Anno 7 - N. 21/ 2008


Quando un dipinto diventa un chiaro manifesto politico e religioso

LA GRANDE CROCIFISSIONE DI SIBIU

Un'opera straordinaria per dimensioni, ricchezza compositiva, originalità e bellezza

di M. Giuseppina Malfatti Angelantoni




Sibiu è il capoluogo della Transilvania, una bella regione che dal 1918 fa parte della Romania dopo essere appartenuta all'Impero austro-ungarico.
Questo territorio è ricco di alte cime coperte di boschi, ampi pascoli e vallate, ingiustamente connotato con l'atmosfera gotica dei Vampiri. La città è nota agli studiosi d'arte per la famosa tavoletta di Antonello da Messina, chiamata " La Crocifissione di Sibiu" che faceva parte delle collezioni di un nobile del luogo, il barone von Brukenthal, plenipotenziario di Maria Teresa. Questo prezioso dipinto in tempi recenti, dopo varie vicende anche di natura politica, è ritornato a Sibiu nel Museo cittadino. Ma in questa città c'è un'altra "Crocifissione", si tratta di una grande pittura murale all'interno di una chiesa gotica, ora parrocchiale evangelica, un'opera straordinaria per dimensioni, ricchezza compositiva, originalità e bellezza; questo dipinto, restaurato già nel XVII secolo, è firmato e datato: Johannes von Rosenau, 1445. Al di là di questa informazione importantissima, non esiste, allo stato attuale delle conoscenze, alcuno studio né valutazione critica che lo riguardi. Il primo passo da fare, per arrivare a comprendere il significato e il messaggio del dipinto, per poterne dare anche una valutazione critico-estetica, è la lettura dello stesso nel suo insieme e nei dettagli. Sarà poi necessario "leggere" l'opera sullo sfondo degli eventi storici e della cultura del momento in cui venne realizzata. Si dovrà procedere cioè secondo il metodo iconologico proposto e teorizzato dal filosofo e critico d'arte tedesco Erwin Panofsky, col quale si sono potuti svelare molti enigmi rappresentati da quadri famosi e velati di mistero.
La grande "Crocifissione" si trova sulla parete nord della profonda abside, ben inserita, con un'architettura gotica a trompe-l'oeil, nello spazio fra due piloni e lo spicchio della volta soprastante. È di grandi dimensioni (m 9,48 x 5,06) ed è difficile dire, in mancanza di analisi certe, se si tratti di affresco o di pittura murale, a secco.
Su uno sfondo di cielo stellato, uniforme, si staglia la Croce con un Cristo dal volto dolente e rassegnato e dal corpo, dal punto di vista anatomico, simile a quello delle coeve "pietà" tedesche. Dal capo, per la corona di spine, dalle mani e dai piedi per i chiodi e dal costato per il colpo di lancia, esce sangue a fiotti. Sopra il "patibulum" si evidenzia il cartiglio con la scritta "I.N.R.I.". Ai piedi della croce la Maddalena e San Giovanni, entrambi ammantati in vesti regali, esprimono con la forte gestualità delle sacre rappresentazioni medioevali, tutto il loro dolore e la loro disperazione. Alla destra di Cristo, sulla croce, il Buon Ladrone attende con espressione rassegnata il momento supremo, alla sinistra quello Cattivo si contorce in modo spasmodico, esibendo un'anatomia e un dinamismo da antica statua classica.
I personaggi che assistono alla morte di Cristo sono disposti su due fasce, senza prospettiva, simili, nell'andamento delle masse e nella ricca cromia, ai bassorilievi delle cattedrali gotiche. Nella prima fascia, a sinistra, c'è il gruppo delle Pie Donne che sorreggono la Vergine affranta e, dietro, i contadini dagli strani copricapi di paglia. Di spalle, un villano porge a Cristo la spugna imbevuta d'aceto. Sulla destra si impongono invece alti prelati e personaggi eminenti in ricche vesti moderne.
Nella seconda fascia i personaggi sono a cavallo, alcuni di questi cavalli sembrano avere le froge tagliate alla maniera russa (come si vede nelle opere del Pisanello); tra i personaggi sulla sinistra, ne appare uno, inquietante, un vecchio dalla barba e dai capelli bianchi, con un copricapo molto particolare, rivestito di corazza e con la spada sul fianco che, con la lancia, perfora il costato di Cristo, aiutato da un manigoldo di spalle.
