Anno 7 - N. 20/ 2008
ITINERARIO NELLA BELLEZZA
Diario di un giorno d'estate, Napoli, luglio 2005
Visita al Museo di Capodimonte
di Gabriella Colletti
Antea
(1530 ca.)
Parmigianino
(Parma, 1503 - Casal Maggiore, 1540)
L’arte è la più sublime missione
dell’uomo, poiché è esercizio del pensiero
che cerca di comprendere l’universo e
di farlo comprendere
Auguste Rodin
Capodimonte è immenso. Un grande museo sulla cima di una collina. Domina la città e il mare. Una reggia simile a quella di Caserta per magnificenza, con parchi e giardini. Che nulla ha da invidiare alla certamente più grande e conosciuta Versailles e alle residenze estive degli zar di Russia, Peterhof e Tsarskoe Selo.
Il giardino alla francese, davanti all’edificio, è di un rigore quasi cartesiano. Dietro, si estende quello all’inglese, romantico, lussureggiante, di un’eleganza sontuosa - noblèsse oblige - un bosco sacro.
Tento di rappresentarmelo nella fantasia, nel breve tragitto in aliscafo che da Ischia mi porta a Napoli, ma gli spruzzi dell’acqua che appannano il vetro rendono confuse e velate anche le immagini sullo schermo della mia mente. Tutto sarà una sorpresa.
Molo Beverello. Il mattino è caldo. Un caldo meridionale di fine luglio. Davanti a me, immobile, impenetrabile, la Fortezza del Maschio Angioino. Tassì. Il centro storico mi abbacina con la sua luce, tagliente già alle dieci del mattino. Chiara e forte, come una sciabolata caravaggesca. La strada sale. Fatiscenti palazzi barocchi, rococò, neoclassici. Una Napoli sonnolenta sotto il cielo azzurro. Vie semideserte. Da dove vengono gli schiamazzi, le grida, i suoni di città mediterranea, di metropoli scugnizza, beffarda e istriona? Di questa città tra le cui braccia sei costretto ad adagiarti ma non ti puoi fidare, che ti fa innamorare, ti seduce e ti strega, ti inganna? Allegra mistificatrice per natura. Serrande abbassate, muri scalcinati, un cane claudicante su uno stretto marciapiede accanto al Museo Archeologico Nazionale. Chiese dalle cupole come cappellini civettuoli di deliziose signore ben truccate. Senza tempo e senza età. Belle donne con qualche posticcio. Venditori di fiori ai semafori. Fruttivendoli improvvisati con il loro carrettino a un incrocio. Strillano affari proverbiali per massaie indolenti che, dai balconi, calano panieri per la spesa. L’aria scanzonata di qualche napoletano che attraversa la via, con il semaforo rigorosamente rosso. La tradizione è tradizione. Finalmente sono giunta a destinazione. La lunga prospettiva del cortile mi guida verso la reggia. All’esterno la facciata è intonacata di un caldo rosso napoletano che spicca gioioso sul grigiume del piperno.
Tiziano e Raffaello mi attendono in cima allo scalone di marmo neoclassico. L’arte celebra il potere. Quello di uomini abili, accorti, talvolta pragmatici fino al cinismo, ma raffinati interlocutori culturali di splendidi artisti, dei quali erano i committenti. è grazie a questi mecenati che i Tiziano e i Raffaello di Capodimonte si porgeranno presto al mio sguardo.
Nella sala scarsamente illuminata per preservare, intatta, la bellezza delle tele, Raffaello, Andrea del Sarto, Tiziano. Del primo: il Ritratto del Cardinale Alessandro Farnese (1509), futuro papa Paolo III. Una copia da Raffaello del secondo: Ritratto di Leone X con due cardinali (1525). Del terzo: il Ritratto del Cardinale Alessandro Farnese (1545-’46), Papa Paolo III con il camauro e, famosissimo, Paolo III con i nipoti (1545 circa).
