Anno 7 - N. 19/ 2008


IDEOLOGIA E TOTALITARISMO Trappole e ambiguità del pensiero asservito

Dove le emozioni sono forti si finisce con lo scontrarsi anche riguardo alle cose su cui si è di fatto d’accordo

Ciò che il potere totalitario cerca di ottenere è di impedire il dialogo fra le differenti posizioni. Cinici e dogmatici, che occupano le “alture dominanti” della società, vanno a braccetto per reprimere critici e dissidenti, o perlomeno per annegarne le prese di posizione sotto un diluvio di documenti ortodossi.

di Paolo Brera




Nessuna società totalitaria manca di un’ideologia ufficiale. L’ideologia giustifica la realtà totalitaria regolando il pensiero dei componenti la società. Tutti quanti – ad eccezione di un piccolo numero di emarginati – affermano pubblicamente la propria fede nell’ideologia. Se osserviamo questo fenomeno dal di fuori, ci appare mostruoso. Abbiamo spesso la sensazione che questa apparente fede assoluta si debba solo alla coercizione politica; ci domandiamo, per esempio, se nel 1985 l’operaio di Novosibirsk credesse davvero di appartenere alla classe dominante dell’Unione Sovietica, oppure a proclamare la propria convinzione lo inducesse la paura di essere trasferito duemila chilometri più a nord est, a fare conoscenza con le gelide steppe della Jacuzia. La paura, tuttavia, non può spiegare tutto. Le ideologie esistono anche nei Paesi non totalitari. Negli “Iran-Contras Hearings” il colonello Oliver North, uno degli imputati, ha asserito di aver difeso la democrazia americana nel momento stesso in cui ne sfidava l’organo supremo del potere legislativo. Questa posizione di principio non poteva arrecargli il minimo vantaggio; non è dunque nella paura che dobbiamo cercare il motivo di essa. Sembra evidente che nelle ideologie vi siano meccanismi potenti che un regime totalitario può rafforzare e usare ma che non può progettare, né realizzare.
Le pagine che seguono sono dedicate all’analisi di alcuni meccanismi propri delle ideologie e all’applicazione di essi nei regimi totalitari.

L’ideologia è un modo per concepire la realtà. Guardiamoci bene dal considerarla soltanto come un sistema di pensiero individuale. Essa è tale solo al limite; prima di ogni altra cosa, però, è un fenomeno sociale la cui natura è di essere condivisa da più individui. A distinguerla dai sistemi di pensiero cui si rifanno gli individui (sistemi che sono anche sistemi di comportamento) è appunto il suo carattere collettivo.
Il marxismo, il cattolicesimo, il liberalismo, per fare tre esempi di grande importanza, sono innanzitutto forze sociali. A differenza dei sistemi di pensiero individuali, le forze sociali non hanno bisogno di essere coerenti per essere efficaci. Pareto ha detto che vi sono idee errate che sono salutari per la società e idee giuste che la mettono in pericolo (le sue stesse dottrine sono un esempio del secondo tipo). È nel suo spirito che ho cercato di condurre l’analisi dell’ideologia, partendo dalla considerazione di essa come complesso di affermazioni con differenti valori di verità.

Valore di verità

Un’affermazione può essere vera o falsa, come avrebbe detto il sire di La Palice se non fosse prima morto davanti a Pavia. Può anche essere indecidibile, come nel celebre paradosso del mentitore («In questo preciso momento sto mentendo»). Questo paradosso può essere enunciato in una qualche forma allargata, come per esempio

A1. L’affermazione B1 è vera.
B1. L’affermazione B1 è falsa.

O ancora

A2. La B2 è vera.
B2. La C2 non è falsa.
C2. La A2 è vera.

