Anno 9 - N. 26/ 2010
MANZONIANA
Aneddoti di don Lisander
“L’è stada ona fortunna ch’el Signor m’abbia fa on po bettegoj,
se de no sariss sta vun de quei cicciaroni”
“… un lepore finissimo ne il carattere, l’innocenza è nel suo tono di voce, la modestia nel suo portamento” e ancora “una voce quasi di timidità, cui lo stesso balbettare un poco, giunge come un vezzo alle parole ... una mite sapienza che irradia per riflessimento tutto ciò che a lui si avvicina, uomo che trasse il suo genio dal cuore”.
Niccolò Tommaseo
di Giulio Cesare Maggi
La Corsia
dei Servi (Milano, 1836)
Giuseppe Canella (Verona, 1788 - Firenze, 1847)
Brutta gente quei Manzoni, da lungo tempo Signori ed esattori delle tasse per la Valsassina, residenti in quel di Barzio. Erano diventati così potenti, anzi prepotenti, da esigere da parte dei valligiani, oltre ai tributi ben inteso, atti di ossequio, non solo verso le loro persone ma persino verso le proprie case. Passandovi d’innanzi ci si doveva levare il cappello, anche se a custodirle era solo un cagnaccio da guardia: non solo ma bisognava ossequiare anche la bestia con un “reverissi sciòr can!”.
Ancora verso la metà dell’Ottocento, come ricorda Antonio Stoppani, circolava in quei siti il detto vernacolo
“Cuzzi, Pioverna e Manzòn
Minga intenden di rasòn”.
Chi siano i Cuzzi non sappiamo, ma la Pioverna è un fiumiciattolo a carattere torrentizio che scorre per quelle parti, procurando non di rado dei danni.
I Manzoni nel 1710 si erano inurbati in Lecco, edificando un palazzetto, il Caleotto, ove dimorarono i nonni di Alessandro. Il loro figlio Pietro si era poi trasferito a Milano sul Naviglio di San Damiano (l’attuale Via Visconti di Modrone) al civico oggi 16, già 20 avendo con sé uno zio canonico e alcune sorelle zitelle.
Pietro era un malinconico gentiluomo, di nobiltà minore, scapolo già di quarantasei anni allorquando gli fu proposto il matrimonio con la primogenita del celebre Cesare Beccaria, la ventenne Giulia, vivace e brillante frequentatrice dei salotti illuministi milanesi ove era ben accetta non solo in virtù della fama paterna.
“La lodevole destrezza e la mediazione di Sua Eccellenza il Sig. Conte Pietro Verri” recita il contratto matrimoniale tra Pietro e Giulia, avevano favorito l’unione. Questa attestazione non era priva di significato, almeno per coloro che ne conoscevano il retroscena. La vivacissima Giulia, per la quale Cesare era alla ricerca di una rapida collocazione, dovendo egli stesso riposarsi dopo la morte della consorte Teresa de Blasco, era in realtà da tempo l’amante di Giovanni Verri.
Il matrimonio si fece nell’ottobre 1782 e fu più che altro un atto formale, dato che Pietro era, pare notoriamente, impotente. È ormai certo che Alessandro non fu figlio di Pietro Manzoni ma di Giovanni Verri: la documentazione, quanto mai esplicita e definitiva, è stata presentata da Masini nel suo “Manzoni” (1996).
Alessandro, Francesco, Tommaso, Antonio Manzoni, nato il 7 marzo 1785, fu battezzato il giorno successivo nella Chiesa di San Babila che allora aveva ancora la bella facciata seicentesca, oggi sostituita dal falso romanico di fine Ottocento.
Riferendosi ai liberi costumi dell’epoca, argutamente l’abate Parini aveva scritto, pur senza alcun riferimento a questo evento, uno dei tanti di allora, questi versi che al fatto bene si attagliano:
“Cari figli, non piangete
Che se nati ancor non siete,
Non potendo vostro padre
Vostra madre vi farà”.
