniera più efficiente di utilizzare l'ambiente. Il quale ambiente, riflettevano i nazisti, include sempre e comunque le specie "inferiori". Secondo loro dunque il superuomo, la nuova specie che sarebbe nata dalla razza superiore già presente in seno alla specie umana, avrebbe dovuto possedere in grado supremo le qualità che avevano fatto il successo della nostra specie e della "razza superiore": l'aggressività, il freddo raziocinio, la mancanza di pietà.

L'assurdità di questa visione risulta evidente se ci fermiamo a considerare come il remoto antenato comune delle attuali scimmie antropoidi e della specie umana avrebbe immaginato la "superscimmia" – cioè l'uomo, dal punto di vista del nostro scimmiesco antenato. Se avesse cercato di raffigurarselo, alla stregua dei nazisti, come un essere dotato in sommo grado delle qualità utili a lui stesso per farsi largo nella lotta per la vita, l'avrebbe visto come un essere ancora più muscoloso, ancora più agile nel saltare da un ramo all'altro, ancora più abile nel trovare la frutta. È facile vedere che le qualità di cui noi Homo Sapiens più ci vantiamo non sono precisamente queste ma altre, ben diverse.

L'evoluzione infatti ha preso tutto un altro corso. Già, l'evoluzione. «Il cammino che porta dall'ameba all'essere umano appare a noi come un indubitabile progresso, ma nessuno ha provato a chiedere l'opinione dell'ameba», ha scritto Bernard Shaw. Evoluzione, evoluzione… Come misurare l'evoluzione?

I diversi criteri che si possono adottare danno risultati dissimili al momento di valutare il rango evolutivo di ciascuna specie. Vogliamo giudicare il grado di evoluzione dall'attitudine di una specie a sopravvivere a lungo? Noi uomini allora non potremmo reggere il confronto con molte specie di alghe e di batteri. Ci volgeremo alla sopravvivenza non già della specie, ma degli individui? Qualunque specie più longeva della nostra avrebbe la palma. Forse, più che di evoluzione di una specie, bisogna parlare di evoluzione della biosfera, che in fin dei conti è un tutto interconnesso.

Oggi la biosfera è nelle curve. L'evoluzione, forza impersonale e fino ad oggi ben più potente di noi, ci ha portati a un punto nel quale abbiamo la capacità di distruggere il pianeta e in una con questo, di necessità, noi stessi. Il nostro potere è cresciuto a dismisura, ma nei nostri geni sono tuttora codificati comportamenti più acconci all'antropoide menefreghista di un milione di anni fa, che non aveva affatto a preoccuparsi delle conseguenze delle sue azioni sull'ambiente che lo circondava. E che quindi spesso gli nuoceva seriamente.

In effetti anche in tempi vicini la storia ha conosciuto più d'una catastrofe ecologica: la desertificazione della Mesopotamia prodotta dall'agricoltura-gioiello dei sumeri con l'abuso dell'irrigazione, il disboscamento dell'Attica per alimentare di lignee navi la talassocrazia ateniese, l'esodo dei maya dall'esausto suolo del Guatemala per assoggettare alla disastrosa monocultura del mais nuove terre, poi trovate nello Yucatán.

Erano, tuttavia, catastrofi locali, degne di nota solo per le popolazioni direttamente interessate e per i loro discendenti.
Oggi invece l'intera umanità costituisce un solo titanico meccanismo produttivo. L'applicazione da parte di un gruppo umano di tecnologie non rispettose dell'ambiente, cioè tali da ledere la capacità produttiva di lungo periodo del territorio abitato dal gruppo, non può più trovare rimedio semplicemente nell'alzare le fette e cambiare territorio.

Il territorio ormai è l'intero pianeta. Non disponiamo di un pianeta di ricambio: pertanto, se non impareremo a gestire quello che abbiamo, sarà l'intera specie umana a perire o ad immiserirsi. Apprendere a gestire il nostro pianeta significa infatti compiere quell'adattamento all'ambiente che è da sempre il prezzo della sopravvivenza.

