Anno 1 - N. 2 / 2002


SINUHE

Un classico della letteratura egiziana

di Vittorio Sabbadini



Cucchiaio per unguenti legno bosso - XVIII dinastia - Parigi, Museo del Louvre


La letteratura dell’Antico Egitto è rimasta per quasi due millenni completamente sepolta al di sotto della spessa coltre dell’oblio che ha avvolto la conoscenza della scrittura geroglifica.
È solo con la decifrazione avviata da Jean-Francois Champollion (1822), proseguita con gli studi sistematici di R. Lepsius, di H. Brugsch, di E. de Rougè e poi di G. Maspero, di A. Erman, di F. Griffith, di K. Sethe, di E. A. Wallis-Budge e di A. Gardiner che, segno dopo segno (si dovrebbe dire glifo dopo glifo), sono stati svelati attraverso successive comparazioni lessicali e grammaticali con una lingua nota, il copto, la natura e il funzionamento dell’impianto linguistico dell’antico egizio.
Risultato rilevante di questa grande conquista per la scienza è stata la sorprendente scoperta dell’eccezionale ricchezza dei giacimenti letterari che sono rappresentati da numerosissimi manoscritti su papiri e da iscrizioni su steli, pareti di edifici e tombe e su ostraka e che, riaffiorati in epoche diverse ed anche precedenti la stessa decifrazione della lingua, hanno, a loro volta, finalmente rivelato la complessa articolazione della letteratura egiziana, l’elevatissimo spessore dei suoi contenuti e la vastità della sua struttura tipologica.
Così, intendendo per letteratura, nel senso più ampio, l’uso della parola scritta fatto con pregio estetico, i generi di quella egiziana spaziano da quelli religiosi a quelli profani, da quelli epici a quelli lirici, da quelli profetici a quelli mitologici, da quelli funerari a quelli magici, da quelli sapienziali a quelli medici, matematici e astronomici.
E, ancora, da quelli storici a quelli biografici (e autobiografici) e narrativi di avventura. Questi ultimi appaiono come dotati di singolari accenti di una sorta di precocissima “modernità”.
Gli studiosi della letteratura egiziana la classificano secondo i suoi caratteri epocali. L’Antico Regno (2700-2195 a.C.) avvia alcuni generi che traggono origine dal primo utilizzo su vasta scala della scrittura e cioè dall’annotazione ammini-strativa e quindi dai registri contenenti nomi, titoli e prosopografia. Da qui la nascita del genere lette- rario che riguarda le autobiografie (quelle di Uni e di Herkhuf, per esempio) addirittura anticipatorio rispetto ad altri, destinato a far conoscere a contemporanei e po- steri vite esemplari per modello morale, ma anche per successo personale.
All’Antico Regno vanno fatte risalire le istruzioni sapienziali, notissime guide di saggezza e di comportamento (l’Insegnamento di Ptahotep) e, in forme poetiche, i più imponenti testi religiosi e funerari giunti sino a noi in edizione originale, scritti sulle pareti della piramide di Unas (2380-2350 a.C.) e cioè i Testi delle Piramidi. Essi contengono migliaia di formule, nelle quali alla parola è conferito un particolare effetto magico, che sorreggono il Faraone defunto dal momento della sua morte fisica sino alla sua resurrezione, attraverso le peripezie di un complicato itinerario nell’Oltretomba.
Nel Medio Regno, che, con il cosiddetto Primo Periodo Intermedio, rappresenta un’epoca che si situa tra il 2195 e il 1797 a.C. ed è aperta da turbolenze centrifughe e chiusa dall’invasione degli Hyksos, la qualità letteraria raggiunge il suo livello più alto.
Le opere saranno copiate e ricopiate e studiate per secoli nelle scuole. Si ripetono i generi del tipo insegnamenti morali che, a causa dei ripetuti torbidi sociali, si colorano di pessimismo come “”Le Lamentazioni di Ipu-Ur”, “L’insegnamento di Merikara” e “Le Profezie di Neferti”.