La teoria dei tipi logici di Russell e Whitehead propone un modo per evitare, nel campo della logica, questo genere di complessi indecidibili. Prendo a prestito la trattazione che ne viene fatta da Stefano Pedrioli in http://www.netmeta.com/tesi/autoref/mate/russell.htm (nella pagina htm non viene indicato l’autore):
Questa teoria instaura una gerarchia di tipi logici che non può (non deve!) essere infranta. Gli oggetti di una classe sono di un tipo logico inferiore rispetto alla classe; «qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione» (Watzlawick, trad. it., p.189). Le classi ad “auto-ingerimento” sono, dunque, “prive di significato”. Una classe di classi, cioè una metaclasse, non è propriamente una classe. Dire che l’insieme di tutti i concetti è esso stesso un concetto è “privo di significato” poiché è un ‘concetto’ di un tipo logico superiore.
Questa gerarchizzazione è un po’ artificiosa ma, se accettata, pone un freno alla circolarità ricorsiva innescata dalla autoreferenza.
Bisogna concordare con Pedrioli che la gerarchizzazione è artificiosa.
Non ho a disposizione lo spazio necessario per esaminare in dettaglio il rapporto tra le affermazioni cui faccio riferimento sopra e i tipi logici, ma ricorrerò di nuovo a Pedrioli:
La Teoria dei tipi logici, nell’ambito delle definizioni paradossali, non ha alcun effetto, poiché non vi è nessuna regola linguistica che mi proibisce di dire : “Io sto mentendo”. Lo stesso Russell, conscio della questione, anticipò la teoria dei livelli di linguaggio nella sua introduzione al Tractatus Logico-Philosophicus suggerendo che
«ogni linguaggio ha, come dice Wittgenstein, una struttura della quale nulla può dirsi in quel linguaggio, ma che vi può essere un altro linguaggio che tratti della struttura del primo linguaggio e possegga a sua volta una nuova struttura, e che tale gerarchia di linguaggi può non aver limite» (Russell).
Nel linguaggio quotidiano, però, non è possibile imporre una rigida compartimentazione dei livelli ; e disfarsi del paradosso di Epimenide bollandolo come “privo di significato” è un po’ troppo semplicistico.
Gödel ha mostrato, in effetti, che dove si ha a che fare con un linguaggio capace di costruire un numero infinito di affermazioni, ci si scontra sempre con qualche affermazione indecidibile, cioè con qualche paradosso. E il fatto è che tutte le lingue concrete sono perfettamente in grado di generare un numero infinito di affermazioni. Nei più variegati àmbiti del sapere vi sono state ricerche che hanno provato che i paradossi sono frequenti nella vita umana e perfino in quella animale. Potremmo citare, uno in fila all’altro, i nomi di Sartre, Merleau-Ponty, Bateson, Watzlawick, Laing, Jackson, Beavin, Esterson, Lorenz.
C’è un’altra categoria di affermazioni che mi pare sia sfuggita all’attenzione: quella delle affermazioni che potremmo chiamare “inservibili”(2), o vuote, perché sostanzialmente autoreferenziali. Il loro modello è l’affermazione: “In questo preciso momento sto dicendo la verità”. Questa affermazione è vera se è vera ed è falsa se è falsa: senza alcuna contraddizione, ma anche senza alcuna possibilità di decidere se sia vera o falsa.
Allo stesso modo delle affermazioni indecidibili viste sopra, le affermazioni inservibili possono a loro volta essere svolte in un numero n di affermazioni riferentisi le une alle altre. Così come le singole affermazioni, anche questi complessi possono essere nel loro insieme indecibili o inservibili.

L’ambiguità
Nell’algido mondo della logica ogni affermazione significa qualcosa di assolutamente preciso. Ogni affermazione, pertanto, può essere solo assolutamente vera, assolutamente falsa, assolutamente indecidibile o assolutamente inservibile, e non può esserlo solo in modo parziale. Per di più il suo valore di verità è una qualità per così dire intrinseca, che non dipende né da un osservatore, né da un processo di verifica, né dal tempo necessario alla verifica stessa. Ma questi dettagli ignorati dalla logica fanno parte a pieno diritto della realtà, e non possiamo non tenerne conto.
Frege ha distinto nei concetti il nome (per esempio: “Giorgio Napolitano”), l’intensione (in tedesco Sinn: nel caso di “Giorgio Napolitano”, l’intensione è “il presidente della Repubblica Italiana”) e l’estensione (in tedesco Bedeutung: l’individuo concreto, appartenente al mondo reale, che si chiama Giorgio Napolitano e ricopre il ruolo di presidente della Repubblica Italiana). Frege è arrivato fino a indicare che per una medesima estensione potevano esserci più intensioni (definizioni): è infatti indifferente, per esempio, riconoscere i “cani” dal fatto che abbaino oppure che latrino, visto che le due intensioni “l’animale che abbaia” e “il quadrupede che latra” hanno entrambe come estensioni i cani. Ma il filosofo tedesco non ha badato né al fenomeno delle definizioni affettive né alle ambiguità che in qualunque lingua sono insite nelle parole o nascono dai contesti in cui sono impiegate.
Un primo problema che sorge quando si esaminano le idee consiste nel semplice fatto che le idee si devono esprimere in parole, però una medesima parola può designare un insieme differente di cose per le diverse persone che la usano. Questo avviene in modo a volte eclatante se si ha a che fare con una traduzione. Ammettiamo di parlare con uno zoologo inglese e di sentirci dire “Cats can be very dangerous to humans”. Se noi non conosciamo bene l’inglese, o se l’interprete di cui ci serviamo non conosce benissimo una delle due lingue, la traduzione potrebbe esserci data come “I gatti possono essere molto pericolosi per gli esseri umani”. Sembra una castroneria? Non lo è, e chi profferisce quella frase (in inglese) non è un mentecatto. Il fatto è che la parola “cat”, in inglese, significa propriamente “felino”: benché di solito si usi per il micio di casa, è altrettanto applicabile ai leoni, alle tigri e alle pantere.
Nella vita di tutti i giorni vi è sovente ambiguità anche quando si parla la stessa lingua: non solo le singole parole, ma anche intere proposizioni possono assumere significati differenti per chi parla e chi ascolta. Non posso argomentare in dettaglio (non c’è abbastanza spazio), ma faccio un solo esempio: una frase come “Se la vedeva, non diceva cavolate del genere” è univoca nel linguaggio colto ma ha due significati distinti in quello corrente: “Quando la vedeva, non diceva sciocchezze del genere” e “Se l’avesse vista, non avrebbe detto sciocchezze del genere”. Esistono poi le implicazioni affettive delle parole: un seguace di X, leader dell’opposizione, potrebbe dire “Quello scemo di Y oggi è presidente del Consiglio”, e se è ovvio che un fedele ipsiloniano non sarebbe d’accordo sull’aggettivo sostantivato, non avrebbe a rigor di logica nulla da obiettare al resto della frase. Dove le emozioni sono forti si finisce con lo scontrarsi anche riguardo alle cose su cui si è di fatto d’accordo.
Nonostante tutto, però, gli esseri umani si parlano, e la comunicazione, sebbene risulti sempre imperfetta, è pur sempre possibile. Per sapere se una certa affermazione è vera o falsa, coloro che si impegnano in un dialogo applicano un procedimento di verifica che dev’essere necessariamente concordato fra loro.
Si potrebbe sostenere che occorra sbarazzarsi delle ambiguità chiarendo meticolosamente ciò che si vuol dire. Questa aspirazione alla precisione ha visto la luce con la Scuola dei Nomi nella Cina dei Regni Combattenti, alcuni secoli prima di Cristo. Per la gioia delle case editrici Treccani e Larousse, negli atti espressivi degli esseri umani si assiste in effetti a una miriade di tentativi di chiarificazione.
Ma questi tentativi hanno un limite necessario nell’umana finitezza. Il lavoro non è mai concluso, e non solo perché ciascuna parola deve essere chiarita con altre parole, ma anche perché una vera chiarificazione non è altro se non la descrizione completa, a partire da una parola o da un concetto, di tutte le relazioni di cui è intessuto l’universo, e questo è ovviamente al di sopra delle possibilità umane.
Abbassiamo le nostre arie, cari cospecifici. I chiarimenti devono essere limitati nel numero e nella profondità, altrimenti non si finisce più ed è meglio smettere senz’altro di parlare e cercare la via per dire qualcosa senza affermare e senza negare: attraverso l’azione, come insegna il buddismo Zen. Ogni atto espressivo può essere spiegato (parzialmente) con il rinvio al suo “contesto” (Saussure) oppure a un “gioco linguistico” (Wittgenstein, che per parte sua resta un grande seminatore di confusione). E per determinare il valore di verità di un’affermazione si deve fare ricorso a un procedimento di verifica.

