Anno 1 - N. 2 / 2002
LE CASE MUSEO
La figura del “Principe” vero artefice dell’arte e dell’architettura
di Raffaele Giovanelli
Si verificò nella seconda metà del 1800 un nostalgico ritorno all’atmosfera del Rinascimento e del Medioevo. Questo ritorno era anche il risultato dell’ostilità verso gli esiti dell’Illuminismo e del positivismo razionali-sta allora imperante. Non si trattava quindi solo di una moda dettata dal ghiribizzo di qualche personaggio eccentrico pieno di denaro, ma di un movimento che era iniziato addirittura con il Romanticismo. Nella storia dell’arte i ritorni si alternano ai periodi di vera o presunta innovazione. La domanda che sorge è: perché il Rinascimento si fondò sulla riscoperta dell’arte classica, riscoperta che fu vitalizzante e feconda per la creazione di un’arte nuova, mentre lo stesso non si può dire per il nostalgico ritorno al Medioevo del XIX secolo?
Agli inizi del ‘900 comparve l’Architettura Moderna, che ha trovato grandissimo consenso anche e soprattutto per essersi inserita nella richiesta esplosiva di nuovi fabbricati determinata dall’economia industriale. I trionfi dell’Illuminismo erano trascorsi da ben più di un secolo quando dalla scuola Bauhus venne fondata una forma di Architettura che dichiarava di avere radici nella ragione e nella funzionalità. Si è creata l’accademia del moderno con regole in realtà altrettanto rigide di quelle che furono create da precedenti accademie. L’eliminazione dell’ornato abbatteva i costi di costruzione e dava mano libera alla speculazione edilizia, consentendo una rapidissima urbanizzazione creando zone abitative a ridosso delle aree industriali.
La conclusione di questa indagine è paradossale. La rivoluzione provocata dalla Moderna Architettura è stata possibile grazie alla meticolosa cancellazione della figura del “Principe”. Il “Principe-committente” era stato il centro motore dell’Architettura e dell’Arte. Questa figura si può riconoscere in un Papa, oppure nell’Abate di un grande monastero, nel priore di un potente Ordine Religioso, in un Capitano di ventura, nel capitano di una grande industria agli inizi dell’era industriale, in un potente finanziere, in un grande medico, raramente in un politico a causa della precarietà del suo potere. Il “Principe” è il vero artefice dell’arte. Non avremmo la grande musica sino al secolo XVIII senza i sostenitori dei grandi compositori. Fino al Settecento, ogni musica aveva avuto una sua immediata destinazione: veniva scritta per incarico del principe, della Chiesa o di una grande istituzione religiosa. La musica doveva intrattenere una corte, aumentare e consacrare lo splendore di una solennità pubblica, o rendere più profonda la devozione del servizio divino. A partire dalla seconda metà del Settecento, dai primi collegia musica, ancora a carattere privato, si sviluppò l’uso di concerti pubblici, e con essi un’autonoma vita musicale della borghesia. Si creò un libero mercato anche per le produzioni musicali e la committenza del principe scomparirà. In questo campo i risultati furono molto positivi, poiché la musica, diventando strumento per disvelare quasi esclusivamente gli intimi moti dell’animo dell’artista, assunse un carattere trascendente di grandissima spiritualità. La nascita di una nuova figura di artista porta anche a dissidi causati dal nuovo soggettivismo. Un esempio celebre è la rottura fra Mozart e il suo “principe” protettore, l’arcivescovo di Salisburgo.
La svolta decisiva tra la tradizionale composizione scritta su ordinazione e la nuova forma soggettiva, di confessione musicale, si situa fra Mozart e Beethoven, all’inizio della piena maturità di quest’ultimo: in un’epoca cioè in cui l’organizzazione dei concerti pubblici era piena- mente sviluppata e la vendita delle opere (connessa con l’esigenza di ripetute esecuzioni) co- stituiva la principale fonte di guadagno del compositore. Tuttavia, anche in questo caso il risultato della costruzione dell’arte fu raggiunto con il “martirio” spirituale dell’artista, posto sulla scena direttamente come crea- tore d’arte e insieme come oggetto dell’arte.
Nel campo delle arti figurative la figura del “Principe” è stata sostituita da una precisa politica del governo rivoluzionario in Francia. Nulla ha contribuito a diffondere l’educazione artistica quanto la costituzione e l’organizzazione dei musei pubblici. Tuttavia, questo circolo virtuoso si è stabilito quando esisteva una committenza statale, pubblica e quando esisteva uno stile, quello neoclassico, da seguire.
