Anno 1 - N. 2 / 2002
ELOGIO DEL VIAGGIO IN TRENO
Il viaggio in treno, che veniva accuratamente preparato per gli aspetti geografici e culturali, era anche un’occasione unica per stare tutti insieme….
di Giulio Cesare Maggi
Piazza d'Italia
I nostri viaggi sono oggi assai più frequenti ed importanti, spesso da continente a continente, rispetto a quanto avveniva una volta e cioè nella mia ormai lontana infanzia.
Oggi ci si sposta (o ci si spostava?) soprattutto in aereo, anche per viaggi non particolarmente lunghi, viaggi che chiamerei, a dir poco, dimezzati, non soltanto nella durata, quanto piuttosto nell’interesse: ci vengono così a mancare tutte quelle fasi di preparazione, di osservazione e di meditazione che il viaggio, un tempo, ci consentiva in termini di godibilità. Quella fase cioè che intercorre – meglio intercorreva – tra la progettazione, il viaggio stesso e l’arrivo nel sito prescelto.
Ricordo che da ragazzo (ora sono un viaggiatore vecchio) i viaggi della famiglia, non solo in Italia, ma anche in Europa si facevano tutti in treno: il viaggio in nave era riservato ai Paesi del bacino Mediterraneo o alle Ame- riche.
Il viaggio in treno, che veniva accuratamente preparato per gli aspetti geografici e culturali, era anche un’occasione unica per stare tutti insieme uno-due giorni, di godere la famiglia e, insieme alla famiglia, le meraviglie del viaggio stesso, i vaghi timori del non ancora noto, il contatto con compagni di viaggio compiti e riservati, ma al contempo cordiali: piccoli cenni, sorrisi lievi, qualche piccolo inchino alle Signore, quasi una complicità non esplicitata ma percepita come tale.
Era come una sorta di tempo libero che si sovrapponeva all’impegno del viaggio, che consentiva di osservare il paesaggio, le coltivazioni, il mare tanto sognato, le città studiate sui libri ma non ancora viste. Non esisteva la televisione e anche la radio, l’EIAR, era agli inizi della sua attività: parliamo degli anni trenta. Cercavamo con i ricordi scolastici e delle letture – quanto intense in quegl’anni - mia sorella ed io, di ammobiliare, quasi con smania, la testa di nozioni, di sensazioni, di belle cose vagamente immaginate ed ora sotto gli occhi.
Utilizzavamo le Guide del Touring Club Italiano (in quegl’anni non ancora ribattezzato Consociazione Turistica Italiana) che per i viaggi erano la nostra Bibbia. Ma dal nonno, viaggiatore da Grand Tour dell’ex Impero asburgico, della Russia e del resto dell’Europa – ovviamente sempre in treno – cercavamo di tutto apprendere, di tutto memorizzare. Ma il nonno – ahimé noi – ci leggeva il Baedeker in ungherese (causa di nostre fragorose risate): egli si rassegnava e chiudeva sconsolato la sua amata e ormai un po’ logora guida.
Avrei poi da lui appreso molti concetti sulla grecità del no- stro meridione, poi ritrovati nell’opera di Burckhardt e, consonanti a questi, altri saggi insegnamenti, che avrei in seguito trovati nei libri di Claudio Magris ed in Enzo Bettiza, dello spleen mitteleuropeo che facevano di noi goriziani già allora, e quanto in proseguo, dei no- stalgici di un certo modo di vivere e sentire.
Mentre il treno correva lungo la costa adriatica, la mamma andava ricordandoci (biso- gnerà mandare una cartolina postale!) la tata slovena Kaška, garbatamente allontanata da casa per una certa sua propensione al Rebula (che squisito!) e ad alcune grappe all’anice, il cui profumo ritrovai poi in Turchia ed in Grecia, sotto forma di raki e, rispettivamente, di mistrà (quello della fiaschetta del prode Anselmo).
Mais revenons à nos moutons.
Un addio al treno, per ben cinque anni, dovetti dirlo all’imbarco a Brindisi per l’amatissima – ma allora quasi misteriosa per me – isola di Rodi, in quel periodo possedimento italiano, ove treni non erano.
Il viaggio di arrivo all’imbarco si fece in treno e resta uno dei miei ricordi più vivi di fanciullo: e fu ricco di felici emozioni. Viaggio lungo non più di quanto duri oggi, ci consentì di costeggiare gran parte della costa adriatica. Austeri e gentili signori, con un berretto assai simile a quello che sui libri ci mostrava il Re soldato alla fronte (come ancora si diceva), ogni tanto chiedevano i biglietti di viaggio che venivano esibiti con altrettanta cortesia. Eravamo a giugno e costeggiare il mare era un vero incanto: “il tremolar della marina”, i rari bagnanti su spiagge allora sì incontami- nate, qualche barca a mare, i trabucchi pronti a ricevere il pescato nelle loro ampie reti quadrate. E poi il tramonto …
Tutto questo faceva dimenticare il pulviscolo carbonioso che aderiva ai nostri abiti alla marinara e che qualche volta penetrava negli occhi (Ragazzi, appena in albergo subito la doccia!). Si aggiungeva ogni tanto il fumo azzurrognolo di qualche sigaretta leggera, le Khedivé, con il turco dal fez rosso sulla scatola verde: speravamo che fosse l’ultima della scatola per poterla chiedere alla gentile fumatrice e poterne a lungo aspirare il profumo squisito e un poco inebriante. (Ragazzi, non incomodate la Signora. Scusi, sa…) Noi sorridevamo, ammiccanti, sapevamo che la bisnonna si ritirava nel giardino della villa a fumare il Virginia: quella bisnonna che morì a 101 anni, per aver mangiato, dopo Teatro, aragosta in scatola, forse per un’infezione da bo- tulino, penso oggi.