I personaggi alla destra del riguardante sono elegantemente vestiti secondo la moda ungherese del tempo, con manti di velluto e berretti ornati di piume.
Tutta la scena si svolge in un clima di forte pathos, sulla base del testo evangelico secondo San Giovanni.
La scena centrale della Crocifissione è sormontata da una cimasa, a trompe-l'oeil, simile ad un trittico: al centro vi è l'Ascensione, a sinistra la Natività e a destra il Battesimo di Cristo. La scena centrale è evidente riferimento alla pittura fiamminga, in particolare a quella di Van Eyck, le due scene laterali invece, ad un esame in verità a troppa distanza, dal punto di vista stilistico sembrerebbero di età successiva al resto del dipinto.
Sopra la cimasa, sullo sfondo del cielo stellato, è rappresentato il simbolo dello Spirito Santo, una colomba in un sole dai fitti raggi dorati, con al centro la scritta "Jhavè" in caratteri ebraici.
Nella cornice che divide la cimasa dalla scena centrale della Crocifissione vi sono oculi e stemmi dai chiari riferimenti ai personaggi che compaiono nel dipinto. Domina l'Aquila in posizione eretta, simbolo araldico degli Imperatori della Casa del Lussemburgo.
Nelle fasce laterali che delimitano la scena vi sono: a sinistra, sotto un'edicola gotica un "Ecce Homo", al di sotto del quale è scritto "Humilitas", quindi uno stemma a fasce rosse e bianche alternate che, indubbiamente si riferisce al personaggio sottostante, una figura statuaria di anziano con tutti i simboli della potestà imperiale, la corona del Sacro Romano Impero, uno scettro imponente e il Globo.
A destra, in simmetria, sotto un'identica edicola gotica, vi è una figura allegorica femminile dalla cui bocca esce una spada. Al di sotto la scritta "Gloria", quindi uno stemma con grandi fasce, una bianca e due rosse che anche qui si riferiscono al personaggio sottostante dalle connotazioni regali, con una corona sul capo, una pesante ascia in mano come scettro e un ricco mantello sulla corazza.
Alla base del dipinto c'è un basamento, sempre a trompe-l'oeil, con al centro un Cristo in Pietà, rappresentato come dietro le grate di un carcere, e due personaggi inginocchiati, probabilmente i Committenti. Dalle vesti denunciano la loro appartenenza ad un ceto elevato, forse non sono nobili poiché non compaiono stemmi, ma l'abito foderato di delicata pelliccia depone per il loro alto censo. La diversità di abbigliamento, un abito dalle ampie maniche e dalla ricca cintura per il personaggio a sinistra, una morbida tunica diaconale per quello di destra, ci indicano che si tratta di un laico e di un canonico, probabilmente fra loro parenti.
Tra le figure della fascia di base vi sono due finestrelle quadrilobate, frequenti come decorazione su sarcofagi quattrocenteschi; non è da escludere che alla base di questo grande dipinto vi fosse una sepoltura.
Questa prima lettura permette di affrontare il dipinto da un punto di vista teologico e religioso, indagandone il programma iconografico. L'opera ha in sé un messaggio salvifico, escatologico: Cristo, la cui immagine sofferente è riproposta tre volte, si è incarnato ed ha patito sulla Croce per redimere ciascuno di noi. Intorno alla Croce c'è tutta l'umanità, i buoni e i cattivi, e tutti saranno salvati dalla fede e dall'abbandono in Lui, con l'ausilio della Vergine e dei Santi. Sul mistero della venuta di Cristo sulla Terra, sulla Sua Incarnazione, la Sua sofferenza umana e la salita ultima al Padre, vigila, dominando su tutto, lo Spirito Santo.
Il fascino e l'attrazione che questo dipinto esercita su chi lo guarda, derivano dalla possibilità di riconoscervi personaggi molto importanti del tempo, protagonisti della storia europea. È allora necessario considerare il momento storico nel quale venne eseguito, il luogo di realizzazione e l'autore. L'anno di esecuzione è il 1445; nel mese di novembre del 1444 era stata combattuta a Varna, sul Mar Nero, una battaglia disperata fra i principi cristiani di Polonia, Ungheria, Serbia e altri staterelli balcanici contro i Turchi, soverchianti per numero. La battaglia di Varna era stata una disfatta per i Cristiani e viene considerata come l'ultima Crociata, voluta da un Papa, Eugenio IV, nel tentativo estremo di fermare l'avanzata turca in Europa. In questa battaglia erano morti lo stesso re di Polonia e Ungheria, Ladislao III Jagellone, e il legato papale, il cardinale Giuliano Cesarini.