Fino alla Rivoluzione chi non poteva fare il viaggio in Italia non poteva vedere le opere dei grandi maestri e quindi non poteva completare la sua formazione. In Francia le opere dei grandi maestri erano nelle gallerie del re o dei “Principi”, non accessibili al pubblico. Le cose mutarono quando nel 1792 la Convenzione decise di creare un museo al Louvre, in modo da rendere accessibili le grandi opere. All’Accademia era stato tolto nel 1791 il monopolio delle esposizioni, due anni più tardi la stessa Accademia fu soppressa. Questo fu l’inizio di una radicale trasformazione del ruolo sociale della pittura in Francia.
Alla scomparsa definitiva del “Principe”, dopo la seconda guerra mondiale, sono seguiti altri attori che hanno determinato l’evoluzione dell’arte nell’ultimo mezzo secolo.
Oggi il denaro è direttamente simbolo di potere che non ha bisogno di essere rappresentato da alcuna forma o altro simbolo, che rischierebbe di offuscare la “purezza” del suo valore assoluto. Già nella morale protestante il possesso del denaro era la tangibile manife- stazione della benevolenza divina, mentre la povertà era la prova del contrario. Anzi, spendere per un ornamento, è considerata una degenerazione.
Nel 1908 il Professor Adolf Loos (1), nel “Decorazione e delitto”, aveva affermato che l’ornato, avendo la funzione di definire gerarchie sociali precostituite, per ciò stesso costituiva un fatto criminale. Il Principe dei nostri giorni soffre già della estrema precarietà della sua esistenza, affidata ad un mondo in perenne trasformazione competitiva, dove la vittoria del più forte è sancita unicamente dal possesso del denaro o al massimo dalla prospettiva di un rapido arricchimento. Le stesse regole del gioco possono essere continuamente mutate da poteri spesso oscuri, per cui può improvvisamente diventare una colpa infame ciò che prima era o lecito o accettato dalla consuetudine (2). Il concetto di arte per l’arte, nato agli inizi dell’800, è stato sin dai primi anni del ‘900 il cardine e la chiave di interpretazione di tutta l’arte. Si era creata la convinzione che la liberazione dagli infiniti vincoli a cui ogni forma d’arte era sottoposta avrebbe spalancato orizzonti infiniti alla creazione dell’arte, che venne sottoposta ad analisi “scientifiche”, cercando di mutuare dalla Scienza il sigillo della verità assoluta. I quadri vennero radiografati per scoprire i pentimenti ed i tormenti esistenziali dell’artista nel momento creativo, sottoposto a severe indagini psicoanalitiche. Le opere d’arte, incalzate dalle copie del tutto simili agli originali che le nuove tecniche rendevano possibili ad un costo infimo, assunsero un valore di feticcio e di status symbol del tutto lontano dal valore d’uso.
L’arte per l’arte è un concetto che nasce dal Romanticismo, per il quale costituisce lo strumento nella lotta per la libertà da tutte le accademie e da ogni committenza. Questo concetto è insieme la conseguenza ed il risultato necessario dell’estetica romantica.
Il Romanticismo è infatti il movimento che, con la ribellione al razionalismo ed alla scienza, in origine si era proposto solo la negazione delle regole imposte all’arte dal classicismo (la cui nascita è da ricollegare direttamente ai furori della rivoluzione illuminista). Il romanticismo si è trasformato in rivolta contro ogni vincolo, un’emancipazione da tutti i valori intellettuali e morali che improvvisamente vengono considerati e dichiarati estranei all’arte, l’arte che assume i connotati di un’entità trascendente. Per Gautier la libertà dell’arte significa già l’indipendenza dai criteri di valore della borghesia, l’indifferenza ai suoi fini utilitari ed il rifiuto di contribuire ad attuarli. L’arte per l’arte diventa la torre d’avorio in cui i romantici si ritirano dalla vita pratica. L’accordo con l’ordine costituito è il prezzo ch’essi pagano per questa loro quiete e per la superiorità del loro atteggiamento puramente contemplativo. Fino al 1830 la borghesia si era ripromessa dall’arte un appoggio ai propri fini e per questo aveva acconsentito a svolgere una propaganda politica attraverso l’arte. Ma dopo il 1830 la borghesia comincia a diffidare dell’arte, all’alleanza preferisce la neutralità e quindi fa proprio il principio dell’arte per l’arte esaltando la posizione dell’artista. Inoltre, l’arte per l’arte corrisponde alla tendenza verso la specializzazione che esplode con l’avvento della società capitalistica ed industriale. A questo punto l’arte per l’arte diventa un principio universale che attraversa i movimenti e le mode per diventare apparentemente un caposaldo dell’estetica per tutti gli anni futuri. Una certa eccezione a questa tendenza è data dalla splendida e breve fioritura dello stile e del-l’opera di Christopher Dresser (1834 - 1904), che riuscì nel progetto di creare, nell’Inghilterra del periodo post-napoleonico, un particolare nuovo stile degli arredi, in contrapposizione alla nascente produzione industriale meccanizzata.