Verifica e falsificazione
Sbarazziamo la discussione da una possibile obiezione. Karl Popper insegna che un’ipotesi scientifica non può essere verificata, ma solo falsificata: è possibile cioè dimostrare che sia falsa, mai che sia vera. Le ipotesi scientifiche sono affermazioni generali in un contesto particolare. Nella scienza, le definizioni (intensioni) e i loro referenti reali (estensioni) sono univoci, e i processi di falsificazione solo raramente sono oggetto di controversia. Al di fuori dell’àmbito scientifico ci sono affermazioni prive di qualsiasi generalità i cui processi di verifica sono necessariamente controversi. “Mitterrand ha svolto bene il suo mandato di presidente della Repubblica francese” e “Gorbaciov è sempre stato sincero nella sua volontà di riformare l’Unione Sovietica” sono due esempi tratti dalla storia recente. Come verificare? La dottrina di Popper è preziosa nel suo campo specifico ma non si può applicare al di fuori di esso.

I procedimenti di verifica
Posti di fronte all’ambiguità, gli esseri umani possono comprendersi solo se riescono ad accordarsi sui procedimenti mediante i quali una affermazione può essere verificata. Notiamo che l’accordo su un procedimento di verifica non presuppone necessariamente l’accordo sulle definizioni: pochi negherebbero la sostanza dell’affermazione “Quel genio di Berlusconi è stato eletto dalla destra”, anche se non tutti sono disposti a concedere che Berlusconi sia un genio. D’altro canto, non dobbiamo aspettarci che un qualsiasi procedimento di verifica sia accettato da tutti: il “genio maligno” di Descartes avrà sempre ragione degli uomini di buona volontà, e uno schizofrenico possiede il medesimo potere.
Meglio dirlo fin d’ora: i procedimenti di verifica non sono né razionali (salvo alcuni) né oggettivi. Sono sempre soggettivi e nella stragrande maggioranza dei casi anche irrazionali. Infinite margherite sono state sacrificate, petalo dopo petalo, alla verifica dell’affermazione “M’ama”. E riflettiamo che il procedimento di verifica più generalmente accettato è quello di controllare se me l’ha detto la mamma quando ero molto piccolo.
Ecco allora una delle funzioni dell’ideologia: predisporre una panoplia di procedimenti di verifica preconfezionati, atti a rafforzare certe affermazioni esplicite od implicite concernenti prima di tutto l’ordine sociale. Queste affermazioni devono restare ambigue, perché se il loro significato fosse compreso con esattezza le si potrebbe più facilmente respingere.
E tuttavia, porre in tal modo il problema dell’ideologia non significa confondere la questione della verità e quella del valore (nel senso di Gunnar Myrdal)? Eh sì. Bisogna ammetterlo. Ma c’è un motivo serio per farlo, poiché nella realtà sociale, cioè al di fuori del dominio delle scienze naturali, le due questioni sono il più delle volte confuse. Affermazioni come “Il marxismo porta all’eguaglianza fra gli uomini”, “Il liberalismo conduce al massimo di libertà per tutti”, “I buoni cristiani vanno in Paradiso” non possono essere verificate in un modo accettato da tutti (l’accordo non si riesce mai a trovare), però è chiaro che 1) esse sono fondamentali per l’ideologia corrispondente, 2) se tutti ne accettassero la verità, ben pochi si sentirebbero di respingere le ideologie corrispondenti. Una parte importante dell’attività teorica dei marxisti dell’Est europeo mirava a impedire l’adozione, per la prima di quelle affermazioni, di un procedimento di verifica quale “Constatare se nei Paesi che si rifanno al marxismo esista o meno l’eguaglianza sociale”.