Trova solida prosecuzione la ricchissima vena religiosa e funeraria con i Testi dei Sarcofagi e con il Libro dei Morti, che costitui- scono la concreta testimonianza della progressiva democratizzazione dell’oltretomba antico-egizio: dalle prescrizioni di viaggio per il solo Faraone si passa alla più diffusa ritualistica che il comune, o quasi comune, mortale può portare con sé nella tomba, scritta sulle pareti del sarcofago o in un rotolo di papiro.
Ma il genere letterario che si impone per novità di stile e di contenuto è quello narrativo, in qualche modo evoluzione delle auto- biografie già sperimentate nell’Antico Regno.
La sua fortuna coincide con il massimo splendore delle dinastie XIa e XIIa che hanno segnato per l’Egitto un’epoca di ripresa economica e politica.
Questo genere non troverà successive si- gnificative affermazioni nel Nuovo Regno (1543-1078 a.C.) che sarà un periodo racchiuso tra guerre (“Annali di Thutmosis IIIo” e “Poema epico della battaglia di Kadesh”) e ri -volgimenti religiosi (“Inno ad Aton”).
Le opere narrative di maggior rilievo sono “Le Avventure di Sinuhe”, “L’Oasita Eloquente”, “Il Racconto del Naufrago” e i racconti del Papiro Westcar.
Tra queste, “Le Avventure di Sinuhe” costituisce il testo più noto e meglio analizzato di tutta la letteratura egiziana.
Esso è giunto sino a noi attraverso un consistente numero di manoscritti più o meno completi, di cui cinque su papiri e molti altri su ostraka.
Il racconto riguarda le vicende della vita di Sinuhe.
Sinuhe, in egiziano “Sa-Nht”, ( si legge Sa-Nehet ) significa “Figlio del Sicomoro”.
Il sicomoro è un grande albero - alto fino a 15 metri - del Nordafrica (Ficus Sycomorus), il cui frutto, grosso e zuccherino, è molto ricercato in Egitto ed il suo legno imputrescibile serviva agli antichi Egizi per fabbricare sarcofagi.
Sinuhe narra le sue vicende in prima persona e questa finzione di tono autobiografico riesce a conseguire gradi elevati di intensità emozionale.
La narrazione si sviluppa con scansione ora rapida, rapidissima, ora più lenta, quasi impercet-tibile, a se- conda del vario rincorrersi di vivaci im-magini d’a- zione o dell’adagiarsi in lunghe pause di riflessione del protagonista su di sé o dei prolungati momenti di profonda devozione verso le divinità impetrate.
Il racconto si avvale di un impianto imma- ginifico vigoroso ed efficace, almeno quanto può esserlo un racconto che si svolge in una lingua semitica - e l’antico egiziano era affiliato a quel gruppo linguistico - poco disposta a manifestare idee complesse, ma pronta ad afferrare la plasticità delle azioni e la pulsione delle emozioni con frequentissimo ricorso al linguaggio figurato.
Si ricordi, per tutte, la narrazione biblica.
Sinuhe è un alto funzionario del regno di Amenemhat Io (1994-1964 a.C.), primo Faraone della XIIa dinastia (tra parentesi, va ricordato che il personaggio Sinuhe, medico ed eroe del noto romanzo di Mika Waltari, è solo un caso di omonimia).
Il suo racconto inizia “nell’anno di regno 30, nel terzo mese della stagione dell’inondazione, il giorno 7” (approssimativamente il 22 ottobre 1964 a.C. !) nel quale Amenemhat Io muore nella residenza reale (“il dio ascese al suo orizzonte”).
Sinuhe che si trova al servizio di Sesostri (I), figlio coreggente del Faraone, che era stato inviato dal padre Amenemhat a combattere i Tjehenu (i Libici), assiste, casualmente e non visto, al colloquio tra il messaggero che reca la notizia della morte ed un altro dei figli del Faraone. Si parla di colpo di stato, ovviamente ai danni di Sesostri, il futuro Faraone designato.
