Anno 7 - N. 19/ 2008


OMBRE DEL MITO DI ALESSANDRO

Degno epigono di Thomas, Klaus Mann muove le ombre del mito di Alessandro Magno

Inno orfico LXXXVII profumo di morte polvere d'incenso ... quando sciogli i forti legami della natura portando ai viventi il lungo sonno eterno, essendo comune a tutti, ma ingiusta con alcuni, quando nella rapidità della vita interrompi giovinezza al culmine; poiché in te sola tra tutti si compie ciò che è stato deciso; tu infatti né da preghiere né da suppliche ti fai persuadere.

di Giulio Cesare Maggi



Klaus Mann (Monaco di Baviera, 1906 - Cannes, 1949


Non deve essere stato facile con un padre quale Thomas Mann ed uno zio quale Heinrich per il giovane Klaus muoversi nel campo delle lettere; eppure questo giovane e precoce scrittore, suicida nel 1949 all’età di soli quarantatre anni, è stato degno epigono di una dinastia letteraria coronata dal Nobel di Thomas.
Epigono, Klaus, destinato a lasciare una traccia significativa in quella letteratura di lingua tedesca che prese le sue mosse attorno alla Repubblica di Weimar per poi trovare, almeno in parte, la via dell’esilio.
Dapprima in Amsterdam, con lo zio Heinrich, Gide e Huxley, Klaus fondò la rivista Die Sammlung, di indirizzo antinazista; in seguito si trasferì negli Stati Uniti.
In meno di trent’anni egli scrisse numerosi romanzi di successo, tradotti in numerose lingue compreso l’italiano: tra questi ricordiamo Mephysto, La morte del cigno, Vulcano, Sinfonia patetica: un romanzo su Majakowskij.
Qui ci interesserà in modo particolare il suo Alessandro. Romanzo dell’utopia comparso a Monaco nel 1929 e subito tradotto in francese (1931) con una intrigante prefazione di Jean Cocteau, dalla quale è tratto in parte il titolo di questo contributo.
Come è noto l’interesse degli storici greci e latini per le gesta di Alessandro Magno è andato trasformandosi nel corso del tempo in una declinazione leggendaria, dando vita infine ad un vero e proprio mito di questo straordinario personaggio. In particolare il Romanzo di Alessandro dello Pseudo-Callistene, nato in ambiente ellenistico, e successivamente tradotto in arabo, ebraico, persiano e turco costituì la base del Shaname di Firdusi al quale si ispirò lo stesso Goethe nel Divano, nonché del Kamseh di Nidasi, entrambi arricchiti di numerosissimi episodi curiosi e fantastici. In epoca medioevale in Occidente si verificò una ulteriore elaborazione sia in lingua francese (Le Roman d’Alexandre di Alessandro di Parigi) sia in lingua tedesca (Alexander di Rudolf von Ems).
L’aggiunta delle componenti fantastiche alla descrizione dei fatti storici fu determinante nel creare il mito di Alessandro, oltre a farne una delle letture preferite dal Medioevo fino a Rinascimento inoltrato.
La trasformazione della storia in mito è nozione antica ancor oggi accettata: lo scrittore greco Evemero (fine IV – inizio III secolo a.C.) nel suo romanzo politico Haghia agrapha ha esplicitato la apoteosi o trascendenza come trasformazione della realtà storica relativa a personaggi che si sono distinti per virtù particolarmente buone (o presunte tali) nei riguardi dell’umanità, quale premessa al mito. Quale personaggio storico più di Alessandro Magno, l’Uomo del suo secolo, era degno dell’apoteosi e per conseguenza del proprio mito? “La sua apoteosi – osserva Julien Ries – si ripercuoterà sulla esegesi del mito”.
La mitologia va quindi considerata una “storia poetica” i cui soggetti sono, accanto agli dèi, comuni mortali autori di gesta straordinarie al limite della credibilità, spesso già in “odore di santità”nel corso della vita.