La convivenza dei Manzoni, anche per la interferenza dei familiari, fu fin dall’inizio non facile, ed il matrimonio fu risolto consensualmente nel 1792.
Dopo il baliatico, Alessandro passava intanto di Collegio in Collegio, prima a Merate, poi a Lugano e da ultimo a Milano in quello dei Nobili, poi Longone, sede attuale della Questura della città.
Giulia, divenuta amante di Carlo Imbonati, si trasferiva con lui prima a Londra e poi a Parigi.
Alessandro nei vari Collegi si era dimostrato alquanto indisciplinato, anzi ribelle. Soprattutto nel Collegio di Lugano, tenuto dai padri Somaschi, entrava segretamente la stampa libertaria, atea e rivoluzionaria francese che i giovanissimi convittori leggevano avidamente.
Nel 1796 Napoleone entrava nella città di Milano, e ordinava il ritorno in Italia dei figli dei nobili milanesi all’estero.
Morto Parini, Alfieri “muto ov’Arno è più deserto”, Vincenzo Monti diventava per Manzoni quello che egli chiamava “il mio dio”.
Erano gli anni del noviziato poetico di Alessandro che, al pari di molti suoi compagni del Longone, si volgeva all’irreligiosità se non addirittura all’ateismo, non disgiunto da un certo moralismo massonico, espresso nel carme “In morte di Carlo Imbonati”: tale atteggiamento avrebbe poi ripudiato con orrore (e senso di colpa) rifiutando numerosi scritti giovanili, dal “Trionfo della libertà” ad “Urania”, “Parteneide” e persino “Vaccina”.
Il ricongiungimento alla madre avvenne a Parigi, dopo la morte di Carlo Imbonati che lasciava il suo cospicuo patrimonio a Giulia.
Il soggiorno parigino, la frequentazione di Fauriel, la passione per la botanica che gli fece pensare di essere un novello Linneo, si conclusero con il matrimonio con Enrichetta Blondel, e la successiva conversione “alla fede dei suoi avi”, come recita una piccola lapide marmorea nella Chiesa di San Rocco. Segue il ritorno a Milano e poi nella amata villa di Brusuglio, da lui stesso progettata come ristrutturazione di una cascina di proprietà Imbonati. Non lo seguiremo nella sua attività di vignaiolo, di agricoltore e di botanico e poi di padre felice e in quella di poeta. Pensiamo agli “Inni Sacri”, solo per sottolineare che la sua conversione fu realmente convinta e quasi fanatica.
Alessandro Manzoni fu per tutta la vita un grave nevrotico, con spunti ossessivi nonché patofobici, come è ampiamente documentato dai ricordi di coloro che ebbero la opportunità di essergli vicini nel corso della sua esistenza.
Non gli mancò tuttavia una costante vena di umorismo, erede in questo del Maggi e del Porta, espressa soprattutto con quel sapido dialetto milanese che parlavano sia il popolo sia la nobiltà.
È noto che Manzoni pensò il suo capolavoro “I Promessi Sposi” in vernacolo, tanto che poi sentì la necessità di “risciacquare in Arno” il testo italiano.
Tanto più necessario data la frequentazione, dopo il ritorno parigino, della “cameretta portiana”, il cenacolo letterario nel quale l’aveva introdotto il Bossi, poeta e pittore, direttore dell’Accademia di Brera. Essa contava tra i propri membri oltre al Porta, Gaetano Cattaneo, Giovanni Torti, Luigi Rossari e Tommaso Grossi: v’è da credere che si scrivesse anche in italiano, ma si conversava in meneghino.
Del resto, lo stesso Alessandro riconosceva di parlare e scrivere in tre lingue: milanese, francese ed italiano.