Le Case-Museo sono state l’abitazione per eccellenza del “Principe”. In periodi storici si-mili, anche se molto lontani tra loro, si è verificato il tentativo di creare una bellezza ristretta in edifici riservati a personalità che avevano grande potere politico. Le condizioni per la costruzione di queste oasi di bellezza è data dalla contemporanea potenza politica incondizionata di pochi e dalle condizioni di confusione all’esterno ed insicurezza per il futuro. Le prime case museo, ancor oggi celebri, sorsero durante gli ultimi secoli dell’Impero Romano d’Occidente. A dare “scandalo” furono alcuni imperatori e tra i più grandi. Durazzo era stata costruita da Diocleziano, di origine illirica, come sua residenza privata, come fortezza e come sede temporanea di governo. La villa di Adriano a Tivoli è ancor oggi la più celebre villa-museo, sorta in periodo classico, con criteri innovativi per l’epoca, grazie alla cultura ed alla sensibilità artistica dell’Imperatore Adriano. Molte famiglie patrizie seguirono l’esempio facendo sorgere in molte regioni dell’Impero residenze, il cui splendore oggi appare ancora attraverso i pochi resti rimasti, per lo più mosaici come nel caso della villa di Piazza Armerina in Sicilia.
Si trattava sempre di vaste residenze poste fuori dai contesti urbani. Nessuna delle case si-gnorili di Pompei può essere classificata come casa-museo. Nessuna delle costruzioni sorte in epoca romana porta la minima traccia di difesa militare. Durante l’Impero persino le mura di difesa delle città erano più un fatto simbolico che una realtà di una qualche effettiva rilevanza militare. Le residenze che sorgeranno dopo la caduta dell’Impero avranno sempre il carattere di fortificazione, con l’avvicinarsi del Rinascimento spesso ingentilite da soluzioni architettoniche che si aprono all’interno degli edifici. Si tornerà nuovamente a tipologie prive di ogni aspetto difensivo dopo il 1600, quando la preponderanza delle capacità offensive delle nuove armi da fuoco e dei grandi eserciti nazionali renderebbe ridicola ogni pretesa di costituire una difesa militare per una sola residenza.
La figura del principe-mecenate è quasi completamente dimenticata dall’attuale critica e dalle teorie estetiche. Il principe illuminato, che cerca e raccoglie con sapienza e con gusto innovatore opere d’arte e ne commissiona di nuove, è stato relegato negli aneddoti che circondano la storia dell’Arte.
Tuttavia, l’uccisione metaforica del principe è coincisa con la sua cancellazione dal novero delle fi- gure attrici nel mondo della cultura e dell’arte. Quando oggi si deve per necessità storica far riferimento alla loro presenza, questi vengono presentati come eccentrici personaggi che, per non annoiarsi troppo, amavano circondarsi - bontà loro - di opere d’arte e di artisti ai quali spesso imponevano compiti gravosi con malvagia tirannide, resa possibile dal loro potere assoluto e non condizionato. La radice dell’arte già nel XIX secolo è stata ravvisata nella formula magica: l’arte per l’arte; qualsiasi condizionamento è da ritenersi blasfemo. La stessa pretesa di commissionare un’opera d’arte degrada il risultato, qualsiasi esso sia, a mero manufatto, al massimo il prodotto di un buon artigianato. Le conseguenze deleterie della filosofia dell’arte per l’arte sono ben lontane dall’essere esaurite. Esse sono la vera causa della distruzione dell’arte come si verificò a partire dal tramonto definitivo del periodo detto della belle epocque.
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