Nella penombra dei velluti emergono due volti. Si respira l’ebbrezza del potere. Nell’ombra si fiuta l’intrigo. Tempi di nepotismo. Seduto sul suo trono lui, il grande vegliardo. Volto affilato, sguardo indagatore. Apparentemente debole nella mantellina di stinto velluto rosso. Esili pieghe come linee di un costato umano. Lo stesso che, dopo molti secoli, riaffiorerà nei papi di Francis Bacon, ispirati proprio dallo studio di quelli di Tiziano. Un volto arcigno, è il cardinale Pietro Bembo (di Tiziano). Lo sguardo acuto fissa un punto lontano. In mano reca un piccolo breviario. Barba lunga, labbra sottili, viso sfuggente da corvo. Eppure costui, dall’apparenza di uccello maligno, era sotto la protezione della poetessa Vittoria Colonna, la grande marchesana di Pescara, l’amica del divino Michelangelo. Nel ritratto di Pierluigi Farnese, sempre del celestiale veneto, l’intera composizione si concentra sul punto luce della corazza. Correva l’anno 1543. Lo sguardo del condottiero è fiero. Appagato. Psicologico contrappunto al volto stupito dell’attendente dietro di lui, che emerge da una cortina dai tenui e ambrati colori.
Mi fermo ad un tratto. Entro in un antro buio, illuminato solo dall’oro riflesso dalla piccola preziosa tavola che mi sta di fronte. E’ la Crocifissione di Masaccio (1426 ca.). La visione violentemente scorciata dal basso ricrea e intensifica il dramma. Come se lo spettatore guardasse da un’ideale platea la scena consumarsi sul palcoscenico. Un fiume in piena di dolore nel gesto di Maddalena. La perdita è irreparabile. L’amore totale. Prostrata, scarmigliata, le braccia nella stessa posa di quelle del Crocifisso, aperte al cielo d’oro, rarefatto e indifferente. Contorti e pietrificati nello spasimo atroce la Vergine e San Giovanni.
L’umanità del dramma sacro scompare repentinamente quando mi lascio alle spalle l’antro buio e silenzioso. Nella saletta successiva mi avvolge, eterea, una fuga di angioletti attorno alla Vergine in trono di Masolino da Panicale, maestro di Masaccio. Diverso stile e temperamento. Uno scontro generazionale tra le ragioni dei padri e quelle dei figli. Con l’allievo nasce l’Umanesimo fiorentino. Il maestro, invece, non vuole saperne della nuova sensibilità. Caparbio e ostinato nelle sue convinzioni anacronistiche, si abbandona all’atmosfera da sogno del Gotico Internazionale. Con ossessiva persistenza e minuzia del dettaglio, nei fiorellini e nei ricami delle vesti. Nel Polittico della Neve, la Madonna è un idolo frontale, ieratico, misterioso. Un velo prezioso sull’elegante acconciatura, come quella degli angioletti-puttini. Sorelle ideali di questa Madonna, quelle di Alvise e Bartolomeo Vivarini. Un linearismo aspro e tagliente, di chiara marca tardo-gotica.
Uscendo dai vezzi fiabeschi, percorro una lunga galleria. I quadri mi guardano silenziosi dalle pareti. Bisbigliano un muto linguaggio, testimoni del sapore di un’epoca. Mi incuriosisce il piccolo formato di un ritratto - Francesco Gonzaga - di Mantegna (1460 ca.). L’espressione è lievemente imbronciata, da fanciullo viziato. Di profilo, il giovanissimo cardinale, come si addice a una committenza aulica. Vicina alla cultura padovana squarcionesca - la Circoncisione - di Giovanni Bellini (1500 circa). Cattura lo sguardo il volto dolce e tenero della Vergine, fanciulla imbacuccata come una farfalla nel suo bozzolo.
Il tempo scorre inesorabilmente. Mi chiamano le opere del piano superiore. Quasi inciampo sull’ampio scalone di marmo. Un lunghissimo corridoio deserto. Dal fondo, una luce chiara mi attrae. Cammino lentamente verso il lume misterioso. Fino a quando riesco e discernere San Luigi di Tolosa che incorona re Roberto d’Angiò, del grande senese Simone Martini. Di proporzioni gigantesche il santo francescano e “pauperante”. In posa frontale, ieratico e solenne, emerge dal fondo dorato della tavola. Non si scompone. Fissa l’osservatore, impugnando il pastorale tempestato di pietre preziose mentre, con l’altra mano, incorona il sovrano. Di proporzioni inferiori rispetto al santo ma, a rimarcare il suo prestigio, nell’aulica posa di profilo, reminiscenza della medaglistica romana. Nella cornice trionfa la decorazione del giglio d’oro di Firenze in campo blu ultramarino.