L’uso del vernacolo era abituale nella conversazione di Manzoni e del suo entourage. Per questo non aveva bisogno di alcuna “risciacquatura”, erede com’era, attraverso la “cameretta portiana” del Maggi; il quale del nostro dialetto, anzi della lingua milanese, così diceva:
“L’è una lengua correnta, averta e ciara
che la par fae apposta per dir la verità”
il che significa “è una lingua di uso pratico, aperta e chiara che par fatta apposta per dir la verità”.
E francamente i due versi paiono più belli ed armoniosi nella stesura dialettale che in italiano.
È sicuramente in questo ambiente, tra il colto e lo scanzonato, che Manzoni potè evidenziare e rendere più sapido il proprio “humor”: beneficiavano di questo i numerosi amici che frequentavano sia la casa di Piazza Belgiojoso sia la Villa di Brusuglio, da sempre il suo soggiorno preferito. Si trattava di dotti amici e di personaggi notevoli di quella Milano che nei primi decenni dell’Ottocento vide la nascita del movimento romantico, fin dall’inizio non privo di riscontri europei, tra i quali quello determinante di Goethe, estimatore di Alessandro Manzoni, amico e finanche suo traduttore (Der fünfte Mai, Berlin, 1828).
Di queste conversazioni, nelle quali trovava spesso posto una vena di schietto umorismo lombardo, (i cosiddetti Giavanàd) abbiamo tracce numerose nelle memorie di molti che godettero della sua amicizia e confidenza, da Grossi al Tommaseo, da Stoppani a Stefano Stampa.
Così lo descriveva Niccolò Tommaseo al quale Manzoni dimostrava sincera e grande amicizia: “un lepore finissimo ne il carattere, l’innocenza è nel suo tono di voce, la modestia nel suo portamento” e ancora “una voce quasi di timidità, cui lo stesso balbettare un poco, giunge come un vezzo alle parole [...] una mite sapienza che irradia per riflessimento tutto ciò che a lui si avvicina, uomo che trasse il suo genio dal cuore”.
Come si può non amare un Uomo di questa adorabile ingenuità e personalità?
Era questo colui che nel 1825 aveva dato alle stampe il suo capolavoro “I Promessi Sposi” e che Goethe aveva definito di “una chiarezza come quella dello stesso cielo italiano”, uno dei grandi ricordi del suo “Italienische Reise”.
Altro che “venticinque lettori”! Prima tutta l’Italia e poi tutta l’Europa erano estasiate dalla “Storia milanese del XVII secolo scoperta e rifatta” dal Nostro.
Non che avesse solo amici ed estimatori, sia in vita sia dopo morto. Nel suo saggio “Manzoni” Masini ricorda che nel 1807 circolarono a Milano questi versi anonimi quanto feroci:
“Quel corno che portò Pietro Manzoni
da quel gran cialtron dell’Imbonati
fruttò alla moglie molti ducaroni
e quei versi dal figlio dedicati,
perché la sposa di virtute adorna
e lei perdendo si posò le corna”.
Sembra che Manzoni non abbia mai conosciuto l’impietoso epigramma ed in ogni caso si deve ritenere per certo che il Carme all’Imbonati, anche se poi rifiutato, fu parto sincero del suo sentire.
Ma non basta!
All’epoca del suo secondo matrimonio, quello con Teresa Stampa, circolarono per Milano questi velenosi versi che S. Peri pensa siano opera di un epigrammista antiromantico:
“Amant d’une protestante,
Veuf d’une catholique,
Il epouse une athée :
La scène est romantique”.
(Amante di una protestante / Vedovo di una cattolica / Egli sposa un’atea / La scena è romantica)
E per contro, tra gli estimatori, in realtà i più, così Ippolito Nievo (Lucciole, Le scimmie milanesi, 1858):
“Andate in collera?
Non c’è un perché:
Siam tutte scimmie
da capo a piè.
L’ultime pagine
Dei nostri annali
Han sol due rubriche originali.
Un tempio e un uomo:
Manzoni e il Duomo”.
L’ambiente sì colto ma al contempo spigliato si addiceva alla intellighenzia milanese di quel periodo.
