Anno 1 - N. 2 / 2002
STORIA DELLA MEDICINA
SPALLANZANI
La “beffa del verme”
di Francesco Piscitello
Il phisis intestinalis
“Terra di sapienti e di poeti”, come la chiamò Carducci, Scandiano, presso Reggio Emilia, fu patria di Matteo Maria Boiardo, di Antonio Vallisneri il giovane, di Cesare Magati, del Angelo Secchi, di Laura Bassi, di Leopoldo Nobili, per citare solo i suoi figli più noti.
Lazzaro Spallanzani vi nasce il 12 gennaio 1729 da Gian Nicolò, avvocato di successo, e da Lucia Zigliani di Colorno. Avviato dal padre agli studi umanistici presso il Seminario dei Gesuiti di Reggio, vi si dedica con grande profitto fin quando, nel 1749, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza a Bologna, deciso a seguire le orme paterne; ma Laura Bassi, parente degli Spallanzani ed insegnante di matematica e fisica presso quell’Università, lo sprona ad assecondare la sua vera passione, lo studio della natura. Dopo la laurea in filosofia nel 1753, riceve gli ordini minori e, successivamente, diviene sacerdote.
Non si occupa subito di biologia: insegnante di greco, logica e metafisica al liceo di Reggio Emilia e, dal 1757, assistente presso quella università, suoi interessi prevalenti sono l’astronomia (i colleghi lo chiamano “l’astrologo”) e la geologia: studia i vulcani, i minerali, i fossili; conferma, con osservazioni dirette sul lago di Ventasso, le ipotesi del Vallisneri sull’origine delle sorgenti; esamina il metano dei “fuochi di Barigazzo” nell’appennino modenese; a Lipari descrive l’ossidiana.
Non perde comunque l’interesse per la cultura umanistica: sono di questo periodo le “Riflessioni intorno alla traduzione dell’Iliade del Salvini” che formano l’argomento di lettere al conte Algarotti, ciambellano di Federico di Prussia, raccolte successivamente in un volumetto dove, come dirà il Foscolo, “ha provato al Salvini ch’egli straziava la sintassi d’Omero”.
Alla biologia approda per merito di Antonio Vallisneri il giovane, che gli fa conoscere l’opera di Needham e di Buffon.
George-Louis Buffon (1707-1788) aveva sostenuto che la decomposizione della materia vivente dà luogo a “molecole organiche” che possono riaggregarsi in nuove forme viventi: John Turberville Needham (1713-1781) le aveva addirittura viste in forma di animalcula che si sviluppavano nelle infusioni. I due naturalisti conoscevano, naturalmente, i lavori di Francesco Redi (1626-1698) sulle mosche che dimostravano l’impossibilità di una gene- razione spontanea delle forme viventi ma, come si pensava in quel tempo, ritenevano la dimostrazione del Redi essere valida solamente per animali complessi come gli insetti, mentre per le più piccole forme viventi - che si andavano via via scoprendo grazie al microscopio di Leeuwenhoek - l’ipotesi conservava la sua validità.
Da corretto sperimentatore, Needham si premurava, come già il Redi, di isolare i suoi preparati onde evitare che forme di vita potessero pervenirvi dall’esterno, in modo da poter attribuire ad una “forza vegetativa” del materiale organico decomposto l’originarsi dei suoi animalcula.
Ma Spallanzani non ne è persuaso: ciò che vale per le mosche di Francesco Redi, pensava, deve valere per gli infusori di Needham. Convinto che i risultati dello scienziato londinese dipendano da inquinamento del materiale esaminato, appronta metodi accuratissimi di ebollizione in recipienti chiusi ermeticamente e pone una cura speciale nell’escluderne il contatto con l’aria: e nonostante la potenza del microscopio di cui dispone, non riesce ad osservare alcun animalculum. Al contrario, lasciati aperti i contenitori, le infusioni prive di vita si animano ben presto di esseri viventi microscopici che, evidentemente, provengono dall’ambiente esterno.