Con la sconfitta di Varna, che ebbe un'eco devastante nel mondo cristiano, la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi si fece ancor più vicina.
Il luogo nel quale fu eseguito il dipinto, Sibiu, era al tempo una città di fondazione e cultura tedesca, chiamata Hermannstadt, da un leggendario protagonista della sua storia medioevale. Faceva parte, con la Transilvania, del regno d'Ungheria, di cui era stato sovrano dal 1387, Sigismondo del Lussemburgo, sostituito dal 1440 dal re polacco Ladislao III Jagellone.
Governatore di Hermannstadt era il principe, il voivoda, Giovanni Hunyadi - conosciuto dai rumeni come Jancu de Hunedoara - padre del futuro re ungherese, il grande Mattia Corvino, sincero ammiratore dell'Umanesimo italiano.
I personaggi storici, identificabili, che compaiono in questo dipinto, furono certamente coinvolti nella Crociata di Varna, ma il pittore, o meglio il Committente, volle attualizzare il sacrificio di Cristo mettendolo al centro non tanto della grande tragedia del momento, cioè l'avanzata dei turchi Ottomani, quanto del contrasto profondo che divideva, sul piano religioso e politico, il mondo bizantino ortodosso da quello occidentale latino. Questa denuncia è racchiusa nell'incredibile, sorprendente immissione nell'opera di una figura inconfondibile, dalle caratteristiche fisionomiche e di abbigliamento ben note attraverso la medaglistica e la pittura del '400: il Basileus Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore di Bisanzio, rappresentato a cavallo, nell'atto di infiggere la lancia nel costato di Cristo. Un'accusa contro il Basileus: questo è il messaggio inatteso e il manifesto politico che vengono fuori da quest' opera a soggetto religioso. Egli viene forse accusato di non essere riuscito a riunificare le Chiese d'Oriente e d'Occidente, malgrado i molti tentativi fatti dai Papi, in particolare nel Concilio di Ferrara - Firenze, degli anni 1438 e 1439. In verità Giovanni VIII aveva accettato tutte le condizioni poste dai Latini per la riunificazione delle Chiese, teoricamente avvenuta, pur di ottenere il loro aiuto contro i Turchi, il fallimento successivo non era stato colpa sua. Forse lo si accusava anche di non aver dato supporto alla campagna di Varna e di essersi congratulato col sultano Murad II, del quale era vassallo, per la sua vittoria. Per chi viveva sotto il continuo pericolo dell'invasione turca, le colpe di Giovanni VIII Paleologo dovevano apparire imperdonabili.
A questo Basileus perdente noi però dobbiamo riconoscere il grande merito di aver passato all'Italia, e a Firenze in particolare, il testimone della raffinata cultura greca dalla quale nacquero il nostro Umanesimo e Rinascimento. Fu grazie ai grandi pensatori, filologi e teologi della sua corte, che viaggiavano con lui nelle missioni in Europa in cerca di aiuti per salvare ciò che restava del vasto e antichissimo impero bizantino, che arrivarono in Occidente rari e preziosi codici antichi, con i quali tornò da noi la parola degli antichi filosofi. Fu grazie ai suoi dignitari ammantati in preziose e colorate vesti di seta, dai copricapi esotici e voluminosi, che sfilavano in corteo nelle città italiane, che nacquero un nuovo gusto e nuovi modelli in pittura.
Giovanni VIII venne ritratto dal Pisanello, suo ritrattista ufficiale, fin dalla prima missione in età giovanile nel 1422, ne restano a testimonianza disegni, dipinti e una famosissima medaglia dove il suo profilo regale, con i lunghi ricci inanellati, è esaltato dal copricapo inconfondibile, lo "skiadon" (o skiadion) dall'alta cupoletta e dalla lunga falda davanti che gli vediamo anche nel nostro dipinto. Con lo stesso abbigliamento e copricapo venne rappresentato anni dopo da Piero della Francesca, nella ancora indecifrabile tavoletta che conosciamo con la denominazione di "Flagellazione d'Urbino".