Per non essere coinvolto in una guerra civile e per non tradire l’amico principe Sesostri, Sinuhe fugge (“Il mio cuore fu turbato, le mie braccia caddero, un tremore si abbatté sulle mie membra”). Il racconto prosegue con una puntualissima descrizione topografica della fuga che avviene, a tappe forzate e tra molte insidie, prima verso Sud, nell’area del Delta e poi verso Nord in direzione dell’Asia (“attraversai il fiume con una zattera senza timone, con il favore della forza del vento d’Occidente, passai ad Est della cava di pietra sopra la località detta Montagna Rossa della Signora”).
E qui il racconto fa ricorso alle vivide espressioni figurate: “diedi strada ai miei piedi andando verso Nord e raggiunsi le Mura del Principe che sono state costruite per respingere gli Asiatici e per calpestare coloro che viaggiano sulla sabbia”.
Sinuhe rischia di morire perché “la sete mi assalì, la mia gola era secca e io mi dissi: questo è il gusto della morte”.
Ma sfugge fortunosamente al pericolo.
Raccolto da un capo dei beduini – come può accadere ancora oggi a colui che, ignaro, si inoltri nel deserto – viene soccorso.
“Egli mi diede dell’acqua e fu bollito per me del latte.”. Acqua e latte caldo, allora come oggi.
Giunge, infine, nel Retenu Superiore (l’attuale Siria) e il Principe Amunenesci lo interroga.
Sinuhe, con sano opportunismo, mente sulle reali ragioni della fuga.
Dice solo che “non mi si era sputato in faccia, non avevo udito un verdetto biasimevole, il mio nome non era stato udito in bocca dell’araldo”.
Fa gli elogi del nuovo Sovrano, l’amico Sesostri Io. “Egli è signore di saggezza, dai perfetti consigli e dai comandi eccellenti; si va e si viene secondo il suo comando. Dato che è uno lungo di passo, stermina colui che fugge: non esiste tregua per colui che gli dà la schiena.”
E ancora: “gli abitanti della sua città lo amano più di sé stessi; si rallegrano in lui più che nel loro dio”.
Il Retenu Superiore è allora in buoni rapporti con l’Egitto e Amunenesci accorda di buon grado asilo a Sinuhe.
“Egli mi pose davanti ai suoi figli e mi sposò a sua figlia maggiore e fece sì che io scegliessi per me, nel suo Paese, il meglio di ciò che possedeva. Era una bella terra, il suo nome era Iaa. Vi erano fichi e uva, il vino era più abbondante dell’acqua, molto il suo miele, abbondante il suo olio di moringa e ogni frutta sui suoi alberi. C’era orzo con farro e, senza limiti, bestiame.”
Sinuhe trascorre molti anni in Siria. Ha numerosi figli e diviene comandante dell’esercito.
Un giorno appare un pericoloso rivale. È un guerriero del Retenu, “un campione senza eguale”, che punta ad esautorare lo straniero Sinuhe dalla sua ambita posizione di comando.
E giunge il giorno del combattimento!
“Venne l’alba! Ogni cuore ardeva per me, donne e uomini mormoravano, ogni cuore era sofferente per me. Essi dicevano: c’è un altro cam-pione che combatta contro di lui?” “Io feci sì che le sue frecce passassero sopra di me inutilmente una dopo l’altra. Quando egli si avvicinò a me, io lo trafissi. La mia freccia restò infissa nel suo collo, egli gridò forte, cadde sul suo naso. Io l’abbattei con la sua ascia, poi lanciai il mio grido di guerra mentre ogni beduino urlava (di gioia).”.
Passano altri anni.
Sinuhe è ora ricco e soddisfatto.
Ma anche giusto e generoso: “fugge un fuggiasco al suo tempo, ora la mia fama è nella Residenza (del Faraone); vaga un vagabondo per la fame, ora do del pane al mio vicino; lascia un uomo il suo Paese a causa della nudità, ora ho vesti bianche di lino puro”.