Parlare di adattamento è, a ben vedere, inesatto: in verità nessuna specie vivente si adatta all'ambiente in cui vive, perché questo non è altro che l'interazione di tutte le specie viventi (e di variabili esterne come la costante solare, che però mutano con estrema lentezza).

Chiariamo due esempi. Lasciata a sé stessa, una specie di erbivori cresce di numero finché non eccede le risorse alimentari disponibili, col risultato che gli individui cominciano a morire d'inedia. Lasciati a sé stessi, i carnivori divorano tutta la selvaggina del continente e poi si sdraiano ad aspettare la morte. Messi insieme, carnivori ed erbivori con le loro strategie di sopravvivenza e le loro capacità specifiche generano una situazione in cui i primi subiscono in permanenza una certa minaccia di morire di fame, i secondi hanno una certa probabilità di finire sbranati.

Una tale forma di adattamento è il tipico equilibrio che la natura genera in modo spontaneo. Che ci piaccia di identificarci con i placidi erbivori o con i feroci carnivori, tale equilibrio, con ogni evidenza non ha nulla che possa farcelo andare a genio. Se non vogliamo rinnegare i nostri valori umani, rispettosi dell'individuo, dobbiamo trovare forme di interazione con l'ambiente che non costino troppo care in termini di qualità e quantità della vita umana. Non conta solo rispettare l'ecologia, ma anche arrivare a una situazione in cui gli individui della specie umana né debbano rischiare la morte per fame né debbano essere sbranati.

Il rispetto degli esseri umani da parte degli esseri umani non è un'invenzione recente. Non è stato l'altro ieri che qualcuno ha autorevolmente suggerito di amare il prossimo nostro come noi stessi. Non è recente neppure l'altro aspetto, quello di gestire il pianeta con saggezza.

Gestire il pianeta significa in pratica gestire noi stessi e le specie nostre partner sulla faccia della Terra. Questa dunque è la sfida che ci pone l'evoluzione. Ne segue che il superuomo del futuro non sarà affatto quello che si immaginarono i nazisti: un ariano alto, biondo e sanguinario, capace di trattare gli esseri umani come noi oggi trattiamo le bestie. Non è neppure detto che finisca per essere più intelligente di noi. Sarà, piuttosto, un essere dalla fermissima coscienza ecologica, intenzionato a trattare semmai le bestie come esseri umani e a rispettare l'ambiente senza sfruttarlo al di là delle sue possibilità. Non sarà un Hitler, sarà un Mahavira o un Buddha. Imiterà Cristo nella misura in cui ciò è possibile a un essere umano. O post-umano.

Le specie viventi si adattano al loro ambiente sopra tutto attraverso il meccanismo del DNA, nel quale vengono codificati e tramandati da una generazione all'altra i comportamenti e le caratteristiche più favorevoli alla sopravvivenza. I teorici del razzismo hanno in certo modo esteso questo modello alla specie umana, dimenticando la durata (biologicamente lunghissima) delle nostre generazioni. La variabile genetica non è particolarmente importante nel prefigurare l'adattamento della specie umana alle nuove condizioni create dallo sviluppo tecnologico. Meno che mai essa potrà in questo processo essere centrale.
Il necessario apprendimento dei nuovi metodi, dei metodi del superuomo, non discenderà da mutamenti genetici ma da mutamenti spirituali. Perché rispetto agli animali la specie umana dispone anche di un altro meccanismo, oltre a quello genetico, per trasmettere l'informazione da una generazione all'altra: la trasmissione culturale. Un meccanismo che è certamente meno affidabile nelle sue modalità operative e più labile nei suoi risultati, ma che è anche di gran lunga più rapido dei metodi accessibili ai piselli del buon Mendel e ai loro imitatori vegetali o animali. Dati i tempi brevi a nostra disposizione (non centinaia di millenni, ma se va bene solo alcune decine d'anni), proprio su questo secondo meccanismo, quello culturale, dovrà cadere l'accento. Possiamo star sicuri che quelli chiamati a realizzare il mutamento stanno già camminando fra noi.