Anno 7 - N. 20/ 2008
Medicus, phisicus aut philosophus?
Un’alleanza nuova tra filosofia e scienza per accrescere l’efficacia della medicina di fronte alla “fragilità etica” di oggi.
di g.c.m.
Il platano
di Ippocrate
nell’isola di Cos (Dodecaneso, Grecia)
Uomo di straordinaria cultura umanistica Enrico Marcovecchio, autore di un Dizionario etimologico storico dei termini medici (Impruneta, Festina lente, 1993) inorridiva nel leggere su JAMA il neologismo omografo medicare, sostantivo di fusione anglo-americano tra medic(al) + care, a significare assistenza medica.
Assai meno colti e, forse, anche resi meno sensibili in virtù (si fa per dire) del degrado linguistico al quale danno fiato la televisione e talora anche la stampa, propalatrici assai spesso di rigurgiti di illetterati che dominano la nostra (in)cultura, ci piace tuttavia qui ricordare anche con l’aiuto di Marcovecchio, l’origine dei nomi di medico, e ancor prima di quello di Phisicòs, il suo equivalente greco.
Siamo a ciò spinti da una breve nota del grande grecista Marcello Gigante titolata Phisicòs, presentata ne “La parola del passato” (Napoli, Macchiaroli, 1988) dedicata alla filosofia della Scuola eleatica.
E Phisicòs, quale medico piuttosto che filosofo naturalista risultò a questo studioso dall’esame di un’epigrafe mistitilingue scoperta nell’Ager Volceianus, del I sec. a.C., relativa al medico Menecrate, originario di Tralles in Caria.
Apparteneva questo medico, come appare dall’epigrafe, agli oinodótai cioè quei medici che usavano il vino come terapia o veicolo ai farmaci. Del resto secondo M. Terenzio Varrone si usava proprio in quel periodo in terapia il succo della vite “novum vetus vinum bibo; novo veteri morbo medeo” (bevo vino nuovo e vecchio; sono curato da nuova e vecchia malattia).
(De Ling. Lat., 6, 21).
Questo solo per collegarci con l’etimo della parola medicus, usata da Cicerone così come da Celso, nel senso di medere, curare, apportare le cure a chi di queste necessita. Medentes perciò i medici, coloro che curano: anche se con il vino e con l’elleboro!
Come abbiamo visto nell’epigrafe volceiana, il termine Phisicòs è qui usato come medico piuttosto che come filosofo naturalista. Ma è sicuro che i due termini si debbano separare o non siano piuttosto vicini quando non analoghi?
Nella lingua inglese, come è noto, il medico è “the physician”, il filosofo naturalista.
Logoiatrìa o medicina verbale, termine usato dal filosofo e medico ebreo Filone di Tarso (I sec. a.C.), sta forse ad indicare l’approccio filosofico all’esercizio dell’arte medica, la prima psicoterapia o più semplicemente quel rapporto medico-malato che dovrebbe sempre caratterizzare l’atto medico, anche quello più “tecnico”?
Ma allora può esserci medicina senza filosofia? Il medico è solo phisicus o anche philosophus?
E senza scomodare i classici dell’antichità la liaison tra l’arte ippocratica e quella dei tempi moderni è costituita dalla “iatrofilosofia”, cioè il neoippocratismo clinico fondato sulla filosofia naturale chimico-meccanica, come osserva Cosmacini, quella, in fondo del Phisicòs, il vero filosofo naturale e medico. Un messaggio che ci viene da lontano, ma che vuole differenziarsi, pur con il rispetto della Ragione illuministica, dal messaggio pur pregnante della metafisica, per privilegiare quello della “fisica” nel senso più lato, come aveva auspicato Boerhaave, per “conoscere i veri caratteri della natura che sinora abbiamo ignorati”.
Allora il medico “phisicus” e non “philosophus”?
Ma – si è visto – phisicus vuol dire filosofo naturale e non metafisico, poiché come dice Alberto Malliani in un suo lucido elzeviro, molto opportunamente comparso su un quotidiano di informazione e non su una rivista scientifica, “non c’è medicina senza filosofia”. L’articolo, che vorremmo più propriamente definire un messaggio, prende lo spunto dal libro di Ivan Cavicchi “Filosofia della pratica medica” (Torino, Bollati Boringhieri, 2002): non potervi cioè essere una vera medicina senza un’accezione filosofica, specie di fronte alla “fragilità etica” che contraddistingue la prassi attuale. Una chiave di lettura alla ricerca della più umana delle medicine possibili. Un approccio senza tempo e perciò attualissimo: la natura variamente interpretata (in riferimento al malato), a seconda degli orientamenti culturali e di prassi, rischia di complicare la già complessa scienza della natura stessa. Ciò porta al postulato di una definizione della medicina come arte dei concetti naturali, in particolare se si considera che la malattia non è mai solo un “accadimento naturale”.
La stessa intuizione clinica pur con le sue limitazioni, non è priva di logica, sottolinea Malliani, anzi è integrazione di logiche diverse, quindi approccio istintivamente filosofico. Chi vede le cose non solo come prassi e tecnologia anche in medicina, non può non concordare con Cavicchi quando avanza la proposta di “un’alleanza nuova tra filosofia e scienza per accrescere l’efficacia della medicina stessa, per renderla migliore rispetto alle multiformi necessità di chi sta male”.
E Malliani esplicitamente condanna, senza mezzi termini, l’uso che vien fatto di pseudo-scoperte, amplificate in modo “privo di sapienza”, la sophia dell’uomo che conosce fino a che punto è lecito spingersi nel presentarle a chi “non sa”: siamo all’agonia dell’uomo “tecnologico”.
E questo egli dice non ab irato ma con alto sentire di uomo prima ancora che di medico.
Ben venga pertanto questa “alleanza nuova” questa nuova via sapienziale. Ed allora non medicus phisicus aut philosophus, ma phisicus et philosophus: della Natura .
Solo partendo da questo principio sarà possibile quell’ulteriore passo avanti che un grande medico malato, indica nel suo libro, veramente straordinario “Medici umani, pazienti guerrieri” (Gianni Bonadonna, Baldini Castoldi Dalai, 2008.
|