Scivolo dentro la Trasfigurazione di Giovanni Bellini (1480-85 circa). Risucchiata dal centro della composizione. Respiro l’umida campagna veneta, bagnata da una luce irreale, che trasfigura il paesaggio naturale in un evento soprannaturale. L’alone luminoso si origina dal gesto benedicente delle mani di Cristo. E avvolge tutta la figura del Redentore. Gioioso sgomento. Un brivido di paura e stupore afferra i personaggi accovacciati, nella zona inferiore della composizione, colti nell’atto di fuggire davanti al prodigio.
Nell’opera giovanile di Lorenzo Lotto, Ritratto di Bernardo de Rossi, vescovo di Treviso (1505), percepisco la tensione del protagonista nel pugno stretto che trattiene un rotolo di pergamena e nello sguardo deciso e penetrante. Quanta morbidezza nel piccolo paesaggio dietro la finestra nella Madonna con Bambino e un devoto di Andrea Solario (1500-1510). Un bagno di luce nel panneggio della Vergine, in S. Caterina che gioca con il Bambino, il quale stringe nella manina un rametto di corallo rosso, prefigurazione del martirio. Nel Ritratto di Clemente VII, di Sebastiano del Piombo (ante 1527), dal fondale verde appare lo sguardo sornione di un uomo di mezza età, avvezzo al lusso e al comando. Un accenno di sorriso nel volto ben curato. In contrasto con il verde liquido del fondale, il rosso squillante della mantellina. Un bagliore si accende nel panneggio del velluto. Cosa sta guardando Clemente VII? Chi attende? Forse un messaggero cui consegnerà la lettera che serra in mano e il cui indice, leggermente spostato dalla stretta a pugno, quasi tradisce un lieve turbamento. Ma nulla trapela il viso impassibile.
Nella Madonna della gatta (1523), di Giulio Romano, si ritrova intatta tutta la grazia di Raffaello. E ancor più. Un senso di focolare domestico. Di teneri sentimenti rassicuranti, da interno borghese. è la tematica degli affetti e dei sentimenti cara alla pittura di maniera. In secondo piano, San Giuseppe entra nella stanza da un corridoio, con un effetto molto naturale e scenografico insieme. Un poco nascosto, in ombra, sulla destra del dipinto, un cagnolino. Tra il primo piano e l’atrio, colombe beccano delle briciole sul pavimento. Un gatto attira lo sguardo dello spettatore. è il tema delle piccole creature, trattato precedentemente da Dürer nella Madonna degli animali.
Buffi volti e diabolici, nella Scena di sacrificio di Pontormo (1545). E, finalmente, la Danae di Tiziano (1544), altra meraviglia del museo. Nel soggetto traspare la gioia, il godimento della dea nell’essere investita dalla fecondatrice pioggia d’oro, ennesima metamorfosi di Giove. Destinato ad un alto prelato, il cardinale Alessandro, il nudo sensuale della fanciulla nel Ritratto di giovane donna di Tiziano comunica una prorompente carica erotica. Così pure la Maddalena penitente dello stesso autore. I miei occhi bevono avidi ogni forma e colore. Innanzi a me, personaggi illustri e della storia sacra mi osservano e paiono dirmi qualcosa che tuttavia mi sfugge. Non siamo più avvezzi a certi simboli della nostra tradizione che, solo qualche decennio fa, apparivano famigliari anche alle persone semplici. Dove andrà la nostra civiltà se l’oblio la pervade? Lo sradicamento ci rende irriconoscibili ai nostri stessi sguardi.
Sfilano opere di El Greco, Palma il Vecchio, Dosso Dossi, Il Garofano, Correggio. Una indescrivibile tonalità di azzurro e di grigio, appena riscaldati dall’ocra, nella Madonna con bambino (1515), detta La Zingarella.
Nella tela di piccolo formato, Lo Sposalizio mistico di S. Caterina, sempre di Correggio, la fattura è preziosa, la delicatezza dei toni incomparabile. Lascio la grazia e la spontaneità di Correggio per passare ad un pittore noto per la carica cerebrale delle sue opere.
è Parmigianino, grande maestro del Manierismo. Noto anche per la deformazione ottica dei suoi soggetti, che determina il tipico allungamento dei corpi, qui evidente nella Sacra famiglia e in Lucrezia. L’eleganza astratta e raffinata fa di questa tela uno dei gioielli del Manierismo. Il volto trasognato e enigmatico del Ritratto di giovane di donna, forse Antea, dello stesso autore, mi spinge a un passo dalla tela. I miei occhi, come ipnotizzati, non riescono a staccarsi. Al termine della visita al museo non potevo allontanarmi da questo quadro. Attratta dalla violenza tenera che sprigiona la figura. Più di una volta sono tornata indietro. Ad imprimere per sempre nella memoria la dolcezza dell’incarnato e lo sguardo di ghiaccio della bella cortigiana, amante del pittore. Il nucleo di forza incoercibile e tuttavia algida proviene forse dalla stola di martora, sulla spalla della giovane. Sembra vivo il carnivoro bruno, sul punto di mordere il guanto da falconiere indossato dalla dama per proteggersi dai canini affilati.