Altro personaggio, facilmente riconoscibile nel nostro dipinto, è quello in basso a sinistra: l'imperatore del Sacro Romano Impero Sigismondo del Lussemburgo che sembra osservare, con espressione severa, lo svolgimento della scena sacra. Sigismondo era figlio dell'imperatore Carlo IV del Lussemburgo, fratello dell'imperatore Venceslao al quale succedette quando costui, per il ducato concesso a Giangaleazzo Visconti, venne esautorato dai grandi Elettori. Egli è chiaramente individuabile per i simboli imperiali che reca e per la possente aquila araldica sulla cornice che lo sovrasta. È riconoscibile anche per la somiglianza con altri suoi ritratti noti, primo fra tutti quello nel "Banchetto di Erode", a Castiglione Olona, di Masolino da Panicale che lo ritrae insieme ad altri personaggi importanti della sua corte, da Giovanni Hunyadi, a Pippo Spano, al cardinale milanese Branda Castiglioni. Sigismondo era morto nel 1437 e aveva lasciato il trono imperiale ad Alberto, che fu il primo degli imperatori di Casa Asburgo. Egli era stato, oltre che un politico attento e instancabile nel cercare di risolvere le controversie nel mondo occidentale e nella chiesa di Roma, partecipando anche ai grandi concilii di Costanza e di Basilea, uomo di grande cultura e di forte impegno civile. Unica sua grande colpa, della quale sempre si mostrò pentito, fu l'aver permesso l'esecuzione della condanna al rogo di Jan Hus, riformista protestante boemo.
La figura forte, statuaria, posta in basso a destra, in simmetria con l'imperatore Sigismondo, può verosimilmente essere identificata con Ladislao III Jagellone, re di Polonia e, dal 1440, reggente e poi re d'Ungheria, uno dei protagonisti delle campagne contro i Turchi nei Balcani, eroe della battaglia di Varna, nella quale morì. Il suo corpo non venne mai ritrovato, forse, decapitato, era stato portato come trofeo nel campo turco. La sua elezione a re d'Ungheria gli aveva scatenato contro parte della nobiltà di questo Paese, malgrado l'appoggio del potente Giovanni Hunyadi. In suo aiuto era sempre intervenuto il papa Eugenio IV, tramite la longa manus del cardinale Branda Castiglioni, per permettere al Re e condottiero polacco di combattere contro i Turchi. La sua immagine, sopra la quale è, in alto, la figura allegorica con la scritta "Gloria", è qui come monumento al suo coraggio e al suo sacrificio.
Tanti altri personaggi potrebbero essere riconosciuti nei gruppi di astanti intorno alla Croce, identificabili sulla base della ritrattistica di illustri personaggi del tempo, fra questi, nel primo piano, è riconoscibile il papa Eugenio IV, per la tiara e il manto e, fra i personaggi vestiti all'ungherese a cavallo, nel personaggio barbuto vicino alla Croce, potrebbe essere riconosciuto l'eroe Giovanni Hunyadi.
Il grande dipinto è firmato, Johannes von Rosenau, un pittore bavarese itinerante, un artista che probabilmente al seguito di potentati tedeschi si muoveva nelle terre dell'Impero fra l' Italia del Nord e i Paesi dell'Est europeo, confinanti con i territori ormai occupati dai Turchi. La sua pittura appartiene allo stile tardo gotico, o gotico internazionale, e dimostra una conoscenza non superficiale della pittura fiamminga di Van Eyck e di Rogier Van der Weyden, come della pittura ad affresco delle chiese dell'entroterra veneto. Negli affreschi con le" Storie di San Luca" nella cappella omonima in Santa Giustina a Padova, degli anni 1436 - 1441, potremmo intravedere, sia per stile che per tipologia descrittiva, un precedente per i personaggi della grande "Crocifissione", in particolare per il canuto Basileus.
Von Rosenau (attivo alla metà del XV secolo) sembra anche aver avuto frequentazione con le ricche raccolte antiquarie del territorio. In questo pittore c'è naturalmente affinità con la grande cultura artistica tedesca contemporanea, ricca di pathos, espressionistica, sottolineata dai forti contrasti dei colori complementari. In lui è molto accentuata la peculiarità dei "caratteri morelliani" - o caratteristiche ricorrenti - evidenti soprattutto nei lunghi nasi sottili. Questo elemento potrebbe facilitare, in caso di ricerca, il riconoscimento di altre sue opere.
A poco a poco il nostro grande dipinto, avvicinato con stupore e con molti interrogativi da parte del riguardante, indagato con curiosità e amore di verità da parte dello studioso, ha infine lasciato trapelare un po' della storia gloriosa, o drammatica, degli "eroi" per i quali era stato voluto ed eseguito.