Era Manzoni il primo a scherzare sui propri difetti, anche su quelli fisici.
Come aveva già garbatamente ed in positivo osservato il Tommaseo, nel ricordato ritratto psicologico di don Lisander, questi era affetto, fin dalla giovane età, da una sua certa balbuzie, che si accentuava, come avviene d’abitudine, quando era emozionato o nervoso: sul significato di tale difetto si sbizzarrirono in seguito medici e psicologi.
Don Lisander se ne consolava dicendo:
“L’è stada ona fortunna ch’el Signor m’abbia fa on po bettegoj (balbuziente), se de no sariss sta vun de quei cicciaroni” (chiaccheroni).
Un giorno gli fu presentato un sacerdote che di cognome faceva Bettegà (in milanese bettégà vuol dire balbuziare) e Manzoni, nel stringergli la mano gli disse:
“Lei ha il nomen io ho l’omen”,
come ci racconta Stoppani.
Quella balbuzie gli consentì talora di trarsi d’impaccio, come quando, essendogli stato offerto un seggio di Deputato nella Camera del Regno, rifiutò, commentando così il fatto: “Supponete che un bel momento mi rivolga al Presidente della Camera per domandare la parola: che dovrebbe rispondermi egli mai? “Scusi Onorevole Manzoni, a Lei la parola non la posso proprio dare”.
La sua arguzia era tuttavia temperata da un’innata cortesia e da prudenza, anche nell’ámbito famigliare. Come ricorda F. Cazzamini Mussi nei suoi “Aneddoti milanesi” (1932), Manzoni, esprimendo giudizi ironici o severi su personaggi o su fatti del giorno, lasciava di frequente spazio a interpretazioni diverse dalle proprie dicendo:
“Del rest poderà vess come quella veggietta (vecchietta) del ’59 la qual la trovava che i Frances che vegneven giò allora in Italia, no eran pù quei inscì gentil d’ona volta, ai temp de Napoleon I”.
La sua era frequentemente autoironia, ma egli non consentiva ad altri, fossero pure amici, atti di superbia né modi anche larvatamente scortesi nei suoi riguardi.
Un giorno Tommaso Grossi declamava in casa Manzoni un capitolo de “I Lombardi alla Prima Crociata” davanti ad un gruppo di amici: giunto ad un ottava che principiava con “Abbranca un merlo...”, nella foga della lettura pose la mano sulla spalla di don Lisander che ascoltava seduto: al che questi usci in
“Un merlo te sarett tí...”
(Un merlo sarai tu), tra le risate del dotto uditorio.
Che in circolazione di “merli” anche allora ve ne fossero non pochi e che tali Manzoni benevolmente li ritenesse, ce lo dice questo episodio riportato da Renato Simoni.
Il vecchio e fedele domestico personale di don Lisander, tale Clemente Vismara, un giorno a Brusuglio sparò un colpo di fucile abbattendo un uccello. Manzoni, che detestava la caccia, nel rimproverare con bonomia il povero Clemente, gli chiese – forse per addolcire la reprimenda – quale uccello avesse ucciso. Saputo trattarsi di un merlo mormorò:
“Oh! de merli ghe ne sarà semper...”.
E pietà provava per gli uccelli in gabbia, pensando alla garrula turba di quelli in libertà che allietavano le sue lunghe e salutari passeggiate ai Giardini Pubblici di Milano, come appare dagli eleganti distici elegiaci latini della poesia intitolata “Volucres”.
Non si illudeva don Lisander che gli uomini di lettere venissero riconosciuti e onorati, merli a parte, neppure dagli appartenenti ai ceti milanesi elevati che, con le debite eccezioni, non brillavano certo per cultura. Trovandosi un giorno con un amico in un salotto di una gran casata milanese, osservava alle pareti i ritratti degli antenati in pompose divise ed in sfarzosi abiti: in un angolo della sala, un piccolo busto del Grossi. Gli uscirono spontanei questi versi che sussurrò all’orecchio dell’amico:
“El pover merit che l’è minga don
Te me l’han costringiu lì in d’on canton”
(Il povero merito che non è un nobile, te l’hanno relegato in un angolo).