Affermazioni complesse
L’ambiguità di ogni lingua permette di formulare affermazioni complesse, che – senza parere – si riferiscono a diverse estensioni ad un tempo.

A4. Il cielo è blu e la B4 è vera.
B4. Il mare contiene dell’acqua e la A4 è falsa.

Frasi ridicole, senza dubbio. Perché sono la caricatura di qualcosa che nella realtà si incontra molto di frequente.
Se si vede che una dottrina permette di spiegare in maniera soddisfacente una data situazione, in questa spiegazione si può leggere in controluce, senza troppo esagerare, l’affermazione che la dottrina in questione può spiegare altrettanto bene anche altre situazioni e perfino tutte le situazioni. (A volte, beninteso, questa seconda affermazione è affidata alla comunicazione analogica, nel senso di Bateson e Watzlawick.) Consideriamo allora questo schema:

A5. Il marxismo spiega in modo soddisfacente le trasformazioni sociali, e le B5, C5, ..., ..., X5 sono vere.
B5. Il marxismo spiega in modo soddisfacente la rivoluzione industriale, e la A5 è vera.
C5. Il marxismo spiega in modo soddisfacente la rivoluzione del 1848, e la A5 è vera.
X5. Il marxismo spiega in modo soddisfacente la rivoluzione khomeinista, e la A5 è vera.

È certo possibile separare le due affermazioni contenute in ciascuna delle affermazioni A5...X5, per poi assegnare a ciascuna delle parti il valore di verità che le compete. È possibile… tuttavia, niente ci obbliga a farlo; e farlo, in molti casi, non solo può risultare davvero arduo, ma per poco che l’azione di scioglimento del nodo avvenga in qualche arena pubblica, avremo continuamente a che fare anche con l’implacabile flak di coloro che non hanno interesse a che sia fatto. Possiamo certamente leggere con diletto Le lotte di classe in Francia di Marx, e vederci una plausibile spiegazione di quanto è successo in quegli anni lontani, e tuttavia non concedere A5. Però provate ad assegnare un valore “vero” o “falso” all’affermazione “I capitalisti sfruttano i lavoratori”! Agli occhi di un marxista, la semplice esistenza di un profitto basta a dimostrarla, perché Marx definisce lo sfruttamento come estrazione di un plusvalore, e il profitto viene considerato da lui come una delle forme del plusvalore.
Poiché agli occhi di Marx il capitalismo è una formazione sociale più avanzata di quella feudale, Deng Xiaoping non era certamente antimarxista quando diceva, a scorno e rabbia delle Guardie Rosse, che «lo sfruttamento capitalistico ha i suoi pregi», in preparazione del Grande Paradosso di una Cina in cui un partito marxista governa su una società dedita al più selvaggio capitalismo. Però l’operaio francese o italiano che si avvicinava al marxismo negli anni Cinquanta del secolo scorso non intendeva l’affermazione “I capitalisti sfruttano i lavoratori” nel suo senso anodino e para-scientifico: la riteneva vera perché lui personalmente si sentiva sfruttato nel senso corrente di questa parola. La scissione della società in più gruppi diversi, che non danno alle parole il medesimo senso, favorisce il mantenimento delle ideologie. Per la sopravvivenza del marxismo in Occidente erano necessari tanto gli intellettuali capaci di discutere con freddezza quanto i sindacalisti frementi di indignazione. E i due sensi dell’affermazione riportata sopra non possono realmente essere separati nell’architettura del marxismo in quanto forza sociale.