Nel 1768 vedono la luce due importanti lavori: Dell’azione del cuore ne’ vasi sanguigni e Sul movimento del sangue negli animali, dove descrive la scoperta della circolazione sanguigna nel sistema capillare del pulcino non ancora uscito dall’uovo, la dinamica circolatoria nei vasi di piccolo e grosso calibro, la morfologia degli eritrociti. Il primo dei due saggi è de- dicato ad Albrecht von Haller (1708-1777) e contiene non poche correzioni ai risultati di alcune ricerche del fisiologo svizzero: lungi dall’adontarsene, Haller fa proprie le opinioni dello Spallanzani e raccomanda anzi lo scienziato italiano all’Accademia di Gottinga perché lo accolga tra i suoi soci.
Nel 1769 si trasferisce dall’università di Modena a quella di Pavia, dove, per decreto dell’imperatore Giuseppe II d’Austria, ottiene la cattedra di Storia Naturale che conserverà fino alla morte. Nel discorso d’insediamento torna sul tema della generazione spontanea e vi mette la parola definitiva: non esiste.
Il problema dell’origine del vivente è però un argomento che continua ad attrarre l’attenzione del professore di Pavia: riproduzione, fecondazione, ruolo dell’ovulo e del liquido spermatico saranno oggetto di nuove, accurate ricerche.
Per primo realizza la fecondazione artificiale di uova di “rana verde aquajuola”. Preleva il cordone gelatinoso delle uova che la femmina emette durante l’accoppiamento e, per evitarne la fecondazione, ricorre ad un artificio appreso dal naturalista Nollet: fa indossare al maschio delle braghette di taffetà. Successiva- mente, spennella con il seme del maschio uno dei due pezzi in cui ha diviso il grappolo delle uova, omettendo l’operazione nell’altro, che servirà di controllo. Posti i due pezzi in distinti contenitori d’acqua, vede svilupparsi i girini solo nella bacinella che contiene le uova spennellate con liquido spermatico, mentre nulla accade nell’altra.
Se è possibile nelle rane, la fecondazione artificiale deve essere realizzabile anche nei mammiferi, sebbene in questi essa si realizzi all’interno del corpo della femmina e non fuori di esso, come negli anfibi: prelevato del liquido seminale da un giovane cane ed immesso me- diante una siringa nelle vie genitali di una barboncina nel periodo dell’estro, assiste, sessantadue giorni dopo, alla nascita di tre cuccioli.
Spallanzani non attribuisce l’azione fecondante agli spermatozoi, già noti fin dall’epoca di Leeuwenhoek, ma alla parte liquida del seme. Come molti scienziati dell’epoca, è un “preformista”: pensa cioè che il futuro essere vivente esista già preformato all’interno dell’ovulo (altri preformisti lo pensano invece contenuto nello spermatozoo). Naturalmente ne vuole fornire la dimostrazione: e crede di trovarla nella semplice assenza di differenze osservabili tra i componenti dell’uovo fecondato e di quello non fecondato, argomento assai fragile - quandoque dormitat Homerus: e Spallanzani! - contro la tesi dei partigiani dell’epigenesi, ossia della formazione ex novo dell’embrione e del feto come conseguenza della fecondazione. Ma, a difesa del nostro, va detto che se le sue sperimentazioni non dimostrano la correttezza dell’idea preformista è pur vero che, nel suo tempo, anche l’epigenesi era una pura e semplice congettura, di impossibile dimostrazione: per osservare morula, gastrula, blastula e gli stadi successivi dell’embriogenesi occorre infatti che i progressi della microscopia consentano la nascita e lo sviluppo della citologia e dell’istologia, il che non avverrà se non nel secolo seguente con i lavori di Schleiden, Schwann, Mohl, Purkinje etc.
Epoca di grande fervore investigativo sulla natura, il secolo XVIII vede nascere molte di-scipline scientifiche: tra queste la chimica, che non tarderà a trovare un ruolo importante nello studio del mondo vivente.
Fra i chimici del settecento, un posto di primo piano spetta ad Antoine-Laurent Lavoisier. Lo scienziato francese, ghigliottinato dalla Rivoluzione nel 1794, era stato il primo a cogliere l’analogia tra il processo di combu-stione e la respirazione degli animali. Egli riteneva però che l’anidride carbonica che si rinviene nell’aria espirata dipendesse da una combinazione - che avverrebbe all’interno dei polmoni - del carbonio dell’organismo con l’ossigeno dell’aria.