I due versi sono presenti nella “Prineide” del Grossi al quale l’amico li aveva riferiti.
Tanto Manzoni quanto Grossi non si illudevano neppure di essere popolari. Durante una passeggiata essi furono colti da un violento acquazzone e ripararono in un caffè assai affollato: il temporale non accennava a cessare e allora don Lisander rivolgendosi all’amico “Come siamo famosi, eh! Nessuno che ci offra un ombrello”.
Malgrado ciò il suo spirito di tolleranza era proverbiale e si esercitava in particolare nei riguardi di coloro di cui aveva stima e, ovviamente, nei confronti degli amici dei quali accettava, conservando le proprie, opinioni differenti dalle sue. Questo suo atteggiamento fu persino interpretato come ipocrisia o olimpicità dai malevoli o da coloro che non conoscevano l’animo suo.
Un giorno, essendo terzo in una conversazione, aveva dato ragione a entrambi gli interlocutori che pure presentavano tesi diverse se non opposte: un nipotino, che era stato presente alla conversazione, gli chiese poi: “Nonno, come è possibile che abbiano ragione tutti e due?”. Al che don Lisander replicò:
“Anca tì te ghe resòn”
(Anche tu hai ragione).
Del genero Massimo d’Azeglio, marito infedele della figlia primogenita Giulietta dalla quale in seguito divorziò, ammirava l’ingegno ma riferendosi al suo “Niccolò dei Lapi” gli rimproverava il discostarsi dal toscano; ma alla fine, malgrado tutto, lo assolveva
“El g’ha la féd, ma el g’ha minga semper ona bonna condotta”
(Ha la fede, ma non sempre una condotta corretta).
Avendo Tommaso Grossi pubblicato un libro nel quale mistico e profano si mescolavano a piene mani – uno stile ben diverso da quello di don Lisander – questi, richiesto dagli amici, quelli dei giavanàd, di un giudizio, così si espresse nei riguardi dell’Autore al quale era legato da sincera amicizia e stima:
“è inutile, quel omm lì el gh’a semper on pee in sagrestia e l’alter in casin” (Quell’uomo ha sempre un piede in sacrestia e l’altro in casino).
Del poeta Giuseppe Giusti, che aveva conosciuto a Firenze e che poi aveva ospitato a Brusuglio nell’estate del ’45, diceva che aveva “molto ingegno e poca lettura”, ma aggiungeva subito dopo “El gh’a el goss del rossignoeu” (Ha l’ugola dell’usignolo).
A questo giudizio l’aveva forse spinto la lettura della poesia del Giusti “La fiducia in Dio” (1837) che chiude con i versi:
“Signor, fidando a tuo paterno senno
L’anima mia ricorre, e si riposa
In un affetto che non è terreno”.
E questo suonava come musica all’orecchio ed al cuore di don Lisander, che della Provvidenza fu il Vate.
La sua tollerante bontà si esplicitava anche nei riguardi di chi ne disconosceva l’opera letteraria o addirittura, come Luigi Settembrini, lo criticava con una certa acrimonia. Lo scrittore napoletano era stato, come è noto, vittima delle persecuzioni borboniche, e perciò Manzoni di lui diceva “Vun che l’è staa ai pè de la forca el gh’a el diritto de dì quel ch’el voeur” (uno che è stato ai piedi del patibolo ha il diritto di dire quello che vuole).
Sapeva però essere abrasivo con coloro che si permettevano con lui, già celebre, delle sfacciataggini, per potersi poi vantare di essere stati da lui ricevuti.
Ad un giovane che con impudenza gli chiedeva: “Godete voi di veder divulgata la vostra fama? Vi rinuncereste?” rispose con due sole parole “Vanitas vanitatum” mettendolo così garbatamente a tacere.