Ma Sinuhe, come ogni esule, non ha dimenticato la patria, l’Egitto e implora la divinità: “o dio, chiunque tu sia, che hai predestinato questa fuga, possa tu essere appagato e fai che io ritorni alla Residenza!”
Sinuhe si sente ormai vecchio: “la vecchiaia è arrivata e la debolezza mi ha sorpreso, i miei occhi sono diventati pesanti e le mie braccia sono diventate deboli, le mie gambe hanno cessato di accompagnare, il mio cuore è diventato inerte. Io sono prossimo alla morte e possano le mie gambe condurmi verso le Città dell’Eternità!”
Sesostri ha notizia della speranza di rimpatrio dell’amico Sinuhe e gli invia un’ordinanza.
“Fai dunque ritorno in Kemet (Egitto). Possa tu rivedere la Residenza nella quale sei cresciuto, possa tu baciare la terra in direzione dei Due Grandi Cancelli e possa tu unirti con i compagni del Re. Oggi, invero, hai cominciato ad invecchiare, hai perso la potenza virile. Ricorda tu, dunque, il giorno della sepoltura e del raggiungimento della beatitudine.
Si farà per te una processione funebre il giorno del ricongiungersi alla terra, un sarcofago d’oro, una maschera di lapislazzuli.
Tu non morirai in un paese straniero, tu non sarai messo in una pelle di montone e si farà una tua mastaba. Pensa alla tua salma e torna!”
Sinuhe è felice: “l’ordine mi fu letto ad alta voce e io mi prostrai e toccai il suolo”.
Sinuhe ringrazia il Faraone e manifesta grande devozione alle divinità del Paese amato:
“Che sia conosciuta questa fuga che è stata fatta da quest’umile servo, nella sua ignoranza, da parte del tuo ka, o dio perfetto, Signore delle Due Terre, amato da Ra, favorito da Montu, Signore di Tebe, da Amon, Signore dei Troni delle Due Terre, da Sobek-Ra, da Horus, da Hathor, da Atum e la sua Enneade…”.
“Possano essi dare vita e potere alle tue narici!”
Sinuhe è sicuro di trovare giustificazione per la sua fuga: “essa non era nel mio cuore”.
Sinuhe lascia i suoi beni ai figli e si mette in viaggio verso Sud.
Giunge al palazzo del Faraone e “tocca terra con la fronte tra le due Sfingi”.
I figli del Re sono in piedi all’ingresso della Residenza per riceverlo; viene condotto nella Sala delle Udienze e lì trova Sua Maestà.
L’emozione è forte e Sinuhe perde conoscenza: “ero come un uomo preso nell’oscurità”.
Il Faraone lo acquieta e lo conforta: “tu sei ritornato, hai calpestato i paesi stranieri, hai fatto la fuga ma ora la vecchiaia ha prevalso in te, non sarà piccola cosa l’unione della tua salma alla terra, non sarai sotterrato dagli stranieri!”
Sinuhe viene sistemato con ogni onore nella casa di un principe.
“Si fece sì che passassero gli anni dalle mie membra, fui rivestito con biancheria fine, fui unto di olio di prima qualità, fui sdraiato su di un letto. Io lasciai la sabbia a chi è in essa e l’olio d’albero a chi si unge con esso”.
Viene infine costruita una piramide per lui, gli viene preparato un ricchissimo corredo funebre, la sua statua funeraria viene ricoperta d’oro e il suo perizoma di elettro. Tutto ciò è espressamente ordinato da Sua Maestà. “Io sono stato nei favori del Re fino a che venne il giorno della mia morte”.
Con queste parole si conclude la narrazione autobiografica di Sinuhe, con parole che, quasi, sembrano scritte sulle pareti di una tomba.
Il racconto fu letto, trascritto, riletto e ritrascritto per quasi mille anni nelle scuole egiziane e come opera letteraria ha rappresentato, per tutto quel tempo, in Egitto, un prodotto culturale di grandissimo successo.