Il tempo – e altri valori di verità
Se si intraprende la verifica di A5, occorrerà prendere le B5...X5 e formarsi un’opinione sulla loro verità. Questo richiede tempo e sforzi mirati. Prima che tale procedimento sia portato a termine, per l’osservatore la A5 non è né vera né falsa, e neppure indecibile o inservibile. È semplicemente ancora da verificare, dunque “verificabile”. Se l’osservatore, pure convinto del procedimento di verifica necessario, non è in grado di applicarlo, l’affermazione è “inverificabile”. Se l’osservatore non vuole verificarla – nessuno potrebbe mai obbligarmi a verificare l’affermazione “posso andare a piedi da Bruxelles a Pechino in meno di 80 giorni” – allora è “insignificante”. Siamo di fronte ad altrettanti valori di verità, non riconosciuti dalla logica ma di sicura importanza nella vita di tutti i giorni.
Nella realtà le affermazioni inverificabili sono pochissime. Se il tema è importante per qualcuno (chiunque sia), costui saprà darsi qualche mezzo per verificare l’affermazione, magari un mezzo profondamente irrazionale. “C’è una vita dopo la morte”: il solo procedimento razionale per verificare comincia dall’importante azione di morire. Ora, fra i vivi non sono pochi coloro che sostengono a spada tratta quell’affermazione. A colpo sicuro, hanno adottato qualche procedimento di verifica irrazionale.
Consideriamo ora una versione modificata di un’affermazione inservibile:

A6. Io dico sempre la verità.

O anche

B6. Io sono una persona sincera.

A rigore, una tale affermazione non è inservibile, perché non è totalmente autoreferenziale e si presta a una qualche verifica e perfino a una falsificazione popperiana in piena regola. Questa singola affermazione assomiglia, in effetti, alla serie A5, B5...X5 nel suo insieme. Ma una volta di più occorre accantonare il rigore per poterci spiegare la vita. Il processo di verifica potrebbe essere molto lungo e faticoso. Ora, se la questione di sapere se “io” dico la verità è importante e urgente per te, gentile lettore, non sarà da parte tua del tutto privo di logica limitarti a verificare se, almeno in un certo numero di casi, “io” ho detto oppure no la verità. In fin dei conti, questo è ciò che fanno le banche prima di concedere un prestito (la radice della parola “credito” è la stessa di “credere”). Questa verifica parziale si fermerà nel momento in cui avrai acquisito una ragionevole fiducia di non ingannarti sul mio conto (oppure… di non essere ingannato). A quel punto attribuirai a B6 quello stesso valore di verità “probabilmente vero” che sta alla base della maggior parte delle operazioni speculative in Borsa.
Si può dare un valore di verità “probabilmente vero” anche ad altre affermazioni: “Si può andare in auto da Milano a Parma in 50 minuti”, per esempio; ed uno “probabilmente falso” a “Si può andare in auto da Milano a Parma in 30 minuti”.
Che cosa succede però se in un procedimento di verifica di un’affermazione generale i risultati parziali sono discordi, cioè se alcuni rendono il valore di verità “vero” o “probabilmente vero” ed altri “falso” o “probabilmente falso”?

In questo caso, l’osservatore può scegliere fra le seguenti alternative:
1) Dichiarare che A6, oppure B6, è puramente e semplicemente falsa. Questo agli uomini politici americani avviene spesso, anche se non sempre: Gary Hart ed Elliot Spitzer hanno visto la loro carriera politica stroncata, Bill Clinton no.
2) Dichiarare che il procedimento di verifica è stato male applicato nei casi che smentiscono A6 – il che equivale ad adottare un altro procedimento di verifica.
3) Dichiarare che A6 è “abbastanza vera” – e siamo di fronte a un ulteriore valore di verità: “io” dico il vero più spesso di quanto non menta; “io” sono “abbastanza sincero”; non è necessario diffidare molto di “me”. Ovviamente, se qualcosa può essere “abbastanza vero”, potrebbe anche risultare “abbastanza falso”.

Le affermazioni del tipo A6 servono a chi le emette per ottenere la fiducia degli altri.
La mentalità comune, come ha osservato Edward De Bono, accetta come criterio di verità la ripetizione frequente: detto altrimenti, un procedimento di verifica molto diffuso consiste nel “vedere se l’affermazione è ripetuta spesso”. La propaganda dei partiti politici e la pubblicità approfittano a piene mani di questo atteggiamento semplicistico.
C’è dunque un qualche vantaggio nel formulare affermazioni del tipo A6 o B6. E qualche rischio: c’è anche gente che si domanderà perché uno ripete tanto spesso di essere sincero, se non per il motivo che ha qualche bugia da nascondere. Il che, il più delle volte, è vero, e sfido chiunque a smentirmi con un procedimento di verifica che anche minimamente regga.
Strutture per certi versi simili a quella della A6 si possono osservare in molte se non tutte le ideologie. Per fare un esempio:

D7. Il marxismo è il sistema di pensiero corretto.
C7. Il marxismo è l’ideologia del proletariato.
B7. Il proletariato è la classe più avanzata della società in questo periodo storico.
A7. In ciascun periodo storico, l’ideologia corretta è quella della classe più avanzata.