Lo scrittore Giovanni Rossini, autore de “La Monaca di Monza”, uomo di straordinaria vanità, andava dicendo del Manzoni “Il povero Sandro non mi sa perdonare di aver ammazzato con La Monaca I Promessi Sposi”. Di passaggio a Milano si recò a casa Manzoni, chiedendo di essere ricevuto da don Lisander. “Dite a don Alessandro che l’autore della Monaca di Monza desidera vederlo”. Al che Manzoni ordinò al domestico “Dite all’autore della Monaca di Monza che don Alessandro prega l’autore di manifestargli il suo nome perché non lo conosce”.
Gli importuni non mancavano di certo. Una volta pregò l’abate Pozzone: “Lei mi ha presentato il conte ***... Lei me ne deve liberare”. Un giovane e cattivo poeta desiderava parlargli, avendogli in precedenza fatto avere una copia dei suoi versi: Manzoni rifiutò. Quegli insisteva, facendo riferimento al proprio libro. Rispose il Manzoni attraverso il domestico: “Appunto per questo non voglio riceverlo”.
Aveva anche lui il suo caratterino, ma sapeva spesso con arguzia ritornare di buon umore.
Gli fu proibito un giorno di uscire per andare a Messa a causa del cattivo tempo. Ad un amico che diceva avessero ragione ad insistere, don Alessandro ribatteva “Se dovessi riscuotere centomila lire nessuno farebbe obbiezione”.
Dalla politica, dopo i fatti del ’48, si tenne a distanza, ma è innegabile che in quell’occasione fu capace di gesti coraggiosi e coerenti.
A chi gli ricordava il ruolo svolto da Pio IX a favore della rivoluzione italiana, annuiva ma subito dopo, con arguzia precisava: “Si, è vero, Pio IX nel 1848 benedisse l’Italia, ma poi, ma poi... l’ha mandata a farsi benedire”.
Nominato Senatore del Regno, poco poteva partecipare alle sedute del Senato, e scusandosene per lettera con il Presidente, gli scriveva che sperava le sue scuse sarebbero state tenute per buone “essendo appoggiate a ottantaquattro ragioni”, che tanti erano allora i suoi anni.
Del resto a ottant’anni si era recato a Torino per votare il trasferimento della Capitale a Firenze. Ebbe a dire in quell’occasione: “Ho tanto bramato l’Unità d’Italia che le sacrificai il brutto verso «Liberi non sarem se non siam uni»: e perciò proprio non se la sentiva di ripudiarlo...
Nell’ámbito familiare i sentimenti di Manzoni furono ondivaghi. Del nonno Cesare Beccaria ricordava una sola visita resagli, conclusasi con il regalo di due cioccolatini; del padre, pur avendolo poco frequentato, ebbe sempre un ricordo deferente e più che affettuoso, e cercò, invano, di giungere per tempo ai funerali. Alla madre, donna Giulia, lo legava un affetto quasi morboso: della prima moglie fu marito affettuosissimo, come pure padre felice. Purtroppo le figlie ebbero disavventure coniugali e di salute, ma Egli non ne risenti più che tanto.
La memoria di Enrichetta, morta il giorno di Natale del 1833, cercò di sublimare nell’omonima poesia negli “Inni sacri”, che però non riuscì a portare a compimento.
Fu particolarmente sfortunato con il figlio Piero, giocatore, scioperato e persino incarcerato, per il quale Manzoni dovette alienare molti beni onde pagarne i debiti: ebbe anche la disavventura di vederlo premorire a se stesso.
Ad un amico che cercava di consolarlo, meravigliandosi che un tale scrittore fosse stato così sfortunato disse: “Cossa te voeut, i liber se fann col coo, i fioeu cont el c...” (Cosa vuoi, i libri si fanno con la testa, i figli col c...).