L’uso interessato del mito in genere fu esso stesso motivo del suo consolidarsi e diffondersi, fino a divenire una vera e propria religione. Nel caso di Alessandro fu certamente Tolemeo I Sotère, che regnò sull’Egitto trentanove anni, a fare del cosiddetto “fondatore” della dinastia dei Làgidi, un mito, favorito per di più dalla presenza, prima a Menfi e poi in Alessandria, delle spoglie del Macedone.
Anche dopo la scomparsa della sepoltura di Alessandro, avvenuta pare per un terremoto del IV secolo d.C., il suo mito sopravvisse nella letteratura sia orientale sia occidentale: era quello di un Re potente, di un filosofo in armi, di un eroe saggio.
Da Erasmo da Rotterdam, ai Reali di Francia del XVII e XVIII secolo interessati soprattutto al tema dell’origine divina del Sovrano, al Re Pastore mozartiano, Alessandro Magno fu considerato il simbolo di quelle straordinarie virtù che fanno di un uomo un dio. Questo mito ha alle sue spalle una straordinaria anche se non sempre univoca “copertura” letteraria.
Claude Mossé paragona il Romanzo di Alessandro alla Odissea per il miscuglio tra fatti storici e narrazione leggendaria, in ciò simile ai grandi romanzi orientali, quale ad esempio Le Mille e una Notte.
A mo’ di esempio egli riferisce un episodio del Romanzo, sicuramente nato in ámbito giudaico-ellenistico, circa una visita (mai avvenuta) di Alessandro a Gerusalemme, riportata dallo storico Giuseppe Flavio in Antiquitates Judaicae, Libro XI. Richiesto da Parmenione come mai egli, Alessandro, avesse venerato il pontefice dei Giudei, “Non questi – rispose – adorai ma il Dio il cui pontefice egli sostenne [...] che mi ha detto che ogni cosa andrà secondo i miei desideri”. Volevano credere gli Ebrei d’Egitto, che Alessandro considerasse il Dio unico dei Giudei la sola divinità. Nella comunità giudaico-cristiana vi fu anche una identificazione di Alessandro a Cristo e persino a Dioniso, entrambi resuscitati a nuova e celeste vita attraverso l’ascensione iperuranica.
Ancor oggi nella tradizione popolare greca troviamo tracce di una azione salvifica, quale parte del mito di Alessandro: alcuni anni fa, in un saggio sul Macedone scrivevo: “Ci sarà pure un motivo per il quale ancor oggi i pescatori dell’isola di Lesbo, quando nel freddo inverno impossibilitati a mettere in mare le barche a causa delle condizioni avverse, vicino al fuoco bevendo mastíga e fumando il dolce tabacco macedone, invocano qual fosse un dio Magaléxandros, Alessandro il Grande, per placare i marosi ed i venti”.
Già da questi cenni risulta evidente come, rispetto alle Storie ed alle Vite di Alessandro degli storici antichi ed alla moderna esegesi storiografica in particolare del XX secolo, i Romanzi di Alessandro a cominciare da quello dello Pseudo-Callistene, sono di tutto e di più (Goukowski e Brixhe, 1978-91).

Accanto ai classici Romanzi di Alessandro sono comparsi negli ultimi anni due Romanzi su Alessandro, che entrambi hanno avuto un grande successo, uno di Klaus Mann, Alessandro. Romanzo dell’utopia (1929) e uno più recente in tre volumi Aléxandros di Valerio Massimo Manfredi (1998). Essi meritano l’attenzione di coloro che riconoscono nel personaggio di Alessandro Magno lo stigma di una vita eccezionale non solo sul piano politico e militare.
Nelle storie e nella storiografia di Alessandro ben pochi accenni vi sono circa gli aspetti psicologici del personaggio: e solo aneddotici sono al proposito i Detti e fatti memorabili di Valerio Massimo, sparsi qua e là nel testo.
Il romanzo di Manfredi, di piacevole lettura è aderente in modo libero e talora critico alle storie di Diodoro Siculo, Plutarco, Curzio Rufo e Arriano, e la sua stesura tiene fede a quanto l’Autore scrive nell’Epilogo: “Non è compito di un romanzo sciogliere problemi già ampiamente dibattuti dalla critica storiografica”.