Ripresi gli studi di Lavoisier, Spallanzani smentisce l’ipotesi che l’anidride carbonica si formi nelle vie respiratorie: la ritrova infatti anche nell’atmosfera dello spazio chiuso in cui pone animali ai quali ha tolto i polmoni ed anche animali che dei polmoni sono naturalmente privi. La formazione dell’anidride carbonica deve dunque avvenire altrove, nel corpo stesso dell’animale.
Tuttavia una deduzione, per quanto ovvia, non basta al rigoroso abate: va dimostrata spe- rimentalmente. Egli pone allora una chiocciola in un ambiente di puro azoto: alla sua morte scoprirà - senza sorpresa - che all’azoto si è aggiunta dell’anidride carbonica. L’animale la deve aver prodotta, necessariamente, nel proprio corpo a partire da ossigeno che, con tutta evidenza, aveva incorporato precedentemente.
Un altro argomento della fisiologia dove il naturalista di Scandiano lascia un’impronta si- gnificativa è quello della digestione.
Nel settecento era opinione diffusa che la triturazione del cibo operata dallo stomaco, osservata nei gallinacei, nei quali quest’organo è assai muscoloso, ed in modo arbitrario estesa alle altre specie animali, uomo compreso, fosse una delle due cause della digestione, l’altra essendo una spontanea decomposizione putredinosa del cibo.
Spallanzani ritiene invece che la triturazione non sia una delle cause vere e proprie della digestione, ma soltanto un evento che facilita la trasformazione chimica degli alimenti da parte di sughi gastrici segregati (ossia secreti, in linguaggio attuale) dalle stesse pareti dello sto- maco e che questi, e non la decomposizione putredinosa - ossia la fermentazione - siano responsabili della digestione (dimostrerà anzi che il succo gastrico previene la fermentazione, intravedendone quello che noi chiameremmo il suo potere antisettico).
Per comprovare le sue tesi allestisce, uno dopo l’altro, ben 264 esperimenti. Innanzitutto, fa inghiottire a diversi gallinacei dei grani di cereali, a volte in forma libera, a volte collocandoli all’interno di tubicini metallici aperti ai lati: osserverà poi che i grani liberi vengono macerati e quelli protetti dalla minuta frammentazione rimangono quasi inalterati. La tri-turazione è dunque importante: ma non viene ancora dimostrata, tuttavia, la sua natura di elemento non essenziale ma solamente accessorio, facilitante la decomposizione, nè che questa dipenda dai sughi e non da un’autonoma capacità fermentativa dei cibi.
Fa allora inghiottire ai suoi volatili croste di pane di grossolana farina di mais protette da involucri metallici pervi ma che impediscono che vengano finemente spezzettate: estratti dopo alcune ore, i piccoli contenitori sono vuoti. La triturazione non è dunque essenziale e la decomposizione - in seguito alla quale il cibo si sparge nello stomaco e lascia vuoti gli involucri - può avvenire anche in sua assenza.
Tuttavia è ancora possibile che lo svuotarsi del contenitore non sia conseguenza di un’azione chimica che ne dissolva il contenuto ma dipenda dall’inzuppamento del cibo da parte del liquido gastrico: rammollito, l’alimento può facilmente scivolare fuori dal suo involucro. Occorre trovare una sostanza che resista all’inzuppamento e non abbandoni il suo contenitore per una semplice azione fisica. La carne è l’alimento ideale.
Della polpa di vitello sminuzzata viene allora collocata all’interno di cilindretti metallici aperti da un solo lato: estratti dopo qualche ora dall’ingestione questi mostrano una spiccata riduzione del loro contenuto. Ma è interessante osservare che la parte mancante è quella che corrisponde al lato aperto del contenitore: la parte ancora presente è quella che corrisponde al lato chiuso (preservata dunque dal contatto con i liquidi contenuti nello stomaco) e mantiene il colore rosso, la consistenza e tutti gli altri caratteri organolettici della carne fresca. Non è dunque un’intrinseca capacità fermentativa a provocarne la dissoluzione, ma l’azione dei liquidi gastrici con i quali viene in contatto.
Per chiunque potrebbe bastare: ma non per uno sperimentatore rigoroso come il nostro che, a conferma dei risultati, allestisce persino un esperimento “in vitro”. Dopo aver posto degli alimenti - carne e granaglie - in cilindretti di vetro e aggiuntovi del sugo gastrico, li chiude: convinto che il calore dello stomaco sia un elemento necessario ai processi che va studiando, se li colloca sotto le ascelle, mantenedoveli tre giorni.