Il secondo matrimonio con Teresa Stampa ved. Borri fu, se non di pura convenienza, una sistemazione di comodo, che gli permise di rifugiarsi, dopo i fatti del ’48, nella villa di Lesa.
Carlo Cattaneo, amico del Manzoni, saputa la notizia per prendersi gioco di lui disse ad un amico:
“Ma non sai cosa sta per fare Manzoni?”
“No”
“Ebbene. Che non sia stato mai molto coraggioso sapevo, ma in fondo lo credevo un patriota... un liberale... invece ...”
“Invece?”
“Attenta alla libertà della Stampa”.
L’aspetto più positivo di quel matrimonio, oltre al soggiorno a Lesa e la vicinanza con l’abate Rosmini, fu la filiale devozione di Stefano Stampa che gli fu vicino fino alla morte.
Il giorno in cui Teresa compì i quarant’anni disse al marito, con una certa malinconia: “Alessandro, ormai apro l’anta”, e Manzoni di rimando
“E mi sari la gelosia”
(Ed io chiudo la gelosia), parola che in milanese significa anche la “persiana” della finestra.
La povera Stampa era una valetudinaria, prendeva medicine in continuazione, tra le quali lo sciroppo di Opodeldoch, panacèa dell’epoca.
Essa pure premorì a Manzoni, il cui dolore non fu certo quello provato per Enrichetta. Gli restava ora la consolazione della fede, della salute in complesso buona, nonché il successo che “I Promessi Sposi” avevano avuto ed avevano, con molte edizioni anche illustrate (più di tutte amava quella con le incisioni di Gonin), e le traduzioni in varie lingue.
Soleva dire da vecchio:
“Averia mai credu che quel liber lì l’avess de piasè inscì tant. Ma se gh’è denter nagott!”
(Non avrei mai immaginato che quel libro piacesse tanto. Ma se non c’è dentro niente!).
Il Sindaco di Milano, recatosi in visita in casa Manzoni in occasione di un genetliaco dello scrittore, si rallegrava anche per il successo del capolavoro. Uscita la delegazione don Lisander, rivolgendosi a Stefano Stampa, gli disse: “Chi avrebbe detto che dalla minchioneria de I Promessi Sposi me ne sarebbe venuta tanta fama e tante dimostrazioni onorevoli. Non mi sarei mai immaginato una ‘borlanda’ (brodaglia) simile”.
La salute era poi complessivamente buona: solo lo disturbava una avversione verso la folla ed una agorafobia ereditata dal nonno Cesare Beccaria. Era, in conformità ai dettami igienici dell’epoca, un buon mangiatore: in una lettera al figlio Piero, preannunciando il ritorno a Milano, gli dava alcune istruzioni: “Raccomando le camere riscaldate e desinare lesto... un fritto un lesso un umido con qualche erba, di preferenza spinacci alla milanese”. Per poter continuare con questo tipo di dieta un bicchiere settimanale di acqua di Seidliz: allo stesso tempo si concedeva qualche fumatina in una certa sua pipetta di coccio, come ricorda il celebre neurologo Andrea Verga, medico del Grossi, che seguì Manzoni nella sua ultima malattia.
Il giorno di Natale del 1871 Manzoni ricevette dai proprietari del famoso Forno delle grucce (el prestín di scansc) uno splendido panettone con un biglietto: “Ad Alessandro Manzoni – il celebre forno delle grucce – di nuova vita ringiovanito – a grata testimonianza – il presente saggio – devotamente offre”.
Al che Manzoni ormai ottantaseienne, ma ancora buongustaio, così rispose – il biglietto fu letto da Cazzamini Mussi verso il 1919 anno in cui la panetteria (el prestín), che si trovava all’inizio di Corso Vittorio Emanuele, fu chiusa – “Al Forno delle Grucce – ricco ormai di nuova fama propria – e non bisognoso di fasti genealogici – Alessandro Manzoni – solleticato voluttuosamente – con un vario e squisito saggio nella gola e nella vanità – due passioni che crescono negli anni – presenta i più vivi e sinceri ringraziamenti”.