Come nei Romanzi di Alessandro, anche in questo su Alessandro aleggia un’atmosfera evemeristica ed è lasciata al lettore l’interpretazione psicologica degli eventi e, soprattutto, del carattere e dei comportamenti del Macedone. Osserva Mossé che “come in ogni mito nulla vien tolto allo storico, ad una funzione cioè che egli non può trascurare”.
In sostanza il romanzo di Manfredi è una “storia romanzata” che non si discosta molto dalla tradizione, peraltro esposta in modo assi piacevole. Manca quindi, credo intenzionalmente, quel “filo rosso” psicologico che caratterizza l’Alessandro. Romanzo dell’utopia di Klaus Mann: qui, accanto ai fatti storici, basati soprattutto sull’Anabasi di Alessandro di Arriano, trova posto una penetrazione psicologica del personaggio, che ne rende la lettura assai intrigante ed emozionante.
Secondo Mossé, e sembra convincente seguire il suo pensiero, in un certo senso Klaus Mann fu significativamente influenzato dal malessere che in Germania seguì la fine della prima Guerra Mondiale mentre comparivano sulla scena politica le avanguardie del movimento nazional-socialista, fonte almeno nei primi anni, di una interiorizzazione psicologica quale fuga dal clima politico di non buoni auspici: di questo clima furono espressione i lavori teatrali di Brecht ed in pittura il movimento Die Brüche. Ma non solo. La dichiarata omosessualità di Klaus, della quale parla nell’autobiografia (Der Wendepunkt ossia La svolta), trovò nella vita di Alessandro, come più tardi in Majakowskij, una consonanza di gusti e intuizioni dei quali il romanzo costituisce “una visione sublimata” della diversità.
Della bisessualità di Alessandro, nella quale la componente omofila era di gran lunga prevalente, ai limiti della esclusività, fa fede il rapporto, iniziato nell’adolescenza, con Efestione, la cui morte rappresenterà una vera tragedia per Alessandro che all’etèro era infatti legato da vero amour-passion. Nel contempo, scrive Klaus “un gioioso cameratismo legava Alessandro ai suoi soldati giovani come lui. Tutti si amavano reciprocamente, nessuno di loro aveva più di venticinque anni”. Avrebbe voluto averli tutti sotto la propria tenda nelle luminose notti dell’Egeo.
I suoi etèri!: “I loro corpi nudi e abbronzati erano stati allenati al ginnasio. Nudi si muovevano con una libertà ed una naturalezza maggiore di quando erano vestiti delle loro tuniche di cuoio: poi all’improvviso si avventavano l’uno sull’altro per lottare”.
E ancora, riferendosi al giovane Pausania, ecco le parole di Klaus: “era una superba creatura di una bellezza insolente, del tutto effeminato. La sua bocca faceva impazzire uomini e donne, sulla sua fronte di avorio soave si disponevano in boccoli leggiadri i capelli sciolti, di un castano scuro dai riflessi brillanti, morbidi come la seta”.
Solo fantasia quella di Klaus o non anche il ricordo di un incontro sulla Calverstrasse a Stoccarda?
In Alessandro in quel momento “più forte di ogni altra cosa era il desiderio di essere solo un giovane tra tanti giovani, di partecipare alla loro unione che gli sembrava più splendida e più sana di quella tra un uomo e una donna”.
Questa propensione di Alessandro per i suoi coetanei era presente in lui fin dall’adolescenza; l’amore per Efestione fu, anche in seguito, il rifugio per quello negatogli da Clito, che poi uccise, forse perché non fosse di nessun altro se non nel proprio pensiero. Alla morte di Efestione i suoi sensi si sarebbero rivolti verso il giovanissimo Bagoa che Klaus presenta come ermafrodito, mentre la storia parla di un eunuco.
Se può accettarsi l’influenza platonica in questa scelta della sessualità da parte di Alessandro (egli fu allievo di Aristotele che pare volentieri ne sarebbe stato l’erastés) è certo che Klaus non avrebbe mai potuto vedere il suo personaggio come un donnaiolo: al più, ed a fatica poteva, per necessaria aderenza storica, accettare una occasionale e difficile bisessualità, come nel caso di Roxane, la moglie “politica” di Alessandro.