Questo sistema di affermazioni è del tutto coerente e le singole affermazioni possono essere sottoposte a procedimenti di verifica che non appaiono d’acchito privi di senso. L’insieme è inservibile, perché suona più o meno come “Secondo il marxismo, il marxismo dice la verità”. Però succede una cosa interessante. La verifica, se uno volesse farla, dovrebbe necessariamente prendere in considerazione le singole affermazioni in momenti successivi. Ora, A7, B7 e C7 potrebbero risultare agli occhi di un osservatore “probabilmente vere”, e se ne dedurrebbe la “probabile verità” di D7. Da ciò deriva abbastanza naturalmente, per il nostro modo di pensare, una più probabile verità di B7, perciò anche di A7, C7 e D7. Poiché il procedimento di verifica richiede tempo per svolgersi, in tutto questo tempo l’osservatore avrà l’impressione di ricevere sempre nuove conferme dell’esattezza del marxismo. È più o meno quel che succede allo spirito dubitoso che segue i precetti di Blaise Pascal e dunque comincia ad andare in chiesa e a comportarsi come se credesse in Dio: poiché il sistema è coerente, in virtù di questo “effetto Pascal” il dubbioso approderà a una piena fede in Dio(3).
Facciamo un altro esempio, tratto da un’altra tradizione.

A8. Il Vangelo è rivelato da Dio.
B8. La Chiesa si basa sul Vangelo.
C8. La Chiesa è voluta da Dio.
D8. Dio salva le anime dei membri della Chiesa.

È ovvio che la relazione fra le diverse affermazioni può sempre essere negata: potremmo per esempio dire che il Vangelo non è verità rivelata, che la Chiesa non si basa sul Vangelo, che non è voluta da Dio e che Dio non ne salva i membri. Ma la continua ripetizione di questi complessi abbastanza coerenti ha la funzione precisa di diminuire i dubbi che possono insorgere in sé stessi e negli altri. Dal fatto che gli ebrei hanno contribuito alla storia spirituale dell’Umanità in misura molto maggiore di quanto competerebbe loro sulla base della consistenza numerica delle comunità ebraiche non deriva, almeno non per necessità logica, che siano il Popolo Eletto da Dio, ma qualunque ebreo può, se così gli piace, vedere in ciò una conferma della sua fede vacillante, se prova qualche bisogno di rafforzarla.
Nelle ideologie esistono anche complessi di affermazioni, più o meno esplicite, che sono indecidibili. Un esempio, preso a prestito dal defunto marxismo esteuropeo:

A9. L’evoluzione delle ideologie dipende da quella della struttura economica.
B9. Quando nella struttura si produce un salto qualitativo, l’ideologia precedente è superata.
C9. Il marxismo non è superato(4).
D9. Il marxismo è il sistema di pensiero dei Paesi socialisti(5).
E9. Il socialismo rappresenta il superamento del sistema capitalistico (in altri termini, la struttura economica del socialismo è più avanzata di quella del capitalismo).

Il complesso A9…E9 è indecidibile (ricordare C7-B7, il marxismo è l’ideologia della classe più avanzata della società capitalistica). Ma in Europa orientale molti intellettuali hanno potuto a lungo credere vera ciascuna delle affermazioni A9…E9, necessarie per giustificare l’ordine sociale dei Paesi comunisti così come l’opposizione all’Occidente. Il complesso A9…E9 costituisce una di quelle “nozioni di malafede” di cui parla Jean-Paul Sartre.

Separazione e complicazione
La vacuità dei complessi come A7…D7 o A9...E9 deve ovviamente restare celata perché la fede in una determinata ideologia possa sopravvivere nella società. Il metodo più efficace per conseguire questo risultato è quello della complicazione, alla quale occorre aggiungere la separazione.
Infatti non c’è nessuna legge umana o divina che imponga ai mortali di presentare le affermazioni del complesso tutte insieme e in una forma così esplicita (starei per dire crassa) come quella che ho adottato sopra. Una tale forma giova all’esposizione, ma nuoce alla preservazione dell’ideologia, poiché prima facie simili complessi appaiono indecidibili o inservibili solo se li si può abbracciare per intero con un singolo colpo d’occhio.
Il procedimento della separazione è a sua volta molto opportuno quando bisogna difendere due affermazioni contraddittorie, tipo

A10. Un cristiano deve porgere l’altra guancia quando viene offeso.
B10. I cristiani hanno fatto bene a scatenare le Crociate per riprendersi il Santo Sepolcro.

Se si riesce a imporre due procedimenti di verifica separati e diversi, che si svolgono in tempi distinti, senza sovrapposizione, il cristiano potrà fare l’economia di parecchi esami di coscienza e giurare senza problemi tanto su A10 quanto su B10. Nelle scuole cattoliche, per esempio, si può studiare Pietro l’Eremita nelle ore di storia e il Vangelo in quelle di religione.
Un esempio matematico può illustrare la potenza della complicazione come metodo per occultare un’incoerenza.
Equazioni e disequazioni, in matematica, sono affermazioni riguardo due espressioni matematiche, scritte su lati diversi del segno uguale o dei segni di disuguaglianza.
Prendiamo dunque questo sistema di equazioni:

A11. a = b
B11. a > b
C11. a, b > 0

È immediatamente visibile che si tratta di equazioni incompatibili, perché a non può nello stesso tempo essere uguale a b e maggiore di b. Tuttavia noi possiamo applicare alle equazioni operazioni legittime e trasformarle in quelle equivalenti