Per quanto riguarda “el prestín di scansc”, quello da cui Renzo aveva preso due pani, bisogna dire che questa fu una piccola “disavventura” etimologica del Manzoni. Pare infatti che il nome derivi non dalle grucce (scansc) ma dal nome della famiglia Scanzi che vicino al palazzo (sito Scanzi) aveva un proprio forno con vendita di pane, cosa in quel periodo per niente strana.
I nomi di prestín e prestinee derivano dai lemmi latini pistrinum e pistor.
Manzoni fu sempre moderato nel bere, secondo quanto ci informano sia Stoppani sia Stefano Stampa.
Egli tuttavia usava bicchieri da vino più grandi degli abituali che nell’Ottocento erano più piccoli dei nostri attuali. Ma in ogni caso se ne faceva servire al massimo due. Un giorno, sentendosi accaldato, disse di non capire più niente e in realtà aveva bevuto più dei due bicchieri abituali.
Il domestico Clemente, buon bevitore per conto suo, per non venire richiamato dal Manzoni, gli disse scherzosamente “Do tazzèt, don Lisander, do tazzèt” (Due bicchieri, don Alessandro, due bicchieri) evitando un rimprovero che di sicuro gli sarebbe arrivato.
Se non ne abusava, però del vino pretendeva di intendersene, ricordando il suo impegno di viticultore in gioventù, a Brusuglio. Dissertava perciò sui componenti chimici del vino, concludendo che esso è composto per gran parte di acqua. Al che l’amico Tosti, buon bevitore quanto don Lisander era parco, esclamò desolato: “Te me det ona gran brùtta notissia” (Mi dai una gran brutta notizia).
Anche la sua modestia era commendevole: di lui Giulini diceva “è come un signore che lasciando scorrere nella mano dei napoleoni d’oro e d’argento a un povero che gli chiede l’elemosina dica: non ho moneta”.
Se ne potrebbero raccontare a volontà, anche di più complesse. Ma è ora di concludere questi brevi Laevia manzoniani.
***
Tutti conoscono il famoso ritratto di Alessandro Manzoni eseguito dall’Hayez.
Di esso Alberto Savinio dice: “Nei Campi Elisi Manzoni siede in poltrona; nell’occhio una studiata e ostinata indifferenza di un Presidente del Consiglio conservatore che ascolta l’interpellanza di un deputato dell’estrema sinistra” (Ascolta il tuo cuore Città. Milano, Bompiani, 1944). Giudizio per certo assai vicino a quello che era l’animo di don Lisander, anche se preferiamo parteggiare per l’espressione del filosofo Giovanni Reale che definisce I Promessi Sposi, e quindi Manzoni, “un possesso di sempre”. E tale ci piace intenderlo anche attraverso questi suoi motti di spirito nei quali egli si riflette, ricchi sempre di umanità, di saggezza, e di finezza morale prima ancora che formale.
DADASCALIE IMMAGINI
Alessandro Manzoni (disegno)
Giuseppe Bossi (Busto Arsizio, 1777 – Milano, 1815)
Busto Arsizio, Collezione Milani
Ritratto di Alessandro Manzoni a 56 anni (1841)
Francesco Hayez (Venezia, 1791 – Milano, 1882)
Milano, Pinacoteca di Brera
Niccolò Tommaseo (Sibenik, Dalmazia, 1802- Firenze 1874)
La Corsia dei Servi (Milano, 1836)
Giuseppe Canella (Verona, 1788 - Firenze, 1847)
Tommaso Grossi (Bellano, 1790 – Milano, 1853)
Ermes Visconti (Milano, 1784 – Crema, 1841)
Ritratto di Giulia Beccaria col figlio Alessandro a sei anni
Andrea Appiani (Milano, 1754 -1817)
Milano, Centro Nazionale Studi Manzoniani
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