Del cognato di Parmigianino, Girolamo Mazzola Bedoli, l’Annunciazione, (1555-’60). Il volto morbido e delicato della Vergine fanciulla non esprime turbamento ma, semmai, un lieve stupore, alla presenza dell’angelo annunciante dalla bellezza sfolgorante, una divinità olimpica. Il messaggero reca in omaggio il giglio, come da consueta tradizione iconografica. Tra le cortine, giocano graziosi puttini. Un attimo prima dell’irrompere del miracolo nella stanza, la fanciulla mite era intenta al ricamo, come testimonia il cestino in basso a destra.
Nel San Giorgio e il drago di Lelio Orsi (1550 ca.), nella parte sinistra della composizione, una giovane donna scalza, illuminata dai lividi bagliori di una notte tempestosa. La principessa atterrita, dai lunghi capelli biondi, palpita per l’eroe che abbatte la fiera immonda, in primo piano. Sullo sfondo, un paesaggio aspro e selvaggio, toni metallici da armatura.
Donne musiciste: l’Autoritratto di Sofonisba Anguissola alla spinetta e Santa Cecilia di Jean Sons.
Grazia vellutata e pacatezza nel sorriso della Vergine e del Bambino dell’allievo di Leonardo, Bernardino Luini.
Simile all’arcano dei Tarocchi, L’Eremita, un uomo lungo e magro intabarrato in un mantello scuro, da cui affiora un volto aguzzo e triste. è Il misantropo di Pieter Bruegel Il Vecchio (1568). Un villano dal volto grottesco gli ruba la borsa attaccata alla tasca del mantello, sprigionando un andamento circolare che si ripercuote sulla composizione, peraltro racchiusa in un formato ovale. Ma quella borsa assomiglia anche a un cuore rosso. Il diabolico personaggio ha sottratto la facoltà di amare al poveretto, condannato da una strana malattia all’odio per l’umanità. A restare solo e appartato, prigioniero di se stesso, delle sue paure e ossessioni.
Maldestri personaggi procedono a tentoni. Volti buffi e patetici. Si sorreggono a un bastone, inciampando gli uni negli altri. è la Parabola dei ciechi (1568), dello stesso autore, quadro le cui svariate versioni sono disseminate in vari musei del mondo. Sullo sfondo della teoria dei ciechi, metafora forse della bizzarria triste che è la vita, un paesaggio nordico, con stagni e casolari dal tetto a spioventi.
In una piccola stanza semioscura la Flagellazione di Caravaggio, altra tela emblematica di questo ricco museo. Il dramma umano si sovrappone al tema sacro e lo sovrasta. Il corpo umanissimo di Cristo, piagato e dolente, non trasmette carità agli sgherri, che continuano a percuoterlo, per un illogico comando ricevuto. Sempre del genio di questo autore, il Martirio di Sant’Orsola (1610). E, poi, il trionfo della giustizia e l’orrore in Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi. Alla calda, palpitante umanità di Caravaggio, fa da contrappunto la bellezza cerebrale di un altro pittore del Seicento, Guido Reni. Di lui ho potuto ammirare il suo capolavoro Atalanta e Ippomene, in una stanza apertami su gentile concessione.
Era quasi il tramonto.
L’orario dell’esposizione volgeva purtroppo al termine. Un’intera giornata alla galleria di Capodimonte era volata in un baleno. Tornando indietro, solo uno sguardo fugace all’Adorazione dei pastori del napoletano Stanzione e all’amato Colantonio, quello di San Gerolamo nel suo studio con il leone. è colta, qui, l’eccellente amicizia tra l’uomo e il felino. Immortalata nell’atto del frate che toglie la spina dalla zampa dell’animale (1455). Correvo sulle ampie scale di marmo al piano inferiore. Ripercorrevo con il cuore in gola la lunghissima galleria di quadri da me precedentemente ammirati e riammirati ora, per l’ultima volta, fino a lei, la giovane cortigiana con la martora che morde il guantone da falconiere.
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