A11’. xa = xb
A11’’. xa = xb/2 (per x > 0 )

B11’. ay > by (per y > 0 )
B11’’. ay > by-x
B11’’’. a/b > 1

Ora, il sistema

xa = xb/2
a/b > 1
ay > by-x
a, b, x, y > 0

è formato da equazioni altrettanto incompatibili fra loro di A11 e B11, solo che rendersene conto è un po’ più difficile.
Si sentono spesso gli ideologi replicare, reagendo alle critiche portate al loro sistema di pensiero, che i critici «non lo conoscono» oppure che attaccano «una volgarizzazione». Se il critico, lasciano intendere, penetrasse appieno l’eccezionale «ricchezza» (come dire: complessità) del sistema che prende di mira, si guarderebbe bene dal profferire simili scemenze.
Già, ma ben pochi critici sono disposti a imbarcarsi in uno studio così approfondito dell’ideologia criticata da non risvegliare nessuna obiezione da parte degli ideologi – e chi lo facesse dovrebbe temere “l’effetto Pascal”. La dottrina economica contemporanea è al 90 per cento inservibile, perché non aiuta in nulla a comprendere l’evoluzione dell’economia. (Chi vuole divertirsi legga quello che ne scrivono Gunnar Myrdal, John G. Galbraith e Lester Thurow, il cui insegnamento invece è utile.) Però chi intendesse sottoporre a una critica dettagliata la dottrina altamente matematizzata che si insegna nelle università anglosassoni, dovrebbe accettare di passare otto anni a studiarla. Alla fine di questo periodo, che è sufficiente perché ogni singolo atomo del nostro corpo sia rimpiazzato da un altro, è però inverosimile che abbia voglia di confessare a sé stesso di aver buttato un tempo così lungo a studiare della pura e semplice spazzatura. È più probabile che finisca per trovarci almeno qualcosa di buono, e si goda i vantaggi associati a un Ph.D. al Mit.
La critica più demolitrice che si possa esprimere nei confronti di una teoria, diremo con l’economista matematico Morgenstern, consiste nel dichiararla insignificante.
Il campo di applicazione di un’ideologia si estende all’insieme delle discipline intellettuali. Per questo diventa di fatto inevitabile una sua segmentazione lungo le linee delle discipline suddette. Questo favorisce la conservazione dell’ideologia, perché rende più laboriosa una critica veramente complessiva. Per di più, la segmentazione crea nei diversi settori qualche difensore dell’ideologia che non sarebbe necessariamente tale se l’ideologia conservasse in modo evidente la sua unitarietà.
Il tale o talaltro economista marxista può trovare Marx poco convincente nella dismal science, ma apprezzarlo invece nella sua veste di filosofo; un filosofo marxista potrebbe senza imbarazzo sposare la convinzione opposta. Entrambi si dichiarerebbero marxisti e difenderebbero a spada tratta la dottrina di Marx nelle discussioni – almeno fino al primo seminario interdisciplinare, in cui l’orribile verità sarebbe finalmente esposta in tutta la sua laidezza.
Se questi due marxisti arrivassero a prendere in considerazione l’idea che Marx non valeva poi gran che né come economista né come filosofo, sarebbero ovviamente marxisti critici. Il che ci porta all’ultimo punto di questo articolo.

Quali atteggiamenti verso l’ideologia dominante possono essere integrati in un sistema totalitario?

Quali atteggiamenti verso l’ideologia dominante possono essere integrati in un sistema totalitario? In via di principio tutti – purché restino molto minoritari! Ma vediamo di approfondire. In un Paese totalitario, l’ideologia del regime può in effetti essere considerata dai singoli individui:

1) Vera (posizione dogmatica);
2) Abbastanza vera (posizione pragmatico-ortodossa);
3) Probabilmente vera (posizione disimpegnata);
4) Insignificante (posizioni cinica).

I pilastri dell’ordine sociale totalitario sono gli atteggiamenti cinico, ignorante e dogmatico (in questo ordine!). La posizione disimpegnata, così tipica dei tecnici, è a sua volta un sostegno formidabile; ma ha la sgradevole tendenza a evolversi verso altre posizioni, esattamente come la posizione che ho chiamato pragmatico-ortodossa.
Il rischio è ancora più forte per la posizione critica. I dissidenti sono un pericolo solo se sono in grado di influire sugli altri: il Diavolo non ha mai distrutto nessuna Chiesa, le eresie l’hanno fatto a più riprese nel corso della storia umana.
Ciò che il potere totalitario cerca di ottenere è di impedire il dialogo fra le differenti posizioni. Cinici e dogmatici, che occupano le “alture dominanti” della società, vanno a braccetto per reprimere critici e dissidenti, o perlomeno per annegarne le prese di posizione sotto un diluvio di documenti ortodossi.
La difesa dell’ideologia non si realizza solo con mezzi repressivi. Si realizza anche scoraggiando le vedute d’insieme (come ho detto prima, la segmentazione favorisce il mantenimento dell’ortodossia), imponendo nella comunicazione formule fisse il cui procedimento di verifica generalmente accettato è la ripetizione stereotipa (come nel newspeak di Orwell, la cui funzione è precisamente quella di rendere impensabile il “crimethink”), e complicando tutto in modo da scoraggiare la ricerca di soluzioni eterodosse.
Questi procedimenti hanno comunque seri limiti. La vita costringe ciascuno a confrontare il proprio sistema di pensiero con la realtà. Ogni fallimento accresce l’insoddisfazione. I dogmatici si rarefanno mentre si moltiplicano gli spiriti critici e i cinici. La costruzione ideologica traballa per i colpi che vengono dal di fuori e si svuota internamente.
Nei Paesi non totalitari, un’ideologia è morta quando è divenuta insignificante per la schiacciante maggioranza della popolazione, come è successo in Gran Bretagna al marxismo e nella seconda metà degli anni Settanta al franchismo in Spagna.