Il risultato è ancora clamorosamente positivo.
La “beffa del verme”
Tra un esperimento e l’altro la vita di Spallanzani scorre abbastanza serenamente. Almeno fino al viaggio a Costantinopoli dove, ospite del Sultano, ha modo - antropologo e sociologo ante litteram - di studiare modi di vita e costumi delle odalische e vi si dedica con vero entusiasmo: l’abate, infatti, è tutt’altro che refrattario alla grazia femminile.
Prima di tornare in patria, soggiorna qualche tempo a Vienna, dov’è di casa: ma avverte un’insolita freddezza, un malcelato imbarazzo tanto nelle autorità dell’Imperial Regio Governo, quanto negli amici e colleghi. Viene però a sapere ben presto che, durante la sua assenza, era partita da Pavia una denuncia infamante: nel gabinetto di storia naturale della sua casa a Scandiano erano stati rinvenuti pezzi sottratti al museo universitario di Pavia per un valore complessivo di duemila zecchini.
L’accusa proviene da Giovanni Antonio Scopoli, cattedratico di Chimica e Botanica: ma è sostenuta anche da altri, in particolare da Serafino Volta, già suo allievo e poi conservatore del museo, da Felice Fontana e da Antonio Scarpa. Non contenti della denuncia alle autorità imperiali, i colleghi avevano inoltre inviato lettere a tutti i membri delle università italiane ed ai soci delle accademie scientifiche di mezza Europa, nelle quali si dava conto “dell’imprevisto e ignominioso crimine” dello scienziato italiano.
Giustamente inferocito, Spallanzani che non è uomo da arrendersi e qualora il caso sia grave, non molto prono alla virtù evangelica del porgere l’altra guancia e del perdonare, invita le autorità austriache ad aprire un’inchiesta ufficiale, che verrà condotta dal ministro plenipotenziario Wilseck. Nel corso di questa riuscirà a dimostrare che quanto rinvenuto nel gabinetto di Scandiano era stato preso solamente a prestito a scopo di studio e che gli altri pezzi mancanti all’appello (alcuni rettili ed un armadillo) erano stati da lui ceduti ad altri musei in cambio di materiale di assai maggior pregio.
Il 4 agosto 1787 viene completamente scagionato; Scarpa, Fontana e Scopoli ricevono una solenne ammonizione; Serafino Volta viene addirittura trasferito.
Tutto questo a Spallanzani non basta. Riempiti di improperi i propri nemici, architetta ai danni dello Scopoli , suo principale accusatore, un piano diabolico.
Prelevato l’esofago ad un pulcino, lo mette a macerare nell’alcool. Lo consegna poi ad un medico di Voghera, suo amico e complice. Questi si accorda con una donna, moglie di un tal Domenico Grandi, perché asserisca di avere emesso, dopo coliche violentissime, un verme: che altro non è se non l’esofago preparato dal vendicativo abate. Il complice invia poi il “parassita”, accompagnato da un’accurata relazione clinica, all’università di Pavia: all’attenzione del professor Scopoli, perché esamini il reperto ed esprima il suo parere.
Costui, accertatosi che le caratteristiche dell’oggetto sottoposto alla sua osservazione non corrispondono a quelle di alcun parassita intestinale noto, descrive questo nuovo agente patogeno, cui dà il nome di Phisis Intestinalis.
La scoperta fa molto rumore ed aumenta il prestigio e la notorietà dello Scopoli. L’incauto professore decide allora di comunicare la sua scoperta alla Royal Society of Sciences di Londra: stende una dotta relazione, l’accompagna con accurate tavole illustrative e la invia a Joseph Banks, Presidente della Società.
Ma anche Spallanzani, che non vuole esporlo al ridicolo, scrive a Banks e lo invita alla cautela nell’esprimersi a proposito del Phisis Intestinalis, raccontandogli per filo e per segno la burla ordita ai danni del collega ed i motivi che ve l’hanno indotto. Il professore londinese va però su tutte le furie e, risentito con l’abate, rompe ogni relazione con lui.
Intanto la beffa ha fatto il giro del mondo accademico italiano ed europeo, mentre Spallanzani commenta il “miracolo” di Scopoli , “unico, che non seppe farne uno simile Ovidio nelle sue Metamorfosi, per la trasformazione di un gozzo di gallina in verme.”