Tuttavia a Klaus Mann questo aspetto del personaggio Alessandro, non fece velo a quello del suo sogno utopico che avrebbe dovuto condurre ad una koiné delle genti dalla Macedonia ai confini dell’India. Una unità non solo politica, ma anche di lingua e di moneta, volta ad assicurare quella “felicità” universale che poi Epicuro avrebbe indicata nella Lettera al giovane Menèceo. Disegno certamente utopico come Klaus indica già nel titolo del suo romanzo.
Non mancano del resto nel corso della storia gli accenni critici verso Alessandro, i cui misfatti e la cui ferocia non sono sottaciuti, eventi che la storiografia antica, talora laudativa, spesso attenuò o non disse.
La orientalizzazione dei costumi ma anche del comportamento di Alessandro, il suo rifiuto dell’ethos greco che aveva costituito il principio fondante della sua adolescenza e prima giovinezza, cedeva ora il posto ad una politica che trasformava i cittadini in sudditi; rompeva cioè quella sorta di patto che lo legava ai suoi giovani al momento dello sbarco in Asia.
Con la morte di Efestione Alessandro, divenuto tiranno nell’animo e nelle decisioni, allarga il suo orizzonte utopico: “Viveva in mezzo ai suoi progetti e ai suoi calcoli smisurati, dormendo appena durante la notte, lavorando senza sosta; nel frattempo offriva dei sacrifici, riceveva degli indovini”. Alla fine la sua propensione per il vino lo rendeva crudele oltre ogni limite, fino ad uccidere Clito, che non fu suo amante ma suo fedele etèro. Utopia quindi il grandissimo progetto del Macedone, ci dice Klaus, non solo nel senso storico e politico, ma anche in un senso superiore del conflitto tra il progetto ed il divino: questo “indiarsi” ancor prima dell’apoteosi decretatagli, confligge con qualcosa di superiore a lui, pur grande, anzi “il Grande”.
Lui solo non lo comprendeva, pretendendo la proskinesis anche dai Greci: “Io governo i mari e le terreferme, le isole, i fiumi e i monti. Amministro il regno di questa terra affinché si realizzi la felicità e si adempia così la promessa. Io sono il figlio di dio e l’amante dell’umanità, io sono lo sposo”.
Ora sulla via del ritorno verso Babilonia “più si addentrava nel suo regno, più minaccioso si faceva il suo sguardo. Non lo si riconosceva, un tempo era stato febbrile ma questa calma crudele del suo volto era sconosciuta”.
Era seguito dai suoi carnefici, che erano stati quelli di Dario e Serse.
“Colui che era apparso ai paesi come un liberatore e un salvatore, si abbatteva ora simile a una sciagura”.
Cercava ora con le nozze collettive tra soldati macedoni e donne persiane – e per sé aveva la principessa Statira, figlia maggiore di Dario – un estremo tentativo da una parte di realizzare l’utopia politica della koinè, dall’altra di evitare la ribellione di un esercito che l’aveva seguito dalla Macedonia all’India. Tutto ciò lo disgustava ed atterriva al contempo: trovò requie solo tra le braccia di Bagoa, l’ermafrodito che rappresentava in un solo essere la bisessualità, della quale solo l’aspetto omofilo, malgrado tutto, lo interessava, anche ora che a trentadue anni già sembrava un vecchio, lui che era stato scolpito da Fidia per essere non solo il principe dei Macedoni, ma uno dei più bei rappresentanti del genere umano.
“Ormai Alessandro sedeva al centro di una solitudine che lo circondava come una muraglia”.
Alla fine il ritorno a Babilonia, dove avvenne un fatto straordinario: dopo un bagno nel fiume, ritornato nelle sale del palazzo, lui ed i suoi ufficiali videro assiso sul trono uno sconosciuto, un sosia, con la sua corona sul capo ed il mantello. Con un cenno Alessandro proibì ai suoi di uccidere l’uomo che aveva osato tanto, dicendo “è lo spettro della fine”. Pochi giorni dopo sarebbe morto per una malattia acuta sulla cui natura molto si è scritto e ancora si scriverà.