Le belle terre di Puglia ricche di verdure e frutti, già ci annunciavano l’arrivo. Siamo a Brindisi, un piccolo anticipo dell’Oriente che ci aspetta: ecco scritte greche che il nonno ci traduce, in realtà solo liste di vivande dei ristoranti. Ma tant’è! Per noi la prima meraviglia.
E poi l’imbarco, il viaggio, il passaggio del canale di Corinto; qui salutiamo il treno che in alto lo attraversa congiungendo Peloponneso ed Attica: chissà che meravi-glia vedere il canale dall’alto e in movimento!
Non starò certo a descrivere tutti i viaggi per treno degli anni che vanno dal 1935 al 1942, in seguito e fino ad oggi molte volte replicati, in Italia ed all’estero.
Il passaggio dalla locomotiva a carbone (talora a legna in tempo di guerra) alle locomotrici elettriche e a gasolio, le mitiche littorine, ci liberò dall’incubo della polvere di carbone, consentendo di vedere più e meglio da finestrini ora quasi panoramici: la campagna toscana così schietta ed elegante, l’agro romano con le arcate degli acquedotti che rievocavano i quadri di Corot e le incisioni di Piranesi, l’arrivo a Roma, la Campania felix, la costa ca- labra, lo Stretto. Qui giunti si potevano gustare gli arancini di riso, squisiti per ripieni di piselli ed altre delizie.
Ma non solo dell’Italia sono vivi i ricordi; i viaggi a Parigi, attraverso le pianure di Francia (non ancora i TGV, forse troppo rapidi), i treni che da Dover a Victoria Station consentivano il primo approccio con la vita e lo stile degl’inglesi (poltrone comode, il tè delle five o’ clock). E ancora, andando a Bruxelles, ove lavoravo come fisiologo, la Valle del Reno con i suoi altiforni (erano il simbolo della C.E.C.A. appena nata), i viaggi nella Germania che iniziava la sua ricostruzione. Le stazioni tedesche, oggi considerate il santuario dello Jugendstyl, si possono tutte visitare ed ammirare con un tour dedicato, veramente interessante. In eleganti wagon-restaurant, attenti camerieri servono piatti spesso deliziosi con vini del paese fino a bottiglie con etichette complesse e prestigiose (e non esattamente economiche).
Che dire del viaggio dall’allora Leningrado a Mosca, con arrivo alla stazione dove nel ’17 scese l’uomo che avrebbe modificato le sorti del mondo per almeno tre quarti di secolo: ottimo caviale, pane e burro, vodka al peperoncino rosso allietavano il viaggio; si era serviti con posateria d’argento con le insegne imperiali su immacolata fiandra.
E ancora i treni americani che già avevano impressionato Emilio Cecchi, che li ricorda in “America amara”: chi non ricorda all’arrivo una dozzina di ostriche del Maine all’Oyster Bar della Grand Central Station di New York ?
E infine il viaggio – questa volta sì rapido come quello in aereo – sul Bullet Train da Tokyo a Osaka: finestrini così ampi da rendere la parete una vera e propria vetrata, sedili rotanti di novanta gradi per poter ammirare appieno il paesaggio, il Fujiyama eccezionalmente libero dal suo cappello di nubi (quando tutta Tokyo è sui tetti per fotografare il suo vulcano). Il treno procede, silenzioso e velocissimo, attraverso paesaggi di sogno, sostando un minuto a Yokohama. Fanciulle in kimono vendono per pochi yen scatole elegantissime contenenti orribile riso lesso, freddo e compatto come il pack.
Ho molto viaggiato, molto in aereo, ma il ricordo dei viaggi in treno fa parte della mia memoria permanente, al contrario dei sempre standardizzati e anonimi viaggi aerei.
Vorrei qui arrestarmi: so di essere un chiacchierone (nonché un goloso); spero tuttavia che dal vissuto perso- nale, che forse troppo è presente in queste righe, possa scaturire per alcuni, specialmente giovani, il desiderio di ben articolati viaggi in treno, alla ricerca di un mondo che molto fa (se non tutto) per cancellare le proprie immagini di bellezza sia naturale sia costruita.
Credo che coltivare una “filosofia” del viaggio in treno possa costituire per noi una via al bene e lietamente vivere, arricchendo le proprie conoscenze e costruendo in modo migliore il patrimonio della memoria, la miglior compagnia di tutte le età dell’uomo.
E allora, Signore e Signori, in carrozza!
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