Amici comuni vogliono però tentare di pacificare i due nemici che, dopo numerose insistenze, accettano di incontrarsi ad una cena organizzata a questo scopo. Ma nel corso della serata lo sfortunato Scopoli viene colpito da apoplessia cerebrale: morirà l’indomani.
La stessa malattia colpirà anche Spallanzani una decina d’anni dopo, nel 1799: lo assisterà amorevolmente Antonio Scarpa pentito e ritornato amico.
I meriti dell’iroso naturalista di Scandiano non hanno certamente bisogno di molte parole per essere posti in evidenza: parlano da sé.
Vale però la pena di sottolineare che se l’importanza delle sue scoperte colloca Lazzaro Spallanzani - membro delle più importanti accademie scientifiche d’Italia, della reale Società delle Scienze di Göttingen, delle Accademie di Norimberga e di Berlino, della Royal Society di Londra - in posizione elevatissima nella storia della scienza, il grande rigore con il quale allestisce i suoi esperimenti gli conferisce un ruolo di primo piano nell’elaborazione del metodo scientifico moderno fondato da Cartesio e Galileo: tanto da far dire al De Renzi che, per il merito ed il metodo delle sue scoperte, questo infaticabile ricercatore è stato nell’ambito della biologia ciò che Galileo era stato per la fisica.
GLI ESTIMATORI
“... ce sera votre livre qui vivra, parce qu’il est fondé sur l’experience et sur la raison... Il faut rire des anciennes charlataneries et de tous les romanciers che si fanno uguali a Dio e creano un mondo con la parola”: così scrive Voltaire a Lazzaro Spallanzani in una lettera di ringraziamento per l’invio di un saggio sulla fecondazione.
L’alta considerazione del filosofo per il biologo italiano (le meilleur observateur de l’Europe) fu largamente condivisa: Victor Hugo, addirittura, fa leggere al protagonista de Le dernier jour d’un condamné à mort il secondo libro dei suoi viaggi. Von Haller gli dedica il quinto volume degli Elementa phisiologiae corporis humani. Galvani, Buffon, Volta, Lavoisier, Domenico Cirillo, Girolamo Tiraboschi gli sono amici e così Hunter e Needham, coi quali pure ebbe polemiche scientifiche. Secondo Charles Bonnet, Spallanzani ha scoperto da solo più verità di tutte le accademie in mezzo secolo, mentre Rousseau ritiene che “...il était trop en avance sur ses contemporaines pour être compris par eux...” e De Musset scrive, in La confession d’un enfant du siècle,
“...gloirete soit rendu
après l’Etre Suprême
profond Spallanzani...”
L’AFFARE DI SCANDIANO
“Vi darò qualche notizia sull’affare di Scandiano e preparatevi a sentire degli orrori.
Il Canonico (1), sott’altro nome, s’è portato a vedere il Gabinetto del Bassà (2) e n’è tornato fuori di sé, stupido quasi e con le lagrime agl’occhi esclamando che si mandano al supplizio sovente di quelli che lo meritano meno del Ladro di Scandiano...
Se l’affare prenderà quella piega che dovrebbe, il Bassà è perduto: né so quale uomo vi sarà che voglia credersi onorato della di Lui amicizia, e confidenza. Per mia fortuna l’ho conosciuto a tempo.” (3)
(1) Serafino Volta
(2) Bassà è corruzione di “Pascià”, soprannome dispregiativo dato all’abate a causa del suo viaggio in oriente
(3) M. Mattioli: Grandi indagatori delle scienze mediche - Idelson, Napoli - 1985
L’autore è grato al Prof. Violani dell’Università di Pavia per il materiale
fornito e per i preziosi consigli.
Immagini a commento:
Stemma dell’Università di Pavia
Ritratto dell’abate Lazzaro Spallanzani e la casa natale a Scandiano
Ritratto di G.L. Le Clerc de Buffon
Ritratto di Antony van Leeuwenhek
Spermatozoi disegnati da Antony van Leeuwenhek
Ritratto di Sir Joseph Banks
Ritratto di Giovanni A. Scopoli
Ritratto di Antonio Scarpa
Frontespizio del trattato di fisiologia
Il phisis intestinalis
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