E qui, nel quinto paragrafo del quinto capitolo del Romanzo dell’utopia (cinque come le parti di un dramma fa notare Mossé) una visione fantastica, un sogno terribile ed al contempo liberatorio: Alessandro con Efestione e Clito risale un Eufrate orribile per la presenza di mostri marini e draghi svolazzanti attorno all’imbarcazione i cui vogatori scompaiono nel nulla, obbligando i tre eroi armati a scendere a terra, in un deserto, alle sorgenti del fiume, di fronte ad una muraglia nera e lucente che copre tutto il paesaggio senza fine all’orizzonte. Alessandro pronuncia, rivolto al muro, un discorso solenne ed insensato, una allocuzione a Macedoni e Greci: “La storia tesserà le vostre lodi assieme alle mie [...]. Nessuno è giunto fino qui, nessuno tra tutti i re d’Asia e di Europa [...]. Sapete dove siamo? Siamo alla porta del paradiso. Resta da combattere solo l’ultima battaglia, l’ultima e definitiva, e poi avremo sconfitto tutti, allora sapremo tutto”. Davanti alla muraglia, rivolgendosi a schiere che non esistevano, gridava, alla presenza di Efestione e Clito, che l’ascoltavano attoniti e perduti: “Il regno della felicità e della definitiva beatitudine sarà realizzato sulla terra quando avremo vinto anche le schiere celesti, i nostri più tenaci avversari, gli angeli. Solo allora, amici miei, solo allora!”.
Ma dice ancora il Grande Re: “Cosa avremo ottenuto se non possederemo il regno della felicità e dell’eterna beatitudine terrena?”.
Nulla potevano le loro tre spade contro la misteriosa muraglia. Anche i due amici Efestione e Clito, gli ultimi rimastigli, si dissolvono nel nulla, ridotti ad un alito di vento gelido. Alessandro adesso è veramente solo. Ed ecco, solo per l’ultima battaglia, Alessandro vede spalancarsi all’improvviso la porta della lucida e nera muraglia e si trova di fronte il condottiero dalla sfolgorante armatura d’argento, dai biondi capelli, che oppone alla spada del Re i palmi delle mani, sulle quali Alessandro scaglia le due frecce che ha con sé: le mani del principe delle schiere angeliche sono ora insanguinate e poi miracolosamente fasciate, quasi stigmate di una epifania ancora non rivelata all’uomo.
Ora l’arcangelo dalle mani insanguinate piange commiserevole, mentre Alessandro gli chiede “Sono comunque dannato?”. Non gli risponde l’essere tutta luce e carità e a sua volta gli domanda “Cosa è stato più difficile, vincere o soccombere?”. A lui Alessandro: “Nella vittoria ho avvertito già la sconfitta”.
E allora l’arcangelo, di fronte al condottiero di mille battaglie, che ha parole di pentimento e di riconoscimento di una vita dissoluta e violenta mai udite prima dalla bocca di un greco, gli confida: “Tu ritornerai, in un’altra forma”. In un supremo émpito di speranza Alessandro: “Per fondare il regno, angelo mio? Per fondare il regno?”.
In una breve pausa di lucidità dal sogno dell’agonia, Alessandro saluta i suoi veterani e giovani soldati che piangendo sfilano davanti al suo letto, poi si abbandona al mistero della morte, all’estremo ed eterno silenzio.
Una visione nuova, certamente accattivante, questa di Klaus Mann sulla figura mitica ed al contempo umana di Alessandro Magno nel Romanzo dell’utopia.
E anche se Alessandro, dice Monica Centanni, non sopravvivrà né come anima né come corpo, egli “sopravvivrà come nome: kleos, la risonanza di generazione in generazione, ripaga l’eroe dell’inevitabile mortalità”.
E, a dispetto e contro il bel sogno, quanto auspicabile, di Klaus, essa aggiunge “Sulle tracce di Eracle e di Dioniso, Alessandro non trova neppure la salvezza dell’anima che le due guide divine sulla via dei misteri, promettono agli iniziati”.
Quella cioè dei “beati” del mito orfico, anche questo negato all’eroe.
Storia di morte e di immortalità nella memoria.

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Tired with all these, for restful death I cry
W. Shakespeare, Sonnets, 66. v.1