L’esempio spagnolo illustra come nei Paesi totalitari sia impossibile che l’ideologia divenga insignificante senza che prima vi sia stato un sommovimento politico, poiché essa serve da giustificazione a un potere molto reale, ingombrante e oppressivo: finché questo resta in arcione, porsi nei confronti dell’ideologia in un modo anziché in un altro è per ciascuno molto importante – perché serve a gestire al meglio i propri rapporti con la polizia politica.
Quando poi il sommovimento si verifica, la rapidità con cui procede a volte ha dell’incredibile. Abbiamo assistito in passato a diversi esempi, e sarebbe certo molto bello assistere ad altri in tutti i Paesi in cui ce n’è bisogno.

NOTE AL TESTO
(1) Questo lavoro ha vent’anni e fu a suo tempo scritto in francese per una rivista accademica di Parigi che doveva dedicare un numero al fenomeno del totalitarismo (ma poi non uscì). L’ho rimaneggiato più volte nel prosieguo, ma nella presente traduzione non sono stato in grado di aggiornare diversi riferimenti ormai molto datati. Se lo riscrivessi ora, inoltre, fermerei l’attenzione più sulla necessità della tolleranza che sul totalitarismo.

(2)
Non si tratta però di truismi, perché non è detto che siano vere.

(3)
Sotto l’aspetto psicologico, il povero miscredente fin dall’inizio non era affatto tale: aveva già voglia di credere in Dio, altrimenti non si sarebbe assoggettato alla prescrizione di Pascal (che noia andare in chiesa, se non si è convinti che sull’altare avvenga qualcosa di sacro!). In molte situazioni sociali, la voglia di credere in una ideologia è rafforzata dalla repressione che infierisce su coloro che non ci credono. Mi sia permesso, a questo punto, di chiarire qualche giudizio di valore che mi è proprio, visto che la logica di questo articolo mi costringe ad adottare un punto di vista scettico verso idee che hanno grande importanza per molte persone. Le ideologie sono quasi sempre sacre e non mi pare conveniente dissacrare più del necessario. Io credo in Dio, e il mio processo di verifica eminentemente irrazionale consiste nel fatto che mi accorgo di indirizzarGli qualche preghiera. Il marxismo non mi seduce, anche se riconosco in esso molti elementi di verità, perché non credo che la necessità storica possa essere afferrata con processi intellettuali e perché se un gruppo di potere abbatte una classe dominante, che oggi è vincolata nella sua azione da quel tanto di decenza che è proprio di molti esseri umani e dall’esistenza di contrappesi politico-sociali, per definizione tale gruppo è più forte di quella classe, e per di più è composto da individui che desiderano molto il potere e dunque sono praticamente privi di decenza. Il che significa che l’oppressione aumenta, non diminuisce.

(4)
Qualche marxista particolarmente dogmatico poteva anche spingersi fino a dire:
C9’. Il marxismo non sarà mai superato.
Mentre altri si limitavano a dire che “alcune conquiste teoriche” del marxismo non sarebbero mai state rimesse in questione – il che, per usare un’espressione assai cara a Karl Marx, non è se non una “forma metamorfosata”, e in quanto tale meno evidentemente idiota, di C9’.

(5)
Nel newspeak dei marxisti dell’Est europeo, la parola corrispondente a “ideologia” non è mai riferita al marxismo, perché questo secondo l’ortodossia sarebbe una scienza. La parola russa “ideologija”, per esempio, significa “falsa coscienza”. I marxisti italiani al contrario non rifiutano di applicare la parola al loro sistema di pensiero. Io uso la parola, in queste pagine, come sinonimo di “sistema di pensiero” e “Weltanschauung”. Ciò non è preciso, ma non mi è possibile esprimere senza ambiguità tutto ciò che voglio esprimere in questo articolo. Se per amore di chiarezza faccio comunque uno sforzo di precisione e di rigore, non mi illudo certamente che tale sforzo possa sfuggire ai limiti necessari di qualunque sforzo umano per eliminare l’ambiguità – quei limiti che sto appunto cercando di illustrare con questo articolo.