La mano che lo ha composto, in un elegante egiziano classico, è sicuramente quella di un letterato dotato di un fine intuito per l’introspezione psicologica nonché di strumenti espressivi di grande raffinatezza stilistica. I toni delle riflessioni sul destino personale echeggiano quasi di romanticismo e dovranno trascorrere ancora duemila anni per ricompa-rire nella letteratura greca e in quella latina e quasi altrettanti per farsi prepotentemente strada in quelle successive.
Ma, al di là, dei pure indiscussi preziosi aspetti formali, il racconto di Sinuhe ha avuto entusiastica risonanza per i molteplici aspetti che presenta e per le numerose chiavi di lettura di cui dispone, attraverso le quali il lettore egiziano lo ha durevolmente avuto in pregio.
È un documento politico. Lo è nella misura in cui è apologia della netta superiorità della civiltà egiziana rispetto ai rozzi modi di vivere delle popolazioni circostanti, descritti con frequenti ricorsi ad apprezzatissime immagini esotiche.
I beduini del Retenu Superiore “viaggiano sulla sabbia”, offrono quello che hanno e cioè “acqua e latte caldo” e si ungono con “olio d’albero”, sono “litigiosi” e seppelliscono i morti in una “pelle di montone”.
E nello scontro tra Sinuhe e il forte guerriero siriano è Sinuhe che vince; nello stesso modo è il Faraone che “sottomette i paesi stranieri”.
Ed è un documento politico anche perché è un fervente elogio della lealtà verso il Sovrano, lealtà di ogni suddito ad ogni grado della sequenza gerarchica che, sola, può assicurare stabilità e forza al Regno d’Egitto. “Come è felice questo Paese da che egli è stato incoronato!”
Ma il racconto è anche, e soprattutto, un appello di natura morale, dello stesso genere degli insegnamenti sapienziali che avevano già largamente caratterizzato i lineamenti della letteratura dell’Antico Regno e che costituiscono, già di per sé, i contenuti di quella “filosofia senza filosofi” che è stato il pensiero etico nell’Antico Egitto.
Il messaggio è semplice e comprensibile per tutti. La felicità viene raggiunta dopo un percorso di sofferenze e tribolazioni e menzogna e tradimento, in ultima analisi, non offrono durevole ricompensa e il bene, ancorché a lungo atteso, trionfa sempre.
Al termine della vita, prevalgono su tutto e per ognuno, il richiamo del luogo natale e l’attestato apprezzamento d’aver operato secondo ciò che è giusto - il Maat egiziano, il concetto di giustizia intrinseco nell’ordine cosmico stabilito dagli dei e interpretato dal Faraone.
Lealtà e superiore senso del giusto hanno carattere imputrescibile, come lo ha il legno del sicomoro e come lo hanno le virtù di Sinuhe, il Figlio del Sicomoro.



PERIODO
PROTODINASTICO
3185 – 2700 a.C.
Ia – IIa dinastia
ANTICO REGNO
2700 – 2195 a.C.
IIIa – VIa dinastia
PRIMO PERIODO
INTERMEDIO
2195 – 2064 a.C.
VIIa – XIa dinastia
MEDIO REGNO
2064 – 1797 a.C.
XIa – XIIa dinastia
XIIa dinastia
1994 – 1797 a.C.
Amenemhat I°
1994 – 1964 a.C.
Sesostri I°
1964 – 1919 a.C.
Amenemhat II° Sesostri II°
Sesostri III°
Amenemhat III°
Amenemhat IV°
Sobeknefru
SECONDO PERIODO INTERMEDIO
1797-1543 a.C.
XIIIa – XVIIa dinastia
NUOVO REGNO 1543 – 1078 a.C.
XVIIIa – XXa dinastia
TERZO PERIODO
INTERMEDIO
1078 – 715 a.C.
XXIa – XXIVa dinastia
EPOCA TARDA
715 – 341 a.C.
XXVa – XXXa dinastia